Mancini: «Io, la Roma e un crudo di pesce. Cassano, che liti per le patatine!»

by Francesco Pietrella

Il primo ricordo dell’Italia è un crudo di pesce mangiato a Venezia, in mezzo al freddo, a un tiro d’esterno da Piazza San Marco. Lui che un piatto così non l’aveva mai visto, come i gradi andare sotto zero. «Ero abituato al caldo afoso. E quando ho visto il crudo sul tavolo ho chiesto cosa fosse». E giù a ridere. Amantino Mancini risponde da Belo Horizonte, Brasile, casa sua. Dopo una vita in Italia tra Venezia, Roma, Inter e Milan è tornato in patria. «Ma la Capitale mi manca, l’anno prossimo torno e mi faccio una bella carbonara come si deve! Non la mangio da una vita». Dopo aver detto basta col pallone fa l’allenatore, l’ultima esperienza l’ha visto al Villa Nova e prima ancora a Foggia in Serie D. «Cerco nuove sfide».

Un brasiliano a Venezia

In fondo ha avuto maestri di un certo tipo. «Mourinho, Spalletti, Capello. Da come cominciamo?». Don Fabio. Alla fine è stato il primo. «La prima volta che l’ho visto ero seduto nello spogliatoio di Trigoria, venivo da un anno difficile a Venezia in Serie B. Dopo le frasi di rito mi chiese perché avessi giocato così poco». E Amantino, schietto, spiegò la sua versione. «Sono nato in una città in cui quando fa freddo ci sono venti gradi, in laguna il vento mi entrava nelle ossa. Poi la lingua, un calcio diverso e l’allenatore. Non ci siamo trovati. Al primo allenamento stoppo una palla altissima con l’esterno, lui ferma il gioco col fischietto e mi dice che così in Italia non si gioca». Mai dire a un brasiliano di mettere da parte l’estro, ma Capello capì. «Disse che mi sarei dovuto impegnare più degli altri. Qualche giorno dopo partimmo per l’Austria in ritiro, e alla prima amichevole mi schierò dall’inizio. Da lì non sono più uscito. Quando andò alla Juve provò a portarmi con lui, ma rifiutai». Meglio la Roma, 222 partite e 59 gol in 5 anni, dal 2003 al 2008. «La mia seconda casa, quante risate». 

Cassano vs Capello

Una di queste da spettatore. «Ricordo le discussioni tra Capello e  Cassano. Erano come cane e gatto, prima litigavano e poi facevano pace. Una volta Antonio superò il limite…». Scintille a Trigoria. «Prima del pranzo Cassano va in cucina e chiede le patatine fritte. Capello le aveva vietate a tutta la squadra per questioni di linea, ma Antonio fa di testa sua, solo che Don Fabio lo becca con le mani nel sacco. Apre la porta della cucina e lo sorprende con le patatine. ‘Che combini!”, dice a voce alta. Uno show: ‘Qui comando io’, e alla fine gliele ha tolte». Quando si parla di Mancini pensi a due immagini. Già le sa: «Il gol di tacco alla Lazio e il doppio passo di Lione». Il primo è un tatuaggio sul cuore. «Lo chiamano ancora il ‘tacco di Dio’. Il primo gol in Serie A sotto la curva Sud. In Brasile lo provavo per strada quand’ero un ragazzino pieno di sogni. Fu un gesto istintivo, potevo prenderla solo in quel modo. E dietro di me Emerson fa lo stesso movimento». 

Doppio passo

L’indole brasiliana si rivede a Lione, ottavi di Champions, 2007. «Réveillère me sta’ ancora a cerca’. Si dice così in romano, vero?». Promosso. «È stata la partita perfetta, quella della vita. Otto doppi passi… gol. Giocavamo a memoria poi. Taddei per Totti, Totti a Pizarro, Pizarro a me e così via. Francesco è stato un genio, gliela potevi passare in mezzo a 4 e ne usciva con un tacco o una giocata. Con Spalletti ho vissuto gli anni migliori della mia carriera, oggi spero vinca lo Scudetto a Napoli. È uno che ti chiede l’Everest, ma quando lo ripaghi l’hai conquistato. È un fenomeno. A volte fermava la partitella per spiegarti i movimenti da fare e dove migliorare, ti prendeva sotto braccio». Tutt’altra cosa rispetto a Mourinho, avuto all’Inter per un anno e mezzo: «Lui e Luciano sono diversi: José ti entra nella testa come nessuno. I primi mesi giocavo, ma non ero il Mancini di sempre. È andata male per colpa mia, non per colpa sua. Lui resta uno stratega…». Non solo in campo. «Una volta perdiamo 3-0 a San Siro giocando male, così lui va in sala stampa e si inventa un modo per non parlare della partita. Attira su di sé l’attenzione dei media, e infatti il giorno dopo si parlava solamente di ciò che aveva detto, non della partita giocata male». 

«Manshino»

Se gli dici Italia risponde casa, quando gli chiedi se c’è «un nuovo Mancini» ci pensa un po’. «Forse Perotti ai tempi della Roma, ma di Amantino ce n’è uno solo». Sorride, scherza. A proposito, come nasce Mancini? Lui che all’anagrafe è Alessandro Faioli Amantino, 41 anni, una carriera da mister. «Da ragazzino mi chiamavano “mansinho”, cioè mansueto, ma uno degli allenatori dell’Atletico Mineiro mi disse che un soprannome simile non era adatto a un calciatore. Troppo ‘dolce’, così sono diventato Mancini». Il brasiliano dal tacco magico.