di Gabriele Codeglia
Lui è una di quelle mosche bianche che nel calcio di oggi preferisce non stare sui social. Niente Instagram, niente Twitter, né tantomeno Facebook: «Non mi interessano proprio. Quanti altri calciatori al mondo non sono sui social network?! Penso di essere l’unico (ride, ndr)».
Nasce e cresce a Carrara, «ma io mi sento spezzino, questo è fuori dubbio», perché il padre è di lì, originario dell’ultimo entroterra ligure: quello è il posto preferito dove Andrea ritorna quando può.
Raggi è uno di quelli che ci mette sempre l’anima, che ci crede sempre anche quando la luce in fondo al tunnel non riesce a scovarla. Dall’Empoli parte una montagna russa che sembra dover finire presto e che invece decolla all’improvviso verso la Costa Azzurra dove, al Monaco, inizia una nuova vita.
A giugno dell’anno scorso, dopo sette lunghi anni e 230 presenze, alcune delle quali con la fascia di capitano al braccio, l’avventura di Raggi con i monegaschi finisce, ma non la sua carriera: «A gennaio ormai era fatta per la Cina, stavo per firmare, ma poi il Coronavirus ha interrotto tutto. La proposta è sempre lì sul piatto. Vedremo durante la prossima estate che cosa succederà. Non si sa mai nella vita, il calcio è strano. In ogni caso, sono contentissimo di ciò che ho fatto. Quando un calciatore assapora il fascino della Champions League, ha raggiunto il massimo».
Dopo un lungo silenzio, il giocatore si è raccontato a Cronache di Spogliatoio, partendo dai primi calci dati ad un pallone.
Quand’è che Andrea Raggi comincia a crederci veramente?
«Avevo cinque o sei anni quando mio nonno mi portò al Marina La Portuale, una società della zona. Da lì mi ammalai di calcio, mi entrò nel sangue. A dodici, tredici anni feci il provino con l’Empoli e mi presero. Inizialmente fu avanti e indietro tutti i pomeriggi per andare all’allenamento, poi, dopo due anni circa, andai a vivere in convitto, proseguendo tutta la trafila delle giovanili».
La prima stagione tra i grandi è quella 2003-2004.
«Andai in prestito alla Carrarese. Sarò sempre grato a questa società. Per me è stato un anno fondamentale e bellissimo, senza di quello non avrei mai potuto sfondare. Ci salvammo all’ultimo, ma all’epoca la Serie C2 era un campionato veramente di alto livello. Così l’Empoli decise di riportarmi subito in prima squadra la stagione successiva».
In panchina c’è Mario Somma: è l’inizio di un percorso stupendo che culmina con l’Europa.
«Iniziai a calcare i primi palcoscenici importanti. Anche quella era una Serie B veramente tosta: c’era il Genoa di Milito e Makinwa, e anche il Torino era fortissimo. Alla fine vincemmo il campionato e andammo in A. Avevamo uno squadrone: Tavano, Lodi, Vannucchi…»
Nell’estate del 2008, dopo la retrocessione con l’Empoli, c’è il passaggio al Palermo: un’investimento molto importante da parte dei rosanero.
«In quel momento il DS era Rino Foschi. Sia lui sia l’allenatore (Stefano Colantuono, ndr) mi vollero a tutti i costi. Arrivai con i migliori propositi anche perché firmai il cosiddetto ‘contratto della vita’. Eravamo uno squadrone anche lì: c’erano Liverani, Cavani, Simplicio, Kjaer, Nocerino, Balzaretti, Cassani, Amelia. Purtroppo sappiamo tutti come andò poi. A voler essere gentili, si può dire che in quel Palermo non potevi sapere come sarebbe potuta andare a finire: con il presidente che c’era ai tempi, era un terno al lotto (ride, ndr). Giocai la prima di campionato a Udine e perdemmo 3-1. Il giorno successivo vennero esonerati sia Foschi che Colantuono e da quel momento tutti gli acquisti della loro gestione furono visti come dei bidoni. Zamparini, di fatto, gettò via subito i milioni che aveva appena speso, giudicandoci solamente con una partita: non ci fu mai una seconda possibilità. Fu una decisione esclusivamente sua».
Da lì si torna vicino a casa, alla Sampdoria, durante il mercato invernale.
«Mi trasferii in prestito. Era solamente l’inizio del calvario perché Zamparini mi aveva pagato tanto e quello era il mio destino. Alla Samp mi trovai da Dio, le giocai tutte. Arrivammo in finale di Coppa Italia, persa poi contro la Lazio. A gennaio, insieme a me, arrivò anche Pazzini dalla Fiorentina. Con il Pazzo ho sempre avuto un bellissimo rapporto, veramente un bravissimo ragazzo. Lì ha lasciato il segno. Che accoppiata con Cassano: erano proprio belli da vedere!».
Nuovo giro, nuova corsa. Questa volta la tappa è a Bologna, stagione 2009-2010.
«Sempre in prestito, perché giustamente per riscattarmi ci volevano quasi cinque milioni di euro per la metà del cartellino: chi li avrebbe mai spesi? Era quasi impossibile. A Bologna, città bellissima, un pezzettino di cuore è rimasto lì. Feci bene: trentadue presenze complessive più un gol, giocando tutta la stagione da terzino destro. Oggi non mi stupisce vedere il Bologna così in alto. Hanno un centro sportivo bellissimo, c’è un grande pubblico: è una piazza che vive di calcio».
Segue poi l’ennesimo prestito. Altra piazza importante del Sud: Bari.
«Di quell’esperienza terminata nel peggiore dei modi con la retrocessione, ricordo un giovane compagno di squadra: Ciccio Caputo. Era ancora acerbo, chiaramente, era un ragazzino. Un bravissimo ragazzo che con tanto sacrificio è arrivato in alto. Dico la verità, mi ha stupito, mai avrei pensato che sarebbe riuscito a fare una carriera di questo livello. Inutile dirlo, è forte, ormai parlano i fatti e se lo merita. Gioca di squadra, è completo, manca un pochettino fisicamente, ma è bravo a compensare con dei movimenti dentro l’area e un senso del gol incredibili. Solo che noi in Italia preferiamo i Caputinho… (ride, ndr). Scherzi a parte, al Sassuolo ha trovato un grande allenatore: sono convinto che De Zerbi arriverà a livelli importanti».
Successivamente il ritorno a Bologna per il secondo episodio.
«Nell’estate del 2011 rimasi svincolato perché era finito il contratto col Palermo. Avevo tantissime richieste dalla Serie B, ma nessuna dalla A. Pensai: ‘Ho ventisette anni, quasi duecento presenze in Serie A. In B non ci vado, piuttosto smetto‘. Nel frattempo, i miei ex compagni al Bologna, Portanova e Di Vaio su tutti, convinsero l’allora allenatore Bisoli: ‘Mister, ma perché non prendiamo Andrea? Garantiamo noi, questo è forte‘. Alla fine firmai in bianco, un solo anno di contratto. Mi ricordo che era fine agosto, ero completamente fuori forma. Da lì inizio quella che fu la stagione della mia definitiva consacrazione. Non mi piace esaltarmi, ma mi sento di dire che andò così: feci veramente bene».
Qual è l’episodio che cambia il corso della storia?
«La partita di Coppa Italia contro la Juventus. Era stato esonerato Bisoli e arrivò Pioli. Durante una partitella di allenamento presi l’iniziativa e mi misi centrale. Il mister si avvicino e mi disse: ‘Andrea, qui, se hai una possibilità di giocare è a destra’. Io non mi scoraggiai. Prima della Coppa si fece male un difensore, non mi ricordo chi: emergenza totale e io fui schierato centrale. Quella fu la partita della mia vita, sembravo Cannavaro ai Mondiali (sorride, ndr). Da lì a poco, Pioli cambiò assetto, passando alla difesa a tre: io a destra, Portanova in mezzo e Antonsson a sinistra. Svoltammo. Contro Milan, Napoli, Roma e Juventus arrivarono quattro pareggi, poi battemmo l’Inter a San Siro 3-0, doppietta di Di Vaio e gol di Acquafresca. Ci ripetemmo all’Olimpico contro la Lazio, 3-1. Diamanti, Gaston Ramirez, Gillet, Diego Perez, Mudingayi: un’annata incredibile».
Estate 2012, con il senno del poi, è la più importante di tutte. Come si arriva alla firma con il Monaco?
«Avendo firmato soltanto un anno con il Bologna, a metà stagione ci sedemmo al tavolo per discutere del nuovo contratto. Loro offrivano tre anni, mentre io ne chiedevo quattro. Stavo giocando una grande stagione e non mi schiodai: un quadriennale o niente. Mi impuntai come mai avevo fatto nella mia carriera. Alla fine si inserì il Monaco e la trattativa di fatto si concluse da sola: il Bologna non avrebbe mai potuto pareggiare lo stipendio che mi offrivano i monegaschi. Mi pianse il cuore quando me ne andai, perché a Bologna avevo un grandissimo rapporto con i tifosi e con la città e avrei firmato col sangue. Però ero arrivato a un certo punto in cui dovevo pensare anche alla mia famiglia: l’offerta del Monaco non si poteva rifiutare».
E si parte subito alla grande: vittoria della Ligue 2.
«Grande annata. Era una grande squadra, già attrezzata e pensata per la Ligue 1. Oltre a me, fu acquistato anche Ocampos ed erano già presenti Subasic, Dirar e Germain. In più, dal settore giovanile, arrivavano ragazzi come Martial, Carrasco e Kurzawa».
Secondo posto alla prima stagione in Ligue 1… ma che mercato!
«Direi un mercato… super: James Rodriguez, Falcao, Carvalho, Moutinho, Kondogbia. Ci qualificammo così per la Champions League al primo colpo».
In quell’edizione siete una vera e propria sorpresa, ma l’eliminazione lascia un po’ l’amaro in bocca…
«Nonostante le tante partenze, anche piuttosto importanti, la squadra riuscì comunque a far bene e appunto, oltre al terzo posto finale in campionato, arrivammo fino ai quarti di Champions. Lì affrontammo la Juventus. All’andata a Torino fischiarono un rigore su Morata che però era due metri fuori area e Vidal segnò dal dischetto. Al ritorno finì 0-0, ma senza quel penalty in casa loro…»
Nel 2015 tra gli altri, arriva in prestito un ventenne croato di belle speranze: Mario Pasalic.
«Il grande Marione. Avevo visto subito che si trattava di un grande giocatore: aveva già dei tempi di inserimento impressionanti. Tipo l’Ambrosini della situazione, ogni pallone in area, se c’è lui, è gol. Anche per Mario solo belle parole, veramente un bravissimo ragazzo».
Nel solito anno, debutta in prima squadra Kylian Mbappé. Per lui non servono presentazioni oggi, ma chi era quello sconosciuto all’epoca?
«Come ci si può dimenticare quando fece i primi allenamenti con noi della Prima Squadra? Era un bimbo, timido, riservato, il classico bravo ragazzo. Però aveva doti impressionanti, velocità, tecnica. Jardim ha aspettato troppo prima di buttarlo nella mischia. Si vede che non era convinto. Strano, lo eravamo tutti tranne lui… Poi alla fine fu quasi costretto e, una volta in campo, come fai a levare Mbappè?! Lo vedevi che era un predestinato. In Champions League, la stagione successiva, praticamente trascinò la squadra da solo».
Ci sono offerte da parte di altri top club in quel periodo?
«Stavo talmente bene a Montecarlo che avrei rifiutato anche il Barcellona. L’unica offerta che presi in considerazione fu quella dell’Inter, nell’estate del 2015. Dal momento che avevo firmato un quadriennale con il Monaco, quell’anno sarei andato in scadenza e ad inizio stagione non si parlava ancora di rinnovo con la società. Quindi si fece avanti l’Inter con molto anticipo. All’epoca c’era Mancini in panchina, e loro mi dissero: ‘Non rinnovare, aspetta gennaio e firmi con noi tre anni di contratto, garantito al 100%’. Però era troppo rischioso, avrei dovuto aspettare quasi cinque mesi e nel frattempo sarebbe potuto succedere di tutto, avrei potuto anche infortunarmi. Perciò alla fine scelsi di rimanere al Monaco».
E si può tranquillamente dire che quella è la scelta più giusta, visto ciò che accade la stagione successiva.
«Dominammo il campionato, ma inizialmente non era stato posto come obiettivo primario: cambiò tutto strada facendo. Vai a sapere che i vari Mbappé, Bakayoko, Mendy sarebbero esplosi in quel modo e tutti assieme, dimostrandosi a tutti gli effetti dei giocatori di livello mondiale. A quel punto come facevi a nasconderti e a pensare di non poter vincere? Però il massimo lo dimostrammo in Champions League…»
Vittime illustri: il City agli ottavi e il Dortmund ai quarti. Poi, però, di nuovo la Juventus a rovinare la favola.
«Con il Manchester City fu un’impresa epica. Perdemmo 5-3 all’andata in casa loro e poi trovammo la forza di ribaltare tutto al Louis II: significava che eravamo uno squadrone. Lì giocai davvero due gran belle partite. Il ritorno di quella doppia sfida penso sia uno dei miei ricordi più belli, soprattutto il primo tempo in cui giocammo calcio champagne. Con la Juventus in semifinale pensavamo di poter ripetere il solito approccio e la stessa interpretazione della partita. Non fu così, forse perché non lo sapevamo, o meglio: io lo sapevo. Innanzitutto loro all’andata vennero da noi giocando con la difesa a cinque, con Barzagli terzino destro fisso su Mbappé, per poi ripartire in contropiede: questo per far capire quanto ci rispettassero. Il nostro allenatore, invece, sempre calcio champagne, quasi come fossimo il Barcellona dei tempi d’oro, tutti all’attacco, coi terzini che spingevano. Fino a quel momento le avevo giocate tutte, ma Jardim quella sera si inventò Dirar terzino destro al mio posto, e io rimasi in panchina tutta la partita. Nabil è un grande giocatore, ma è un’ala, un esterno offensivo. Contro quella squadra non potevi permettertelo, avevano troppa esperienza, da Dani Alves fino a Higuain, che infatti segnò due gol e congelò la qualificazione per loro. A fine partita parlai col Chiello e Gigi: avevano preparato la gara nei minimi dettagli, focalizzandosi quasi esclusivamente su Mbappé, togliendogli apposta la profondità».
Le ultime cartucce vengono sparate nel 2017-2018, poi il rapido declino sul piano dei risultati.
«Purtroppo la società non è stata in grado di trattenere determinati giocatori. Se tu non hai la forza di trattenere gente come Bernardo Silva, Mendy, Bakayoko, Mbappé, è chiaro che poi diventa tutto più difficile. Io sono convinto che se li avessero tenuti, nel giro di qualche anno il Monaco avrebbe vinto la Champions. Ora come ora al Monaco è finita l’epoca d’oro in cui si comprava a 1 e si rivendeva a 50, 60, 70. Non ti può andare sempre bene. Ad oggi l’unico è Ben Yedder, potenzialmente, ma non è che l’abbiano pagato noccioline: se lo rivendono, ci guadagnano relativamente. Il vero fenomeno che hanno in rosa è Jovetic, se sta bene fa ciò che vuole, ma purtroppo per lui è spesso infortunato. Anche Gelson Martins è forte, però con questa squalifica a tempo indeterminato…».
Alla fine la storia col Monaco si conclude in modo un po’ triste.
«L’anno scorso il rapporto con Jardim si era incrinato irreversibilmente. Ha fatto tutto lui e questo ha influito pesantemente. Quando tornò, dopo la parentesi di Henry in cui io giocai spesso, finii sempre in tribuna. Stop, non c’era più niente da dire e da fare. Neanche ci fosse stato qualche altro giovane da valorizzare perché poi sarebbe stata una possibile plusvalenza. Io posso dire di esser stato un pezzo di storia del club, così come lo può dire Subasic: anche per lui il trattamento qual è stato? Eravamo arrivati praticamente assieme nel 2012, gli unici reduci della Ligue 2. Lui le ha giocate quasi tutte in questi anni, oltretutto titolare della Croazia e finalista al Mondiale di Russia. Hanno preso Lacomte, e Suba è finito fuori, all’improvviso, senza un motivo».
Quali sono stati i giocatori più forti in quegli anni al Monaco?
«Non dimentichiamoci di Fabinho. Forse, escluso Mbappé, è stato il più forte con cui ho giocato in quegli anni al Monaco. Era impressionante. Una delle poche intuizioni che ebbe Jardim fu proprio su Fabinho. Lo spostò da terzino destro, dove era un giocatore normale, portandolo in mezzo al campo. Era un Toulalan più giovane, con più gamba e più dinamismo. Ah… a proposito, non dimentichiamoci nemmeno Toulalan: secondo me uno dei più forti giocatori con cui abbia mai giocato in carriera. Un mostro davvero, la gente non ha idea di che calciatore fosse: impressionante. E io l’ho pure beccato a fine carriera. Poi, Falcao… chapeau! Un altro che faceva paura era Berbatov. Giocavamo con lui, Martial e Carrasco ed eravamo devastanti. Palla a Berbatov, loro due partivano, e lui aveva gli occhi dietro la testa, o forse laterali, non si capiva come potesse vedere certe cose. Nell’ottavo di andata in Champions, nel 2015, a Londra contro l’Arsenal, la vinse praticamente da solo, segnando pure un gol. Anche su Martial lo dissi subito: velocità e tecnica, era spaventoso già i primi anni. Occhio perché ha ancora tempo, può crescere ancora e fare bene. Bakayoko è un altro forte, purtroppo quando entri nel tourbillon dei prestiti, diventa complicato uscirne».
Nessuna presenza con la Nazionale maggiore. Rimpianti?
«La mia esperienza in azzurro è limitata all’Under 21. Mi ricordo l’esordio pazzesco, era il 24 marzo 2007, inaugurammo Wembley in un’amichevole contro l’Inghilterra: 3-3 con tripletta di Pazzini. Poi fui convocato per l’Europeo in Olanda il giugno successivo. Era una squadra fortissima con calciatori di assoluto livello, da Chiellini a Giuseppe Rossi, passando per i vari Aquilani, Nocerino, Giovinco e Graziano Pellé. Purtroppo finimmo quinti, ma ci qualificammo per l’Olimpiade di Pechino, ma a quel punto ero fuori quota e non potevo essere convocato. Con la Nazionale maggiore, l’unico periodo in cui mi sono avvicinato alla convocazione è stato nella stagione del quarto di finale di Champions con la Juve. Ricordo che Prandelli mi teneva in considerazione, me lo aveva detto, ma alla fine non mi chiamò. Pazienza. Penso che almeno una presenza me la sarei meritata, ma non porto rancore».