Apologia del portiere, l’ultimo baluardo

by Redazione Cronache

Che sia da n.1 o da n.12, qualora abbiate scelto di giocare tra i pali, sappiate che il vostro destino è segnato. Nessuno avrà mai un occhio di riguardo per voi. All’interno dello show del calcio, gli sguardi degli spettatori incroceranno la vostra sagoma solo nel momento in cui il pallone calciato dal fenomeno di turno comincerà ad avvicinarsi al bersaglio grosso. Gli avversari vi guarderanno come un ostacolo, un bidone da superare per esplodere l’esultanza. I vostri tifosi solo in quel preciso istante si accorgeranno di voi, di quanto è dura essere l’ultimo baluardo, una saracinesca da osannare o un inutile montagna di carne ed ossa che ha tradito le attese.

Cominciamo dalla fine: siete là, in piedi in mezzo ai pali, dopo aver solcato con gli scarpini qualche linea dentro l’area per avere dei riferimenti visivi. Roba da portieri. Vi girate ed osservate la rete, pregando di non dover vederla agitarsi dopo una sberla del pallone. Un salto per toccare la traversa, un po’ di saliva per umettare i guantoni, e via. Siete pronti, vi sentite padroni del vostro piccolo, insignificante universo chiamato area piccola. Un grido ai compagni di reparto, un braccio teso verso l’arbitro per far capire che è tutto ok, un’ultimissima occhiata verso la tribuna. Sono esattamente gli ultimi secondi di totale invulnerabilità del vostro pomeriggio. Da quel momento in avanti, l’immortalità dovrete guadagnarla. Il fischio d’inizio è un tuffo profondo negli abissi delle paure più bestiali, un tonfo sordo che risuona dalle viscere, è la voglia di essere protagonisti della partita ma contemporaneamente l’assurda necessità di trovarsi a mille chilometri dal campo per sfuggire ai mostri della domenica. Non aspettate altro che un’uscita, un debole tiro, un primo pallone che stancamente si decide a rotolare verso la vostra area. Il primo contatto con il match, per far ricordare al mondo intero che esistete. Una sensazione necessaria e rassicurante come quando da bambini, prima di fare le squadre, raggiungevate di corsa la porta perché il vostro rifugio era là, la vita vera era là, lontano dai passaggi illuminanti, dallo scontro aereo, dai tackle disperati.

Il più delle volte questo ruolo non si sceglie, ma TI sceglie. L’approccio è timido, non si entra in confidenza subito con quei guantoni sempre troppo larghi e quella striscia perenne di fango che lambisce la linea. Perché subire un tiro ha un significato metafisico: è uno schiaffo che ti recapita la vita stessa. Ed è assolutamente vitale e necessario essere pronti a respingerlo con tutte le forze, sebbene il terreno melmoso che ti appiccica al suolo. L’uno contro uno, l’uscita bassa contro l’attaccante, è una sfida tra filosofie. E la guerra bisogna vincerla con i fatti, con coraggio, il coraggio di chi riesce a tuffarsi con il muso tra le gambe dell’avversario e altro non vede che una possibilità di salvezza. L’uscita alta con il pugno a pettinare le teste nella mischia, a svuotarsi il cuore di ogni timore, provando a volare oltre i propri limiti con incoscienza, nel regno che avete scelto o che forse vi ha scelto.

Abbiamo letto trattati, abbiamo assistito a conferenze e visto centinaia di filmati dei gol più belli della storia. Soffermandoci impietosamente sulle esultanze dei bomber. Fatto sta che, come sempre, le verità più belle vanno ricercate scoperchiando la botola, grattando via la vernice che le ricopre. Bisogna guardare il retro delle copertine, dietro le fotografie, in fondo al sacco. Là troveremo il concetto puro della disperazione, la consapevolezza di aver provato ed aver immancabilmente fallito. L’argine è caduto e non ha saputo contenere il destino già scritto: la palla che rotola in fondo al sacco. Perché l’estremo difensore vive per questo. Per cercare di cambiare ciò che non si può cambiare. Ma finché ci saranno bambini che si immoleranno tra i pali osservando coetanei cavalcare sulle fasce affamati di dribbling e colpi di tacco, siamo sicuri che la magia del n.1 non potrà mai estinguersi.