«Lasciare lo sci per il calcio è stata dura. Non crescevo, mi chiamavano ‘pollito’»

by Lorenzo Cascini
berenguer

Se Alex Berenguer fa il calciatore lo deve a una scelta, presa in un pomeriggio d’estate dopo giorni di riflessione, messo con le spalle al muro da un aut aut. ‘Decidi tu, il pallone o lo sci’. «Ho scelto il calcio, ma ti confesso che prima ci ho pensato un po’».C’è stato infatti un tempo in cui l’esterno dell’Athletic Bilbao, che oggi ha 27 anni, si è trovato a dover decidere tra le montagne di Andorra e i campi da calcio dell’Osasuna.  «Il pallone per me è sempre stato un’ossessione. Giocavo ovunque, bastava uno spiazzo libero e due felpe da mettere a terra per fare le porte». Durante la settimana gioca a calcio, nel weekend invece papà carica tutti in macchina e porta la famiglia a sciare. Alex è fortissimo in entrambi gli sport. Dribbla sulla fascia bene come vola via in slalom tra i paletti blu. È sempre il più veloce. A un certo punto però arriva il momento di scegliere. «Avevo 15 anni e giocavo nelle giovanili dell’Osasuna, ma ero il più piccolo della squadra e non crescevo. Mi chiamavano pollito – che in spagnolo vuol dire pulcino – tanto che ero esile. Il fisico mi limitava, ho pensato anche di smettere. Su questo devo un grande grazie a Enrique Martin, mi ha convinto lui a crederci e non mollare».  Nel giro di due anni esordisce in prima squadra, in Coppa del Re contro l’Alaves. «Pensa che salto! Rischiavo di essere messo in disparte, magari di cambiare tutto, e invece in così poco tempo mi sono trovato in campo tra i grandi». 

Berenguer: «Ho preferito puntare in dribbling gli avversari piuttosto che i paletti»

Mentre lo racconta Alex sorride, ripensando ai sacrifici fatti e a quella scelta che poteva cambiargli la vita. «Chissà dove sarei ora. Anche se una volta smesso con il calcio, mi piacerebbe tornare a sciare. Non l’ho più fatto da allora. Ho preferito puntare in dribbling gli avversari che gli ostacoli o i paletti. Ma possiamo dire che è andata bene così». Sia lodata quella scelta, presa fidandosi di un allenatore esperto e rigido, che ha saputo dargli il consiglio giusto. Questione di occhio. «Aveva visto qualcosa di speciale in me. Gliene sarò sempre grato». 

Appena ha un momento libero Alex gira il mappamondo, punta il dito e fissa un viaggio. «È un’altra cosa che mi piacerebbe fare quando smetterò. Vorrei visitare il mondo, conoscere nuove culture, scoprire e fare esperienze nuove. Già ora con mia moglie viaggiamo abbastanza, soprattutto tra la Spagna e l’Italia. Del vostro paese ho ricordi bellissimi, ci torno spesso. Il calcio viene vissuto con passione sette giorni su sette, la gente ti ferma per strada e ti dice di dare tutto in campo la domenica. Giochi anche per loro. E poi il fantacalcio… ogni lunedì era un incubo, mi ritrovavo sempre pieno di messaggi»

Sirigu direttore sportivo improvvisato. ‘Fidati vieni qui, ti troverai bene’

Berenguer a Torino ha giocato per tre anni, dal 2017 al 2020, ottantacinque partite e 9 gol tra campionato e coppe. «Il primo aneddoto riguarda il mio arrivo. Avevo varie offerte, ma mi convinse una telefonata di Sirigu».  Un portiere improvvisato direttore sportivo. «Avevamo già giocato insieme all’Osasuna, appena venne a sapere dell’interesse mi chiamò. ‘Fidati vieni qui, ti troverai a tuo agio’.  Gli ho creduto e ho fatto bene. Per colpa sua mi hanno iniziato a chiamare pulcino pure in Italia. L’ho sentito così tante volte che alla fine me lo sono addirittura tatuato»

Arrivare in Serie A è stata un’altra scelta felice della sua carriera. «Avevamo una squadra davvero forte, sia con Mihajlovic che con Mazzarri. Il giocatore che mi ha impressionato di più? Niang. Aveva le qualità per spaccare il mondo. Fisico, tecnica, velocità. Poi in partita non sempre rendeva come in allenamento. Un altro è Bremer. Ero convinto che avrebbe fatto passi da gigante, ogni allenamento per lui era come una finale, stessa grinta e stessa rabbia negli interventi. Non ti mollava mai, non mi sorprende che ora sia titolare nella Juventus e nel giro della nazionale brasiliana». 

Dagli schiaffoni di Burdisso al gol al Milan, quanti ricordi a Torino

Quando parla di Torino lo fa con gli occhi accesi, furbi e sempre attenti, che al ricordo di alcune scene sembrano sorridere. «Eravamo un grande gruppo, il giusto mix di esperti e giovani. Burdisso in allenamento ci picchiava, quanti schiaffi mi ha dato! Ma anche tanti consigli. I primi periodi infatti non sono stati facili. Per me era tutto nuovo, altri orari e altri ritmi. Per esempio io ero abituato ad allenarmi la mattina, in Italia invece ci convocavano al campo dopo pranzo. Insomma ci ho messo un po’ ad adattarmi. Anche grazie a Vanja Milinkovic Savic, che è stato il compagno con cui ho legato di più e ogni tanto ancora ci sentiamo. Ho fatto il suo nome, ma te ne potrei fare anche molti altri. In spogliatoio c’era davvero un bel clima, tanta musica e tante risate». 

Quando si parla del momento più bello vissuto in granata, Alex si ferma, quasi a voler bloccare il momento e tornare indietro nel tempo. Come se volesse riviverlo di nuovo. «Il boato dello stadio che urla il mio nome dopo il gol al Milan, è una di quelle cose che non dimenticherò mai. Loro rinviano male un pallone messo in mezzo da Ansaldi, io la controllo e infilo Donnarumma sul palo più lontano. Non era neanche facile metterla li. È un ricordo che porterò sempre con me» 

«Mercoledì saremo rivali per novanta minuti, spero di segnare e farli arrabbiare…»

Il presente dice Athletic Bilbao, quattordici gol in una settantina di partite con la maglia numero sette sulle spalle. «Siamo davvero forti. Puntiamo alla qualificazione in Europa e a vincere la Coppa del Re». I baschi giocheranno la semifinale d’andata mercoledì proprio a Pamplona, contro l’Osasuna. «Sarà una partita speciale. In tribuna oltre alla mia famiglia, ci saranno tanti miei amici. Saremo rivali per novanta minuti, spero di segnare e farli arrabbiare…»

Poi, prima di salutarci, una cartolina sull’Athletic. «È un club con una filosofia che ti coinvolge, mi sono sentito fin da subito parte di una famiglia. D’altronde dove la trovi nel mondo una società che investe solo su giocatori cresciuti nei Paesi Baschi e  che lo fa con coerenza da più di 120 anni?» I ragazzi per entrare nell’Athletic possono anche avere origini basche, basta guardare il caso dei Williams. I genitori vengono dal Ghana, ma Inaki è nato a Bilbao e Nico a Pamplona, in Navarra. E quindi vanno bene, possono essere tesserati.  Un unicum in cui Berenguer si è trovato a meraviglia, in cui si sta bene e si cresce in pace. Oasi felice. «Spero di restare qui per tanti anni e di vincere qualche trofeo. Magari facendo pure gol…». Con la speranza di iniziare da mercoledì, a casa sua, contro l’Osasuna. Gli amici di una vita capiranno. Un po’ come il maestro dello sci club, quando gli ha dovuto dire che avrebbe smesso per fare il calciatore. Decisione spartiacque, che gli ha aperto le porte del mondo del pallone. Ma chissà che tra qualche anno quelle piste non lo rivedranno sfrecciare in slalom tra i paletti, come quando aveva quindici anni e stava per mollare tutto.