Mayoral: «Non ho permesso al diabete di spegnere i miei sogni»

by Alessandro Lunari

Ci sono storie che possono essere da esempio, spinta e motivazione per tutti. Chi riesce a realizzare i propri sogni nonostante le difficoltà o il punto di partenza. La carriera di Borja Mayoral ruota tutto attorno a questo. È partito da Parla, una cittadina in provincia di Madrid: a 4 anni ha scoperto di essere diabetico.

Una malattia che avrebbe frenato molti, ma non Borja e la sua famiglia che hanno fatto di tutto per realizzarsi. Da Valdebebas, fra i fenomeni del Real Madrid, fino all’Italia, a Roma. Poi il ritorno a casa: sempre Madrid, ma niente Blancos. Il Getafe ha puntato su di lui fino a sfiorare EURO2024 con la Spagna di Luis de la Fuente, suo mentore. Il nostro viaggio parte da qui.

 

«Al Getafe una stagione da MVP, ma EURO 2024 è il rimpianto più grande della mia carriera»

La Spagna è tornata sul tetto d’Europa la scorsa estate. Una dimostrazione di forza e carattere coniugati dal mix di giovani stelle – Yamal e Nico Williams su tutti – e campioni esperti. C’è chi EURO2024 lo ha solo sognato dopo averne assaporato l’idea: «Forse sarà il rimpianto più grande della mia carriera. Fino a marzo stavo avendo la miglior stagione della mia vita poi mi sono infortunato al menisco».

Fino alla primavera, infatti, Borja stava trascinando il suo Getafe a suon di gol e prestazioni: 17 gol in 31 partite: «Sin dal mio arrivo qui, mi sono trovato subito benissimo. È un ambiente familiare, in cui riesci a trovare la serenità giusta per fare la differenza in campo».

Numeri con cui la squadra si era avvicinata anche all’Europa, prima di terminare a metà classifica. Poi il grave infortunio il 2 marzo nella sfida contro il Las Palmas: «È stata una botta tremenda: sentivo di essere vicino alla Nazionale e poi conoscevo bene sia il CT che i compagni. Un vero peccato: non avevo mai avuto un problema del genere dal mio esordio fra i professionisti. Ora sono contento di essere tornato a giocare e a segnare. La prima parte di questa stagione è stata complicata: dovevo recuperare dall’infortunio al menisco e poi ho avuto un altro problema fisico. Ma la squadra non ha mai smesso di starmi vicino, anzi. Devo ringraziarli».

A complicare le cose, a marzo, anche l’incertezza sulle tempistiche: «All’inizio dicevano un paio di mesi di stop. Poi ne sono diventati 3 o 4. È diventato un incubo. A livello emotivo è stato un duro colpo, ma in un modo o nell’altro dovevo farmi forza. Appena mi sono infortunato, De La Fuente mi ha chiamato: ‘Coraggio, Borja!’. Mi è sempre stato vicino per tutti quei mesi: fra di noi c’è un rapporto speciale. Mi ha sempre dato la fiducia di cui un calciatore ha bisogno. Abbiamo vinto insieme l’Europeo U21, sono contento del percorso che sta facendo. E ovviamente sono felice che con la Spagna abbia vinto EURO2024… solo che mi sarebbe piaciuto essere lì».

Pensate. Nonostante lo stop a marzo, Borja ha comunque vinto il Premio ‘Zarra’, un riconoscimento che va al miglior marcatore spagnolo della stagione. Un premio che ha condiviso con Álvaro Morata: «15 gol senza 3 mesi di stagione. Uno potrebbe pensare: ‘Mamma mia, se li avessi giocati senza quel maledetto infortunio, avrei potuto segnare di più e vincere in solitaria’. Ma sono comunque felice di aver condiviso il premio con un amico come Morata. Sicuramente è stato un bel passo avanti per la mia carriera».

 

Il pupillo di Zidane al Real Madrid

Proprio come Morata, anche Borja Mayoral è cresciuto nel settore giovanile del Real Madrid. Ha fatto tutta la trafila fino alla prima squadra arrivando ad esordire a 18 anni con i Blancos di Rafa Benitez. Prende il posto di Toni Kroos per una manciata di minuti contro il Las Palmas: «Quel giorno è stato speciale. È una data che segno sempre nel calendario. Ricordo tutto come fosse ieri: mi allenavo con loro già da un po’, ma poi tornavo a giocare con la Primavera. Oppure magari finivo nei convocati o addirittura arrivavo a riscaldarmi, ma niente. Lì invece è successo: conserverò quel momento per tutta la vita. Ricordo che alla fine mi hanno riempito di complimenti, io non ci credevo».

C’è un allenatore che però ha segnato il percorso di Borja: Zinedine Zidane, che stravedeva per lui. Davvero. «Mentre studiava per prendere il patentino da allenatore, Zidane veniva ad assistere agli allenamenti del settore giovanile, soprattutto quando facevamo dei lavori specifici sugli attaccanti. Ero un ragazzino, ma lui mi fermava spesso: ‘Tu hai qualità. Sei un grande giocatore’. Quando ha iniziato con la Primavera, mi ha convocato per qualche partita. 6 mesi dopo, è diventato l’allenatore del Real Madrid… e indovinate su chi ha puntato? Mi faceva giocare titolare a 19 anni. Ogni giorno mi prendeva da parte: ‘Borja dai, rimaniamo ad allenarci. Io e te’. Tiri, transizione, tecnica, tutto. Si fermava lì e iniziava a farmi i passaggi. Immaginate: una leggenda del calcio che si trattiene al campo per voi. Capite che effetto fa? È stato un periodo troppo bello. In quanti possono dire di essere stati allenati da Zinedine Zidane?».

Per farsi le ossa, poi, Mayoral si trasferisce in Germania al Wolfsburg: «Quell’esperienza mi ha reso più maturo: è stato un grande cambiamento per me. Non solo nel calcio, ma anche per il clima e la lingua. Io non parlavo bene neanche l’inglese, figuriamoci il tedesco. E poi ti ritrovi a migliaia di km da casa, senza amici e famiglia. C’era solo mio fratello. Ho dovuto imparare tante cose proprio a livello di vita personale. Non tornavi più a casa con il piatto pronto. Lì ho trovato un altro fenomeno come Mario Gómez: parlava in spagnolo, mi ha aiutato tantissimo anche con l’allenatore».

Quando torna al Real Madrid, non è cambiato nulla. Anzi: «All’inizio Zidane non voleva neanche farmi partire. Voleva che rimanessi in prima squadra, ma io avevo bisogno di giocare con continuità. Eravamo tanti ragazzi giovani: io, Hakimi, Llorente».

 

Il peso di essere al Real Madrid, fra CR7 e Benzema

Crescere in uno dei settori giovanili migliori al mondo può essere un’arma a doppio taglio. Borja non lo ha mai nascosto. Da un lato, il privilegio di crescere in un centro sportivo praticamente perfetto, all’avanguardia, accanto a fuoriclasse e leggenda. Dall’altro, il confronto quotidiano con il peso di quella maglia: «Ci sono due modi di vedere questa cosa. È vero che al Real Madrid è tutto bellissimo: hai a disposizione qualsiasi cosa per la tua crescita e realizzazione professionale e non solo dall’istante in cui metti piede nella Cantera. Però c’è anche tanta pressione: sembra bellissimo perché vinci sempre e ti abitui, ma devi ricordarti ogni giorno una cosa. Che lì sei con i migliori: c’è una competizione estrema. Il giorno in cui esci, vedi la realtà: intanto inizi a non vincere sempre. E poi capisci come sia il calcio vero, quello normale… per tutti gli altri. Al Real sei in un’élite. Stupendo, è un lusso. Ma il calcio non finisce lì».

Per quello è importantissimo avere al proprio fianco persone che riescano a tenerti con i piedi per terra: «Nel settore giovanile io giocavo con quelli di due categorie sopra la mia età. È sempre stato così. Mi faceva sentire forte, ovviamente. Ma poi arrivava mio padre: ‘Borja, rimani qui. Pianta i piedi per terra’. È il consiglio che mi sono sempre portato dietro, anche quando mi allenavo con Cristiano Ronaldo o Benzema. Loro sono stati fantastici con me. CR7 mi parlava tanto in partita, soprattutto per i movimenti da fare. Karim mi incitava in settimana: ‘Lavora, lavora duro che poi il tuo momento arriva. Anche se non giochi o magari lo fai solo per 10 minuti, devi farti trovare pronto. Sempre. Perché sei al Real Madrid’».

Mentre i tuoi amici e compagni a quell’età vanno a scuola, si divertono, vivono un’adolescenza comune, tu sei in campo con Cristiano Ronaldo, Ramos, Marcelo e così via: «Nel mio paesino mi riempivano di domande: ‘Com’è allenarsi con Varane, Ramos o CR7?’. La verità è che erano momenti speciali. C’è una foto che conservo ancora: è di una partita contro il Deportivo, vincemmo 7-1. C’è Cristiano a sinistra, Bale a destra e io davanti, centrale. In quegli istanti per me era normale essere lì, oggi la vivo diversamente. Ma sono felice di poter dire: i sogni si realizzano».

 

Il diabete e la malattia condivisa con Nacho

Negli anni al Real Madrid c’è stato un compagno speciale per Borja: Nacho. Il difensore spagnolo ha scoperto di essere diabetico all’età di 12 anni. Una malattia condivisa che entrambi, però, hanno imparato a gestire crescendo e arrivando al massimo livello nel calcio: «Ne parlavamo, ci confrontavamo spesso: ‘Ma tu cosa fai? Quando mangi questo, come stai?’. Per noi era tutto normale. La mia vittoria più grande è non aver permesso alla malattia di spegnere i miei sogni».

D’altronde Borja ci ha sempre convissuto da quando aveva 4 anni: «Credo che il diabete abbia cambiato più la vita ai miei genitori che a me. Io ero piccolo, non mi rendevo conto di nulla. Loro si sono dovuti abituare a controllarmi, a medicarmi, a regolare lo zucchero. Immagino sia stato brutto all’inizio, ma penso che abbiano fatto tutto nel migliore dei modi. Anche nei primi anni in cui giocavo a calcio io andavo periodicamente in ospedale, ma erano i miei genitori o lo staff del Real Madrid a fare tutto».

Crescendo e capendo di poter avere un futuro serio nel calcio, Borja è diventato autonomo anche in quello: «Col tempo ho imparato a farmi da solo le punture, a controllare i miei dati glicemici e l’alimentazione. È una malattia che ti insegna a rispettarti sotto tutti i punti di vista. E oggi so di essere un punto di riferimento per molti: famiglie e bambini mi scrivono spesso. In futuro vorrei creare un’associazione per tutte quelle persone che faticano a reperire informazioni corrette o a curarsi. Ho già aiutato molta gente in Spagna e in Italia, è una cosa che faccio con piacere».

 

Una Roma a due volti: con Fonseca e Mou

L’Italia, sì. Oltre ad aver creato da noi la propria famiglia, Borja è passato anche per la nostra Serie A con la maglia della Roma. Poco più di un anno in giallorosso durante le stagioni colpite dal COVID. Prima con Paulo Fonseca, poi con José Mourinho. Due portoghesi che hanno condizionato in maniera totalmente differente la sua avventura.

«Venivo da due anni al Levante dove avevo fatto molto bene. Il Real Madrid voleva che rimanessi, ma quando il mercato stava per chiudere, il mio agente mi fa: ‘Hai un’offerta dalla Roma. Però, vedi tu… è una piazza difficile’. Non ho avuto dubbi: ‘Mi piacciono le sfide. Sono stato al Real, voglio giocarmela anche lì’. Mi sentivo pronto e poi desideravo con tutto me stesso una chance per scendere in campo con continuità». Ad incidere sulla scelta è stata anche una telefonata con Fonseca: «Dalla prima chiamata mi ha convinto. Lui stava facendo bene, aveva bisogno di un attaccante con caratteristiche un po’ diverse da quelle di Dzeko. È stata un’esperienza unica, indimenticabile».

L’ambientamento è stato semplice: «In quella Roma c’erano tanti spagnoli: Pedro, Perez, Villar. Ci ritrovavamo spesso insieme per guardare le partite, mangiare o conoscere la città. E poi c’era gente come Dzeko, Mkhitaryan, El Shaarawy, Pellegrini: tutti ragazzi splendidi. Anche con Edin avevo un bel rapporto: parlavamo molto. Nella mia prima stagione ho fatto molto bene: giocavo pochi minuti, ma riuscivo sempre a segnare. È stato un peccato non aver vinto nulla, nonostante la semifinale di Europa League con il Man United. Poi tra infortuni e l’addio di Fonseca la mia esperienza è cambiata totalmente».

Con l’arrivo di Mourinho, Borja finisce ai margini della squadra: «La Roma voleva che rimanessi anche perché dopo i 17 gol del primo anno volevano usare la recompra. Ma Mourinho ha preferito prendere altri rinforzi, scegliere i giocatori per la sua rosa: non ho avuto la possibilità di dimostrargli niente. Credo di aver giocato 3 partite. Io e Villar, anche lui in prestito, siamo andati al Getafe: avevo troppa voglia di giocare e dimostrare quello che potevo fare».

 

Borja al centro del Getafe per un obiettivo: prendersi la Spagna

Borja saluta l’Italia nel gennaio del 2022. Ad aspettarlo c’è il Getafe che gli costruisce attorno un vero e proprio progetto: «Uno può pensare: ‘Ma come? Dalla Roma decidi di andare al Getafe?’. Certo, Real Madrid, Roma, così come Milan o Inter sono dei top club, ma la verità è che se non giochi, non sei felice. E poi il Getafe ha dimostrato grande interesse per me. Io cercavo un contratto lungo per ambientarmi, anche dopo i tanti prestiti. Ormai sono passati 3 anni: mi sto trovando benissimo. Ora voglio tornare al mio livello, a ciò che ho dimostrato di poter fare nella passata stagione».

La cura maniacale, sotto tutti gli aspetti, con cui il Real Madrid fa crescere i suoi giovani talenti è difficile da trovare altrove. Per questo motivo, sin dalla prima esperienza fuori, al Wolfsburg, Borja si è circondato di un team di professionisti che ha iniziato a seguirlo ovunque. Anche ora al Getafe.

Nutrizionisti, fisioterapisti, mental coach: «Mi sono reso conto di quanto sia importante per un calciatore lavorare a 360 gradi. Al lavoro tecnico-tattico extra campo, come quello che si fa con i video, ho deciso di affiancare altre figure. Il vero salto, però, l’ho fatto con lo psicologo: la salute mentale è troppo importante. Prima era un tabù, ma ormai viviamo in un modo dove c’è pressione ovunque. Anche sui social. Magari leggi delle cose per cui non hai gli strumenti giusti per affrontarle. Parlare con uno specialista ti aiuta a capire le tue emozioni, quello che ti succede e da dove partono i tuoi pensieri».

L’attenzione e il lavoro che Borja pone su tutta la sua persona è orientata, ora, ad un unico grande obiettivo: riconquistare la chance di giocare con la Nazionale spagnola. «Sono stato in U19 e U21, mi manca solo la prima squadra. E poi ora c’è un gruppo che conosco molto bene: nelle Under abbiamo vinto due Europei insieme. Avevamo già un’intesa incredibile. Quando uno si trova così bene, soprattutto durante i tornei dove passi insieme molto tempo fra allenamenti e ritiri, è più facile ottenere risultati».

Già in quegli anni, d’altronde, quella Spagna era fortissima: «C’erano Ceballos, Asensio, Merino, Olmo, Rodri, Ruiz. Mamma mia quanta qualità! Non eravamo ancora coscienti di quello che potessimo fare, ma eravamo amici. E quella è stata la chiave. Vedevi che tutti loro avevano qualcosa di speciale… Rodri su tutti: era già al Villarreal B, ma guardate dov’è arrivato? A vincere il Pallone d’Oro. Un altro fenomeno però è Merino: ora gioca praticamente come numero 9 all’Arsenal e fa gol pazzeschi. Chi lo avrebbe mai detto?».

Borja ha ricominciato la sua scalata. Un po’ come quella fatta da Parla, con suo papà José Luis macellaio e Maria Isabel casalinga: «Abitavo in un piccolo quartiere, molto umile. È stata un’infanzia semplice, ma non ho mai smesso di sognare». È arrivato al Real, fra le stelle. Da avversario gli ha già segnato due volte: «Di solito sono uno freddo, che non sente la tensione anche se ovviamente nel pre-partita qualcosa dentro percepisci. Ma contro il Real Madrid è tutto diverso: è una sensazione strana. Al gol con il Levante ho chiesto scusa, a quello con il Getafe – il 1° nel nuovo Bernabéu – sono riuscito anche ad esultare un po’. Erano passati anni, era un’emozione diversa».

Nell’ultima giornata de LaLiga il suo percorso ha incrociato di nuovo i Blancos. Borja non è riuscito a segnare e il suo Getafe ha perso 1-0. Ma a salvezza quasi conquistata (+7 sulla terzultima), Mayoral pensa già in grande: riprendersi ciò che il destino gli ha tolto. Possibilmente, sempre al fianco di Luis de la Fuente.