a cura di Giacomo Brunetti

Abbiamo vissuto una partita di Conference League all’interno di una squadra sammarinese

Vivere da vicino una competizione internazionale fa venire i brividi. Pensa giocarla. Ci siamo affidati alle emozioni dei ragazzi del Tre Fiori, società sammarinese impegnata nell’impresa Conference League.

Ci siamo. La strada che porta da Fiorentino al San Marino Stadium è tortuosa. Ci snodiamo come un serpente sulle colline che abbracciano il Monte Titano, cima riconoscibile e identitaria per la Repubblica più antica del mondo che si sviscera proprio intorno alle sue pendici. Il panorama, mentre le nuvole creano contrasto con il tramonto, assume un contorno biancazzurro. Anzi, tutto è biancazzurro: sono i colori di un Paese che stasera tifa Tre Fiori, i cui colori sociali sono giallo e blu, che provano timidamente a imporsi su quelli federali.

 

Sono una squadra dilettantistica, ma l’impegno europeo è una questione di stato in tutti i sensi. Come detto, gli introiti dei club sammarinesi nelle competizioni internazionali, finiscono nelle casse della Federazione, che successivamente li ripartisce. Quindi, è la stessa Federazione a garantire un’organizzazione di livello sul match-day. Il San Marino Stadium si compone di due tribune, entrambe coperte, e di spogliatoi all’avanguardia: una parte per le società, l’altra per le Nazionali. Dentro quello della selezione sammarinese, a cambiarsi è anche il mister Andy Selva, uno che lì dentro ha avuto casa, soprattutto prima della recente ristrutturazione. La leggenda.

 

I magazzinieri hanno già preparato tutto. Le divise da gioco sono ordinatamente disposte in ogni luogo della stanza, in modo tale che tutti i calciatori riescano a guardarsi in faccia. Eccoli, adesso, gli avversari: «Ma perché non scendono?». Effettivamente, il B36 si trattiene qualche minuto all’interno del pullman, chiuso davanti all’ingresso della struttura che accoglie gli spogliatoi. C’è tanta curiosità perché non è escluso che dal Nord Europa sia arrivato qualche volto nuovo rispetto all’andata. «Sono proprio curioso di vedere dove gioca il 3…», dice preoccupato un magazziniere. Qualcuno in tenuta bianca, altri in tenuta nera, sembianze che mischiano l’influenza danese con dei tratti somatici britannici, e gli occhi convinti: eccolo, il B36.

 

 

Di lì a poco, il cancello dello stadio si apre anche per i padroni di casa. Ci sono amici e familiari a sostenerli, sono venuti da tutta la Repubblica.

 

C’è un momento, mentre gli enormi alberi alle spalle del tabellone luminoso si colorano di un verde lucente grazie ai riflettori, formando un’ideale curva di ultras silenziosi, ma ingombranti, in cui il nostro occhio riprende Giorgio Leoni fermo a bordo campo. Un piede fuori dal rettangolo di gioco, l’altro a calpestare la linea bianca. Quante ne ha viste. Tutti parlano nervosamente, lui è da solo in silenzio. Si volta e annuncia: «Questi stanno provando i cambi di gioco dall’inizio del riscaldamento». Un occhio vigile, attento, esperto. La sua tensione si legge tra le rughe che gli definiscono la faccia. Chissà quante ne ha viste, ma ogni volta è come la prima.

 

Questo è il momento. Si inizia. Il B36 tiene il pallone, attende. Il Tre Fiori pressa, tiene bene il campo, si dimostra molto più organizzato tatticamente degli avversari. Sulla carta non c’è storia: il budget per costruire la squadra ha un rapporto 11:1. Ma se non lo sai, e in quei momenti sei seduto su un seggiolino del San Marino Stadium, osservando dall’alto la partita, non lo diresti mai. Soprattutto quando là dietro Enrico Pezzi, che di professionismo ne ha fatto anche in Serie B, tiene la barra dritta anche se i lanci di Thor Høholt e Sonni Nattestad cercano di superarli per imbeccare i 4 giocatori che sistematicamente i faroesi gettano in attacco. Non lo diresti mai quando Lo Russo, sulla fascia sinistra, si inventa un geniale scavetto per Gjurchinoski: in tribuna si alzano in piedi, sanno che dai piedi di Bojan esce sempre qualcosa di buono. Si accentra a piccoli passi, puntando tutta la difesa, e come un cestista che tenta il tiro da 3 completamente sbilanciato, calcia con il destro a rientrare. Lamhauge, il portiere avversario, è nato nel 1999 e ha già una buona esperienza alle spalle. Una parata così, però, non l’ha mai fatta. Si accorge che il tiro di Gjurchinoski sta per finire preciso all’incrocio dei pali. Con un disperato colpo di reni, smanaccia quanto basta per metterla in angolo. 

 

Il Tre Fiori sa che quella era l’occasione della vita.

 

Ma la vita sa essere piacevole, così come crudele. Perché la supremazia sammarinese non si annichilisce dietro all’adrenalina per l’occasione sfiorata. Mancano 10 secondi alla fine del primo tempo e Sonni Nattestad – che, probabilmente, è il giocatore più temuto dai suoi avversari – commette l’unico errore della sua gara. Il lancio di Andrea De Falco gli sbatte sulla schiena e Massimo Goh può involarsi verso la porta. Anche lui è nato nel 1999 e, come per Lamhauge poco prima, quello diventa il pallone più pesante di sempre. Si allarga nell’uno contro uno con il portiere, che respinge il primo tiro. A quel punto, a difesa dei pali non resta nessuno. Lamhauge si trasforma in un gatto e, da terra, riesce però a bloccare la respinta.

 

Cala il silenzio, Massimo si copre la faccia con la maglia del Tre Fiori. Rimane impietrito mentre i compagni pressano con le gambe che tremano dalla disperazione. Gli ultimi secondi sono una ricetta mistica dentro la quale i padroni di casa inseriscono paura e delusione. Si va al riposo con il B36 che non ha praticamente mai tirato. Il Tre Fiori sì, e lo sa.

 

Massimo Goh è cresciuto nella Juventus ed è originario della Costa d’Avorio. Per le cronache, a volte, è menzionato come il cugino di Moise Kean. Quando militava nella Cavese, ha battuto pure gli insulti razzisti. La sua carriera, però, non è decollata, e l’opportunità del Tre Fiori è troppo ghiotta per non coglierla. D’altronde qui, gli ex prodigi, sono sempre rinati. I minuti che vive dentro lo spogliatoio, all’intervallo, sono osceni. Non parla, ripensa alla doppia parata di Lamhauge. C’è un secondo tempo da giocare.

 

 

Gjurchinoski fa subito capire che il Tre Fiori non è certo domo. Anzi, il tempo di rientrare e spara un missile che sfiora ‘il sette’ faroese. Lo Russo, invece, colpisce la traversa con un fortuito tiro cross. Sembra una maledizione. Una maledizione che si è frapposta tra la realtà e il lieto fine della favola. La squadra di Selva inizia a provarci con i cross, De Falco prende il tempo ai difensori come Messi nella finale di Champions League a Roma, ma senza perdere né la scarpa, né la lucidità per esultare. Palla fuori. Mantovani non trova Goh sul secondo palo, il forcing prosegue e il tempo scorre più velocemente rispetto a prima. Il B36 è provato, sulle gambe, soffre gli avversari e il clima. Entra anche Dolcini, che all’andata non c’era perché aveva l’ultimo esame dell’università: è lui, ora, che comanda l’azione. Subentrano anche i crampi tra le fila sammarinesi

 

Da qualche secondo sono le 22:36, quando Andrea De Falco si accascia a terra, seguito da Goh. La partita è finita: il Tre Fiori è fuori dalla Conference League. Il fischio finale, però, viene sopraffatto dagli applausi di tutti gli spettatori: è standing ovation, forse il risultato più storico che una squadra sammarinese abbia mai raggiunto. Usciti a testa alta, meritando la qualificazione. A un passo dalla storia. L’orgoglio e la consapevolezza sono talmente tanti che il Tre Fiori non si abbatte, anzi recrimina. Perché adesso c’è un’altra dimensione con cui fare i conti, quella che porta il treno alla stazione «Competitività». E poco importa se per vivere momenti come questo si deve rinunciare alla famiglia, alle ferie, al lavoro. Poco importa se, là fuori, non lo capiscono.

 

In questo caso, il calcio ci ha raccontato un’altra imperdibile storia. Che abbiamo avuto l’onore di vivere in prima persona, come se il Tre Fiori facesse parte di noi, e viceversa. Una storia magica aggrottata sul Monte Titano. Tutti sanno di aver compiuto un’impresa. Ora ci si saluta: qualcuno rimarrà, qualcun altro no. Appuntamento tra 15 giorni per la preparazione al campionato e alla supercoppa. Prima, però, il difensore Umberto De Lucia ha un annuncio da fare ai compagni: «Posso dire che è stato un mese incredibile insieme a tutti voi. Volevo dirvi che mi sposo, e che siete tutti invitati a Napoli, compatibilmente con i vostri impegni lavorativi». È proprio il timbro su un racconto di persone normali.