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Angelo Ogbonna

Ho sbagliato. Mi sono messo alla guida ma ero molto stanco. Non ho saputo riconoscere i miei limiti. Stavo guidando verso l’aeroporto nel cuore della notte e mi sono addormentato. Un colpo di sonno. Ho colpito la recinzione e sono finito in un fiume. Mi sono sentito colpevole nei confronti dei miei familiari. Pensavano che fossi in ritardo, invece sono stati informati che mi trovavo in ospedale. L’incidente mi ha cambiato e raddrizzato. Inizi a rallentare e ragionare prima di fare qualcosa. Spesso non puoi raccontarlo. Invece sono ancora qui. Credo nel destino, nel karma, magari è un segno.

Non mi spaventa essere capitano nonostante sia così giovane. Non mi sono neanche accorto di essere diventato un punto di riferimento: sono concentrato sulla mia crescita. Sono un privilegiato, poiché sono cresciuto in un ambiente che mi ha sempre coccolato e reso importante. Per me Torino è tutto, perché mi ha accolto a 13 anni, quando avevo appena salutato i miei genitori. Sarò grato a vita anche al presidente. Devo essere onesto: per me la figura di riferimento di questa squadra è stato Rolando Bianchi. La fascia che mi è stata data l’ho vista come una forma di ricompensa, e per tutto il tempo passato lì ho sentito la necessità di dare qualcosa in più al Toro.

Qualcuno mi ha accusato di essere un traditore. Io non la penso così: sono un professionista e in quel momento della mia carriera avevo la possibilità di crescere, andando a giocare a un altro livello. La Juventus era disposta a pagare una cifra consistente per il mio cartellino. E sia per me che per il Toro la cessione era la soluzione migliore. Alla base di un trasferimento ci sono tante sfaccettature: bisogna scindere l’amore professionale e il romanticismo calcistico. L’amore per il Toro ci sarà sempre, perché questa squadra e i suoi tifosi mi hanno permesso di diventare chi sono oggi. Ma purtroppo non ho 40 anni di carriera, ma 15, e in quel lasso di tempo devo provare a dare e ottenere il massimo. Non si parla solo di soldi, ma di giocare ad alti livelli, fare l’Europa e provare a vincere qualcosa.

Qui la squadra è magica. Ci sono tanti giocatori forti. Buffon è quello che mi è più rimasto dentro: come professionista, in campo. Ammiro il suo altruismo, la voglia di perfezione e la leadership. Saper sdrammatizzare nei momenti difficili, l’esser positivo. La forza della persona. Ci sono anche leader silenziosi come Pirlo, Pogba, Tevez. Conte ha una fame e una voglia che sono positivi per noi giocatori. Il suo essere maniacale, a volte, è pesante sia fisicamente che psicologicamente, ma i risultati ripagano il lavoro.

Ho lasciato l’Italia perché ho sempre pensato: ‘Un giorno voglio vedere cosa c’è fuori’. La Premier League mi è sempre piaciuta. Oggi ho firmato con il West Ham. Oltre alla fisicità e al ritmo, c’è anche un rispetto dello sport che mi interessava scoprire. Qui il calciatore non è visto come un dio, ed è più libero di avere una vita fuori dal campo. Non si possono fare paragoni tra i due sistemi calcistici: sono due contesti davvero differenti. L’identità del calcio italiano è ineguagliabile, mentre in Inghilterra vedono il nostro calcio come più blando nei ritmi. 

Oggi mi hanno chiesto chi preferisco tra Conte e Allegri. Impossibile scegliere, ma dico: la voglia di vincere che ha Conte è impressionante. Non che Allegri non ce l’abbia, ma quella di Conte è così pervasiva che ti contagia. Allegri, invece, ama più gestire. Fare il manager non è semplice… hai sempre a che fare con 40 teste diverse. Se devo vincere un campionato, non ho una preferenza tra loro due: nessuno dei due sbaglia. Allegri è arrivato e ha vinto, Conte idem. Hanno solo una metodologia totalmente diversa per arrivare ai risultati.

Al Torino il settore giovanile ha fatto la differenza perché insieme a pochi altri – penso all’Atalanta, al Milan – esalta la crescita dell’individuo. Il primo anno in cui andai fuori, in prestito al Crotone, mi sentivo destabilizzato. A casa, a Torino, avevo un sostegno per fare ogni cosa. L’anno più importante, da calciatore, è stato proprio quello di Crotone: mi ha formato. Dopo quella stagione, ho visto la mia carriera in modo diverso. Prima il mio obiettivo era poter far parte di una squadra, al rientro ero diverso: sarei stato disposto anche a giocare in porta pur di arrivare. Ogni giovane ha bisogno di una piccola esperienza, e dei propri tempi, anche se non sono sicuro che oggi sia ancora così. Attraverso le difficoltà hai più consapevolezza e più forza per poter capire il contesto. Da fuori pensano che un calciatore tira due calci a un pallone, viene pagato ed è un privilegiato. Ma non è così semplice: prima di poter fare quello step, devi passare attraverso tantissime cose, molte parecchio difficili.

Mamma mia che fatica marcare il Kun… soprattutto per i suoi movimenti. Anche quando è lontano dalla porta e dal pallone, può rendersi pericoloso. Avrei voluto affrontare Drogba e Fernando Torres, ma non ne ho avuto la possibilità. Lo stadio più bello invece è l’Old Trafford: storico, quando entri lo percepisci. Qui in Inghilterra all’inizio è stato complicato per la lingua, ma nello spogliatoio questo gap non lo senti perché c’è il calcio di mezzo, e quella lingua la parlano tutti. È come se il pallone fosse un amico. Avere uno spogliatoio internazionale è davvero stimolante.

Ogni volta che il West Ham segna un gol, lo speaker non chiama il nome del giocatore che ha segnato. Il gol è della squadra. Fa parte della cultura calcistica inglese. Io vengo da Torino, una città con uno stile di vita simile a quello anglosassone. Chiusa e riservata. In Inghilterra è così e per un calciatore è davvero il massimo.