Se mi chiedessero «Cuchu, ma ripartiresti altre cento volte dalla Serie D?», la risposta sarebbe sempre e solo «sì». Tornerei tutta la vita sui campi in terra sui quali andavo a giocare con l’Albissola.

 

Quando sento i miei compagni lamentarsi del manto erboso non in perfette condizioni qui in Serie A, ripenso a quelle fasce d’argilla sulle quali correvo, oppure al vento che avvolgeva il ‘Bacigalupo’ di Savona e rendeva incontrollabile il pallone. E penso che questo sia il paradiso.

 

Il soprannome «Cuchu» è nato proprio in quegli anni. Quante volte hanno sbagliato a chiamarmi in vita mia… «CAMBIASSO! CAMBIASSO!». Certo, poteva andarmi peggio. Magari mi chiamavo come uno scarso. La prima volta avevo 17 anni, andai tra i dilettanti con una paura immensa di non rivedere mai più il mio Genoa. Dopo 9 anni con il borsone della squadra del cuore, andare a giro con altri colori non è stato facile. Specialmente se devi partire dal punto più basso. Uscire dal nido, dalla zona di comfort. Mettere da parte il sogno. Non mi ritenevano pronto per la Primavera e non ci pensai un attimo: «Andre, basta che non ti fermi». Se incontrassi per strada quel me stesso di 4 anni fa, gli direi che è stata la scelta giusta.

 

 

 

 

Fino a quel momento, ad Albissola ci ero andato solo in vacanza. Al primo allenamento arrivai direttamente dalla spiaggia. Ero spaesato, fu una bella botta misurarmi con una nuova realtà. Sentii subito le martellate dei contrasti, erano diverse. L’intensità e la cattiveria agonistica erano senza precedenti. Ero timido e i miei compagni giuravano di avermi sentito parlare solamente durante il girone di ritorno. Pensavano che avessi perso la lingua, probabilmente. Capii che giocare a calcio era un’altra cosa, che ero tecnicamente bravo ma dovevo svegliarmi. Dovevo crescere, come tutti d’altronde a quell’età. Non erano tanto i piedi, quanto la testa. Avevo bisogno di diventare uomo prima degli altri. Anzi, diciamo che dovevo essere fin da subito un ragazzo adulto.

 

C’era chi studiava lingue, chi consegnava le pizze. E poi c’ero io che sognavo di diventare un calciatore. Quello che ho capito è che più scendi di categoria, più la passione per il calcio è forte e smisurata. Certo, quando volevo allenarmi di più, quelli che venivano da un’intera giornata di lavoro mi maledicevano al termine di un’ora e mezzo di seduta tra corsa e tattica. E avevano ragione. Quando sei nel settore giovanile non ti rendi conto di cosa siano realmente la fatica, le partite, i momenti topici e il valore delle situazioni. In Serie D c’erano giocatori con 15 anni di carriera alle spalle. Si fanno il mazzo durante la settimana e la domenica non vogliono perdere per niente al mondo. Nello spogliatoio ero il ragazzino, mi mettevano spesso nel mezzo ma le prendevo con simpatia.

 

 

 

 

Due anni fa ho letto un’intervista di Andrea Cistana, arrivato in Serie A e in Nazionale grazie al suo Brescia. Anche lui era sceso in D, al Ciliverghe, e disse che rifarebbe quella scelta senza se e senza ma. Sono d’accordo. Ti rapporti con persone che studiano e fanno altro, usano il calcio come hobby. Giochi con i grandi, superi tanti step che la Primavera non ti propone. Potevo giocare 3 minuti, ma il martedì ripartivo a tutto fuoco. Correvo, correvo tanto. Mi piace farlo ancora: se un compagno mi vede dare il massimo, so di poter essere d’ispirazione e farlo andare più forte.

 

Ad Alessandria, in Serie C, avevo 18 anni, e una serenità addosso fuori dal comune. Se fossi andato in prestito per la prima volta intorno ai 19 anni, adesso non sarei qui. Non sarei stato così sfacciato. Che poi, sfacciato: pensate che non ho ancora chiesto neanche una maglia da scambiare a fine partita, sono troppo timido. Ho giocato poche partite in Serie A, penso: «Ma chi la vuole la mia maglia…». Aspetterò che qualcuno venga da me. Anche se quella di Dybala non mi dispiacerebbe, per anni ho fatto il suo ruolo ed è un modello per me. Adesso nello spogliatoio ho Goran Pandev e Mimmo Criscito, è pazzesco essere nella loro stessa squadra! Mimmo, poi… era il capitano del Genoa che guardavo allo stadio. Ho ancora un video di quando facevo il raccattapalle, contro lo Slavia Praga, e accompagno i calciatori in campo. Ci siamo noi due, uno vicino all’altro. Qualche giorno fa gliel’ho fatto vedere: «Quel bambino sono io». Lui è rimasto scioccato. Ha mormorato «Incredibile…».

 

 

 

 

Goran è il vero trascinatore. A scherzo le prime volte mi diceva: «Certo che ormai la Serie A la regalano a tutti». Fa ridere tantissimo. In 3 mesi la vita mi è cambiata e anche io lo dico ridendo ai miei genitori: «È proprio vero, il calcio fa miracoli». Qualche mese fa ero riserva in Serie B, ora sono titolare nella mia città. E le persone iniziano anche a riconoscermi per strada. Per primi sono stati due ragazzini dopo la partita contro il Cagliari. Mi ha fatto un effetto stranissimo. Hanno voluto un selfie e ho inviato un vocale nel loro gruppo del fantacalcio perché i loro amici non ci credevano. Bellissimo. Quando le persone mi fermano per strada, mi dicono sempre «Ciao Andre!». Ne sono contento perché mi rivedo in loro. Sono ancora uno di loro, in fondo. Cerco di salutare e chiacchierare con tutti. Il mio parrucchiere dopo il mio esordio mi ha fatto fare alcune foto con suo figlio e mi ha pure regalato il taglio… poteva andarmi peggio.

 

I tifosi mi dicono che vedono in me la genoanità che c’è in loro. Questo fa la differenza, sento di dover rappresentare qualcosa. Non servono parole, ma fatti. Sarò sempre dalla loro parte. Come quando andai con mio padre a vedere un Genoa-Napoli in cui vincemmo 3-2: c’erano Lavezzi, Cavani, era una squadra pazzesca. Resto uno di loro. Da tifoso a calciatore: proprio contro il Napoli ho segnato la mia prima rete in Serie A. In quella partita ho avuto un battibecco con Adam Ounas. Loro stavano perdendo troppo tempo con i cambi mentre erano in vantaggio, così sono stati beccati dalla nostra curva. E lui ha iniziato a lamentarsi. Mi ha guardato, l’ho guardato, e gli ho detto: «Eh cazzo, lo so bene che fanno casino. Fino a pochi mesi fa ero uno di quelli». Era l’adrenalina della situazione, ero ancora in trance dal gol. Mi sono innamorato di quel video in cui Daniele De Rossi va incappucciato nella curva della Roma per rivivere quelle sensazioni. Alla prima squalifica lo faccio anche io!

 

 

 

 

Non ho solo il video con Mimmo tra i ricordi. Quando facevo il raccattapalle c’era la lotta per scegliere le postazioni sotto la Nord. Spesso le vincevo e andavo io. Giocarci sotto, adesso, è una bella botta. Varie volte da ragazzo sono stato travolto dai calciatori, ho un episodio con Gilardino che venne a esultare sotto la curva, proprio davanti a me, e mi travolsero. Tra la tribuna e il campo c’è pochissimo spazio, tutte le volte era incredibile. Inimmaginabile. Il Ferraris è uno degli stadi più belli d’Italia proprio per questo. Da bambino mi chiedevo sempre: «Chissà come i calciatori vedono i tifosi dal campo». Con il Verona, quando hanno riaperto gli impianti a una percentuale maggiore di pubblico, c’era una bolgia clamorosa e lì ho capito. Non è descrivibile l’effetto che fa. Vedi tanti puntini. Tra quelli, i miei amici. Quando ho segnato il primo gol in Serie A, non ci ho capito più niente. Ho iniziato a correre urlando, non so cosa. Mi sono gettato a terra – pensate, la mia vicina di casa mi ha regalato una maglia con la foto di quel momento – e dopo ho cercato gli amici con lo sguardo. L’esultanza era finita da un bel po’, sugli spalti tutti erano già seduti, tranne un gruppetto di pazzi che ancora saltava scatenato. Ecco, quelli erano i miei amici.

 

Quando siamo rientrati negli spogliatoio non riuscivo a festeggiare. Avevamo perso. Dentro di me ero felice, certo, ma non potevo esserlo completamente. Mi sentivo combattuto, quasi in difficoltà. I miei compagni mi chiedevano se fossi contento. E io: «Insomma… dai, abbastanza». Mi hanno guardato: «Ma non ci prendere in giro! Sappiamo tutti che sei felice e devi esserlo, è un giorno importante». Quel giorno, dopo la doccia, ho aperto Instagram, e ricordo che una delle prime cose che ho visto è il vostro post su Cronache. Quando ho incontrato mio fratello, ha sbloccato il telefono e mi ha fatto: «Ma ti rendi conto… sei sulla stessa pagina di Giroud, campione del mondo. Il tuo post è accanto alla sua foto!». I miei genitori hanno comprato i giornali di tutta Genova per immortalare il momento. Gioie e dolori, come quando contro il Cagliari ho fatto quel sanguinoso retropassaggio a Sirigu, dando la palla a João Pedro, che per fortuna ha sbagliato. Quanti schiaffoni mi ha dato Salvo mentre ci stavamo lavando.

 

 

 

 

Sapete: la maglia dell’esordio in Serie A l’ho regalata all’Alessandria. Quell’anno mi sono infortunato seriamente, ho toccato il punto più basso. Alla prima stagione tra i professionisti e subito fuori. Mi è servito per caricarmi ancora di più. I tifosi sono sempre stati magici, così come a Empoli. Dopo due anni in cui sono stato fermo, questa estate in ritiro con il Genoa ho avuto la voglia che nessuno aveva. Ero fermo da così tanto che andavo a mille.

 

A volte, quando chiudo gli occhi o la mattina mi guardo allo specchio, vedo ancora la maglia dell’Albissola sulla panca di legno degli spogliatoi diroccati della Serie D. Quando la prendevo in mano, dopo averla staccata dall’appendino, la stendevo e fissavo il numero: 15. «Anche oggi si parte dalla panchina». Ma non mollavo. Prima delle partite, quando facevamo le cene o i ritiri, c’era un ragazzo che amava fare giochi di magia. Sollevava la gente con le dita. Incredibile. Non ho mai capito come facesse e ancora voglio sognare che ci riuscisse veramente. C’erano i miei genitori a dirmi di non mollare, senza darmi false speranze, ci sono adesso a tenermi con i piedi per terra. C’erano i miei amici e i miei nonni, da essere gli unici tifosi fino a perdersi nell’orizzonte sconfinato di Marassi. Chissà che conflitto interiore gli sto facendo vivere! C’erano doriani e genoani, anche in famiglia, adesso sono tutti per il Cuchu. C’erano le strisce in gesso, c’erano altri ruoli, c’erano altre dinamiche. Adesso ci sono le linee perfette, diventate la mia casa sulla fascia. La priorità però non è mai cambiata: arrivare qui e partire con il mio Genoa.

 

Vorrei tornare al campo dell’Albissola, o a quello del Savona, e raccontare la mia storia. Voglio farlo qui per tutti quelli che da giovani ricevono un «No», oppure una bocciatura. Credetemi, il percorso sarà solo più lungo, ma non per questo meno bello. I rifiuti devono diventare trampolini, devono incastrarsi tante cose e non basta solo la passione, ma se c’è quella, partite già da una buona base.