Tre anni e mezzo lontano dal campo, Romagna torna in Serie A: «Vi racconto il calvario e come mi ha cambiato»

by Giacomo Brunetti

Tre anni e mezzo sono una vita. Soprattutto se sei giovane. Soprattutto se fai il calciatore. È il tempo intercorso tra l’ultima partita di Filippo Romagna e il suo rientro in campo. Quando si è fatto male, l’Italia non conosceva neanche la parola lockdown. Quando è tornato, l’Italia aveva quasi dimenticato l’esistenza del Covid e le sue limitazioni. Il suo nome è sempre rimasto lì, in rosa, e in pochi si sono accorti della sua scomparsa. Ma dietro alla riconquista della Serie A con le proprie gambe – in tutti i sensi – grazie alla vittoria dell’ultimo campionato di Serie B con il Sassuolo, c’è una storia che parte da lontano. Anche perché, appunto, la vita di Romagna è praticamente scandita dalla cronaca. Se il suo infortunio è combaciato con lo scoccare di una pandemia che avrebbe travolto non solo il suo Paese, il suo primo allenamento da piccolissimo porta una data: 11 settembre 2001, «me lo ricordo benissimo: avevo 4 anni e nel pomeriggio dovevo iniziare la scuola calcio con mio fratello».

Non vedevano l’ora. «A un certo punto – ci racconta Filippo – vediamo nostra mamma completamente sconvolta davanti alla televisione. Ero piccolo, non mi rendevo conto della gravità dell’accaduto. Nel pomeriggio agli allenamenti non si parlava d’altro». C’è chi, quel giorno, davanti alla tv ha avuto il trauma della Melevisione, lui quello degli allenamenti: «È stato un grande shock e non dimenticherò mai, appunto, il primo giorno in cui ho giocato a calcio».

Tutto merito di una maglietta di Del Piero

Romagna, classe ’97 che ha bruciato le tappe, tanto da essere aggregato a 16 anni alla prima squadra della Juventus, torna in Serie A dalla porta principale e con una consapevolezza in più: «La passata stagione è stata bellissima perché abbiamo vinto tante partite: abbiamo fatto sembrare facile ciò che facile non è assolutamente stato. Anche perché dopo le prime quattro partite non avevamo iniziato al meglio e abbiamo detto ‘Aspetta un attimo, quest’anno è tosta’. Invece siamo stati bravi a farla sembrare semplice, riconquistando la Serie A in questo modo. Sappiamo che quest’anno ci aspetta tanta fatica, sarà tosta ma sappiamo cosa vogliamo, dovremo cambiare la mentalità: nella scorsa stagione arrivavi spesso da una vittoria, ora dobbiamo settarci sul fatto che anche un punto in alcune circostanze è un ottimo risultato».

Il suo percorso è iniziato sotto una buona stella, con una “giocata” della dirigenza della Juventus che lo aveva notato nelle giovanili del Rimini. Ma Filippo all’inizio non ci voleva andare: «Non me la sentivo di lasciare casa». Poi quell’incontro che lo ha folgorato: «Loro sono stati intelligenti: hanno invitato me e la mia famiglia un weekend a Torino, facendomi vedere tutto, dalle strutture ai calciatori della prima squadra, tra cui proprio mister Grosso! Quando li abbiamo incontrati, Chiellini ha regalato una maglietta a mio fratello… a me invece Del Piero! Sono stati bravi… significa che mi volevano tanto».

Quella maglietta del fratello è diventata una pettorina in allenamento: «Ho fatto lunghi periodi con la prima squadra della Juventus: per un difensore in quegli anni era uno spasso. C’erano quelli della BBC, cercavo di rubare ogni giorno a quei mostri sacri. Si compensavano tra di loro, avevano mentalità e preparazione alle partite. Questa gliel’aveva trasmessa anche l’allenatore: prima Conte e poi Allegri. Era clamoroso davvero come si compensassero. Gli altri difensori in rosa, gente come Cáceres, sembrava quasi normale rispetto al loro livello. Quando ti alleni nella Primavera della Juventus, vedi la prima squadra così vicina e pensi di poterci stare. Quando sali e inizi il percorso… ti rendi conto della differenza di livello e di quanto sei fortunato ad avere quell’opportunità. Capisci che c’è tanta strada da fare».

Da titolare con De Zerbi a un calvario di oltre tre anni

La Juventus lo manda a farsi le ossa, poi a crederci è il Cagliari, dove trascorre «due anni in cui mi sono trovato davvero bene». Successivamente l’occasione di firmare con il Sassuolo, motivato anche dal poter lavorare con Roberto De Zerbi, «che ha cambiato completamente il mio modo di vedere il calcio. L’ho ammirato molto. Appena arrivato, mi ha chiamato in uno stanzino: ‘Per me parti dietro agli altri, sei l’ultimo arrivato’, è stato subito chiaro. Poi ho iniziato a giocare e anche grazie ad alcuni infortuni altrui, ho trovato spazio nelle rotazioni». Un allenatore che, appunto, gli ha lasciato una traccia. Ma quando Romagna sembrava mostrare il proprio miglior calcio, «proprio quando stavo avendo continuità, un infortunio molto grave al tendine rotuleo mi ha stroncato. Era il miglior periodo della carriera: avevo 22 anni. Il giorno prima, il premier Conte aveva chiuso l’Italia per il primo lockdown e questo ha amplificato i tempi di recupero e complicato sia l’operazione che la riabilitazione. Sono stato fermo per più di tre anni. So bene i sacrifici che ho fatto per tornare».

Qui inizia un calvario: ultima partita il 9 marzo 2020, rientra il 26 maggio 2023 scendendo in campo un solo minuto contro la Sampdoria. Tre stagioni saltate e, quella successiva, in prestito alla Reggiana prima di rientrare al Sassuolo e riportarlo in A in quella appena passata.

«Ero un 22enne che giocava titolare in Serie A. La prima partita che ho fatto dopo l’infortunio… l’ho fatta a 26 anni. Pensavo: ’Ho lasciato che ero un giovane, rientro che sono un giocatore affermato’. Solo che nel frattempo avevo saltato tutto, mi ha fatto strano. Mi è servito, avrei preferito evitarlo, ma con il senno di poi, mi ha insegnato tanto e fortificato. Certo, tornassi indietro lo eviterei volentieri… ma mi ha formato caratterialmente. Ho avuto sfortuna, ma sarebbe stato peggio più avanti: se ti accade a 22 anni, hai tutto il tempo per tornare in pista; se ti accade a 30, forse, hai finito», un’analisi che Romagna affronta con lucidità. Il peggio è passato.

Quattro operazioni e un tunnel che sembrava senza uscita

Ma ci tiene a raccontarci ciò che ha passato. Senza mai mollare: «Mi sono operato con la previsione di rimanere fuori all’incirca 8 mesi. Alla fine sono stati più di 3 anni. Questo ha cambiato anche il modo con cui vedo gli infortuni: spesso quando uno si fa male, 6 mesi fuori sembrano un’eternità. Che vuoi che siano! Dopo 16 mesi, io facevo fatica a correre, nonostante facessi un doppio allenamento tutti i giorni, più provavo e riprovavo ma si infiammava tutto. Dopo 16 mesi, che sono tanti, abbiamo capito che non riuscivo davvero a correre. Quindi sono andato a Barcellona per un intervento, mai fatto su un calciatore, per provare a risolvere la situazione: neanche l’ortopedico sapeva darmi dei tempi di recupero, nessun giocatore lo aveva mai fatto. Ma non avevo scelta, non c’erano alternative. Ho avuto la fortuna di avere la mia famiglia così vicina, partendo da quella che all’epoca era la mia fidanzata e oggi è mia moglie Ketrin. Mio fratello, poi… partiva di notte da casa per venire da me, per starmi vicino, perché in quei 16 mesi c’è stato anche tanto dolore, pure fisico perché il ginocchio si infiammava e mi faceva male. Tutti mi dicevano di andarci sopra, ma non migliorava mai e subentrava la frustrazione. Avevo paura di dover smettere, non lo volevo accettare, non ci volevo credere. Però guardavo i segnali che mi mandava il mio corpo e non c’era altra strada. Poi questo intervento: o la va, o la spacca. ‘Non so come ne uscirò’, mi ripetevo. Ma dovevo andare avanti. Dopo quella, ci sono state due ulteriori operazioni».

Con il Sassuolo – che nel 2020, nonostante l’infortunio, lo aveva acquistato a titolo definitivo – sempre accanto: «Tutti questi passaggi li ho fatti in condivisione con il Club. Era una battaglia comune e mi sono stati vicini con i fatti. Abbiamo affrontato ogni singola tappa insieme».

C’è anche un altro lato della medaglia

L’infortunio gli ha fatto vedere il mondo da un’altra prospettiva. E durante i lunghi tempi lontano dal campo, non ha perso tempo. Anzi, ha avuto paura di dover smettere e ha iniziato a cercare un’alternativa: «Prima vivevo solo di calcio. Quando ho iniziato a capire che forse avrei dovuto smettere, mi sono iniziato a chiedere cosa avrei fatto dopo: ‘Metti che non ci riesco più, che faccio?’». È ripartito: «Ho dovuto pensare a un piano B: un percorso di studi. Mi sono fatto forza e ci ho investito, è un consiglio che do ai giovani. Non tutti diventeranno calciatori e anche se arriveranno, ci sono mille variabili per cui quel sogno può finire. Qualcuno diventerà calciatore, ma magari qualcun altro può diventare un medico, un ingegnere o qualunque altra cosa. Basta che sia felice. In quel momento di difficoltà mi sono reso conto che mi sarebbe piaciuto rimanere nel calcio, che stavo conoscendo la parte di campo e che avrei dovuto allargare gli orizzonti a quella dietro a una scrivania. Ci alleniamo una volta al giorno per la maggior parte delle volte, dovevo investire l’altra metà in qualcosa: ho ripreso a studiare. Mi sono iscritto a Economia, un corso di laurea triennale online. Adesso sono al secondo anno e sto coltivando l’idea di formarmi».

Ci spiega che «l’infortunio mi ha fatto capire l’importanza del calcio nel bene e nel male. Mi è mancato tantissimo, ho avuto paura di perderlo e gli do ancora più importanza di prima. Però lo vivo con meno tensione: prima delle partite, un tempo, ero un pochino teso; adesso certo, hai quella tensione, ma positiva, penso ‘Che bello, finalmente si gioca’. Dall’altra parte ho capito che non c’è solo quello, durante la riabilitazione ho visto oltre, anche situazioni più gravi delle mie che mi hanno fatto sentire fortunato».

«Mi sono addormentato a 22 e mi sono risvegliato a 26. La carriera del calciatore è breve: ogni giorno lavoro per allungarmela dei tre anni che ho perso e recuperarli», una frase che spiega tutto, compresa la motivazione con cui affronterà di nuovo questa sfida chiamata Serie A.