buscè

dagli inviati, Giacomo Brunetti e Matteo Lignelli

L’azzurro nelle vene: Antonio Buscè, dal campo allo Scudetto con l’Empoli

All’Empoli dal 2002, con un paio di parentesi lontano da casa, l’attuale tecnico della Primavera ha cresciuto le ultime generazioni a Monteboro, arrivando a vincere lo Scudetto e portando per la prima volta il club in Youth League.

Non è uno dei quei casi in cui due strade s’incrociano al momento giusto. È più corretto dire che l’Empoli e Antonio Buscè, ex centrocampista oggi 46enne e allenatore della squadra Primavera dei toscani, hanno percorso e condiviso un bel tragitto insieme, finché entrambi, sia la società che il tecnico, non sono stati pronti per fare la storia raccogliendo i frutti del lavoro di una vita. La fotografia che li unirà per sempre è stata scattata il 30 giugno 2021 allo stadio ‘Enzo Ricci’ di Sassuolo. L’Empoli aveva appena conquistato il primo scudetto Primavera della propria storia.

 

Un trofeo che la famiglia Corsi aspettava da decenni, avendo sempre messo davanti al risultato di una singola partita la crescita e la formazione dei suoi ragazzi, cercando di non perdere nessuno per strada. Anche Buscè, quindici anni dopo aver vinto la Serie B sempre con gli azzurri, ammirava con gli occhi gonfi il riassunto del suo percorso come tecnico del settore giovanile. «In quel campionato ho ritrovato le annate che avevo cresciuto io ad Empoli: 2001, 2002 e 2003. Tutto si è incastrato alla perfezione» racconta.

 

«A Empoli si farebbe già un miracolo a tenersi stretta la Primavera 1, figuriamoci vincere uno scudetto. Ho provato una soddisfazione e un orgoglio enorme – ammette -. A febbraio eravamo in fondo alla classifica e quasi tutta la squadra aveva preso il Covid: non è stata un’annata semplice, alla fine è venuta fuori la cultura del lavoro di un gruppo che era qua da dieci anni e sentiva un legame profondo con la maglia e la società, e ovviamente la qualità che avevamo. A marzo non eravamo ancora né carne né pesce, poi è andata a finire così. Vi racconto questo: a tre ore e mezzo dalla finale con l’Atalanta scendo dalla mia stanza per la merenda tutti insieme e vedo i ragazzi sudati mezzi, senza maglia, che giocavano a ping pong o a calcio tennis. Quanto avrei dovuto arrabbiarmi? Ecco… ma ho capito che nella testa dei ragazzi c’erano una serenità e una convinzione di vincere pazzesca. Ho ancora la pelle d’oca se ci penso».

Seguire la traiettoria di quella formazione campione d’Italia aiuta a comprendere cos’è davvero Empoli. «Il vero capolavoro – spiega Buscè – lo avevamo fatto con quei 2003 ai tempi dell’under 16». In panchina c’era sempre lui ed era arrivato un altro scudetto contro l’Inter di Gnonto. Gli organizzatori credevano così poco nella vittoria azzurra che non avevano nemmeno preparato la targhetta col nome dei toscani da mettere sulla coppa. Diciamo che nella vita capita di aspettare per cose peggiori. C’erano già Tommaso Baldanzi, Duccio Degli Innocenti, Jacopo Fazzini, i prossimi talenti empolesi in rampa di lancio, che poi insieme ai 2002 come Emmanuel Ekong o Kristjan Asllani e i 2001 avrebbero trionfato pure in Primavera. Pur senza l’aiuto di Samuele Ricci (2001) e Mattia Viti (2002), già in pianta stabile nella prima squadra di Alessio Dionisi che stava vincendo la Serie B.

 

Non è semplice rapportarsi con ragazzi tra i 16 e i 18 anni che annusano la prima squadra, le tv, la Serie A, e il giorno devono calarsi di nuovo nelle categorie under. Ma gestire quel passaggio è fondamentale. Da decenni l’Empoli lo fa meglio di chiunque altro, o quasi, diventando uno dei vivai di riferimento in Italia e in Europa.

 

Com’è possibile? «Intanto c’è da dire che la società ha iniziato prima delle altre a creare questo percorso tra vivaio e prima squadra tramite il lavoro dei direttori sportivi che si sono succeduti e che ogni anno hanno sempre cercato di portare più ragazzi possibili ‘tra i grandi’. In più la società ha una dote unica: sa aspettare. Già, perché non è detto che chi esce dalla Primavera sia sempre pronto, anche se è molto forte» continua Buscè che considera Empoli la sua seconda casa. «Sono andato via dal mio paese, Gragnano (Napoli) a 15 anni, e qua ne ho passati una ventina, da giocatore e da allenatore, iniziando dagli esordienti e facendo tutto il percorso». Quando portava suo figlio a tirare i primi calci al pallone, Monteboro ancora non c’era. E quindi qualche ragazzo coi piedi buoni l’ha visto passare pure dal suo spogliatoio. «Quando giocavo io ‘salivano’ Lorenzo Tonelli, Andrea Raggi, Riccardo Saponara, gente così… e io facevo l’amico, non ‘il vecchio rompipalle’, ero un punto di riferimento per loro, davo una mano. Una sera il papà di Saponara venne a ringraziarmi fuori dal Castellani».

 

«Un approccio – chiarisce Antonio Buscè – che una volta in panchina ho dovuto cambiare. Non voglio passare per il santarello di turno, a volte ho ribaltato i tavoli dalla rabbia. Quando c’è da bacchettare va fatto, il passaggio è sottile: tu sei l’allenatore, non l’amico. I ragazzi devono capirlo. E quando si accorgono che li hai fatti crescere ti vorranno bene per sempre. Con Mattia Viti è andata così, una volta l’ho pure escluso da una partita decisiva, ma quando mi vede mi abbraccia e mi ringrazia». 

 

«Serve per farli maturare a livello di testa: l’allenatore della prima squadra ha altre mille cose a cui pensare. C’è orgoglio quando poi li vedi sulla bocca di tutti, come sta accadendo ora ad Asllani. In questo, il nuovo format della Primavera aiuta perché devi guadagnarti anche la salvezza e hai sempre un obiettivo da raggiungere. Come accade in ogni categoria».

 

A proposito di mentalità, conclude il tecnico della Primavera empolese, io punto sulla cultura del lavoro, è essenziale, senza non puoi stare in questo club. Poi cerco di trasmettere quei valori fondamentali per affrontare la vita fuori dal campo. Quando approccio una squadra spero che tutti e 25 diventino calciatori di professione, ma non sempre è così. A quel punto ti aspetta la vita, serve educazione, dei principi. Lo so bene, quando giocavo ero un privilegiato: con uno schiocco di dita potevo avere tutto. Non sai nemmeno cosa vuol dire fare la fila alle Poste. I miei ragazzi devono poter superare ogni cosa bella e brutta che gli si parerà di fronte».

 

di Matteo Lignelli