La storia di Antony, dagli scarpini rubati nella favela a star dell’Ajax

by Francesco Pietrella
Antony

Da bambino dormiva poco e male. Colpa degli spari notturni tra la polizia e le gang di Osasco, «il piccolo inferno», una favela da seicentomila anime vicino San Paolo. Un posto dove il numero di morti violente supera la percentuale nazionale. Antony dos Santos è cresciuto lì, di fronte a una casa di spacciatori. Nel quartiere tutti sapevano, ma guai a parlare. «Ho vissuto la povertà, c’era poco da mangiare». E quindi che si fa? Si sogna, si evade, o almeno ci si prova.

«Quel furto degli scarpini»

L’ora d’aria di Antony è un campetto sgangherato senza le reti delle porte, solo i pali. È lì che ha imparato a dribblare, a schernire, a toccarla con il tacco per poi sgusciare via dall’altra parte, come vediamo all’Ajax più o meno ogni partita. Antony è la stella di Amsterdam, la Venezia del Nord, canali e musei, pallone e girasoli di Van Gogh, ma è cresciuto in un contesto dove era meglio far finta di dormire, mentre qualcuno, da fuori, gridava aiuto: «La favela mi ha reso ciò che sono oggi». Cioè un arrogante del pallone. Uno che gioca ogni partita con la rabbia dentro e la sfrontatezza del prodigio, salvo poi calmarsi. Calciatore grazie a un piccolo furto nel negozio della madre. Un paio di scarpini per giocare il provino decisivo con il San Paolo, a dieci anni. «Mia madre fece finta di nulla, non avevamo soldi». 

Il passato sui parastinchi

Antony porta un pezzo di quel mondo sui parastinchi mentre strega chi lo guarda: «Mi ricordano da dove vengo». Come un tatuaggio sul braccio sinistro. Uno dei tanti sparsi sul corpo. C’è scritto «chi viene dalla favela sa cos’è successo lì». Papà era un fabbro, mamma una commessa, Antony ha dormito insieme a loro per un po’. Non potevano permettersi un altro letto. Un giorno la polizia ha fatto irruzione a casa per controllare se c’era la droga. L’ha raccontato al Guardian tempo fa: «Sono cose che restano dentro. Abitavamo vicino il centro dello spaccio. Ho visto amici perdere padri e fratelli». 

Schiaffo alla prevedibilità

Antony ha 22 anni e un figlio di due. Ogni tanto si interroga sul futuro. «Cosa gli risponderò quando mi chiederà come mai ha un padre così giovane? Prima di fare qualsiasi cosa penso a lui». Magari anche in estate, chissà, perché i 12 gol siglati con l’Ajax hanno spinto le big a tenerlo d’occhio. Star in campionato e in Champions, esterno dribblomane da 4-3-3, mancino che gioca a destra e rientra. Ha il sinistro di Ziyech e l’estro di Neymar, l’idolo di una vita, il riferimento fin dalla favela. L’Ajax l’ha acquistato dal San Paolo per 15 milioni, oggi vale più del doppio. Chi lo paragona a Robben ci prende, mentre ten Hag l’ha sempre portato sul palmo di mano. «È un giocatore totale, con una tecnica meravigliosa». Ogni volta ne elogia la qualità tecnica e il disordine di campo, nel senso che Antony è uno schiaffo alla prevedibilità. Come il tunnel ad Hateboer contro la Dea. Controllo, suola e scatto in tre secondi scarsi. Pensa e gioca in velocità. 

Antony e il futuro

Ambizioso poi: «Guardavo la Champions in tv, ora la gioco». Nel frattempo ha già vinto l’oro a Tokyo con il Brasile, 3 partite e un gol. «Mio figlio mi ha riconosciuto e ha iniziato a gridare ‘papà, papà!’. È stato bello». Quando gli chiedono dove si vede tra dieci anni risponde alzando la testa: «Voglio fare la storia, essere un esempio, giocare nel Brasile. E magari diventare il migliore al mondo». Sugli scarpini c’è il nome della sua favela. Gli ha insegnato anche a sognare.