di Armando Izzo

 

Le scale della palazzina D erano intervallate da enormi pozzanghere dovute alle infiltrazioni di umidità. Le salivo a due a due con in mano le casse dell’acqua. Erano le consegne che odiavo di più. Quando mio zio, proprietario di una salumeria nel quartiere, mi mandava lì, al decimo piano, era un calvario. Mi fermavo sempre qualche minuto al quarto per riposarmi e iniziavo a giocare con il Nokia, guardando i risultati delle partite. Per me la parola alternativa non era contemplata. Quando nasci a Scampia non sai cosa c’è fuori, non vedi altre prospettive. Per me l’unica parola era sopravvivenza.

 

Avevo 10 anni e in me era presente la consapevolezza di un bambino che doveva portare 20 euro in più a casa, oltre ai 20 che guadagnava mia mamma ogni giorno. Non avevo tempo per sbagliare strada. La maggior parte degli amici con cui condividevo quei pomeriggi in piazza è finita in galera. C’era chi spacciava, altri rubavano. Non li ho mai giudicati e loro mi hanno tenuto lontano da quella vita, perché ero bravo a giocare a calcio e vedevano in me una speranza. Mi proteggevano, volevano che io ce la facessi anche per loro. Siamo cresciuti insieme, in strada, ma nelle quattro mura di casa ognuno aveva la propria adolescenza. La mia era devota alla famiglia: quando mia madre era a lavoro, io scaldavo il latte in un pentolino e aprivo un pacco di biscotti. Li mettevo in tavola e quello era il nostro pranzo. Talvolta anche la nostra cena.

 

 

I miei amici avevano un cuore grande, come adesso. Quando torno a Scampia un loro abbraccio vale più di qualsiasi gesto d’amore. Il senso di unione che si crea in quei luoghi è spiegabile solo attraverso le esperienze. Quando non hai niente è più facile condividere tutto. Ma anche avere paura: fuori dal palazzo non potevi stare tranquillo. Era pieno di persone che facevano uso di droga, ti avvicinavano e iniziavano a farti domande. Balbettavo: ‘N-non so n-niente, non s-so niente’. E iniziavo a correre, tornavo piangendo da mia madre. ‘Armando, non devi stare sotto al palazzo. Non devi, è pericoloso’. Mettevamo due buste per terra e pensavamo al calcio, non c’era tempo da perdere. Era l’unica ancora di salvezza. Perché appena la palla usciva dal recinto di gioco, la normalità ti affossava. Se finiva nei sotterranei potevi trovare davvero di tutto: sapevi che per risalire con il pallone in mano dovevi schivare siringhe, lacci emostatici e altre schifezze.

 

Le partitelle erano una guerra. C’era di tutto. E nessuno voleva perdere. C’erano bambini, c’erano figli di mafiosi, c’erano pregiudicati, e soprattutto c’era tanta competitività. Entrate dure, agonismo puro. Io il rispetto me lo sono guadagnato sul campo. Ero bravo e per questo mi rispettavano. Nessuno mi ha mai detto: ‘Sei un fenomeno’. Non mi dicevano niente, ma quando facevamo le squadre ero sempre il primo a essere scelto. Non pensavo che sarei diventato un calciatore, proprio perché quando sei lì non vedi prospettive. Ne esce uno ogni 50 anni. Insieme a me ce l’ha fatta Gaetano Letizia, che è del mio quartiere. Una cosa era certa: quando nasci senza niente, l’unica cosa che puoi mettere in palio è il cuore.

 

 

Cresci senza regole e il calcio ti tende una mano. Per me il calcio sono le continue partitelle in strada. Per me il calcio è mio padre che torna dai viaggi di lavoro. La sua Fiat Uno che spunta da dietro l’angolo e io che lo guardo alla finestra. Faccio finta di nascondermi aspettando il suo fischio. Sì, mio padre fischiava sempre e in quel momento per me era il suono più bello del mondo. L’unico che volevo ascoltare. Lo attendevo come un bambino attende il Natale: scendeva dalla macchina ogni volta con un pallone diverso, uno per ogni città in cui si spostava per vendere le sue stoffe. Uno della Roma, uno della Lazio, uno dell’Inter, uno del Milan. Il calcio sono io che scendo come un pazzo le scale, le stesse che percorrevo faticosamente con le casse d’acqua in mano. In quei momenti non mi sembravano né ripide, né massacranti. Erano solo il passaggio per la felicità.

 

Come quando mi chiamò il Napoli. Ma non pagavano, così mollai. Non potevo permettermelo. Mi richiamarono due anni dopo e Paolo Palermo, che sarebbe diventato poi il mio agente, quel giorno era sugli spalti. A fine amichevole mi disse: ‘Ti do io uno stipendio, tu continua a giocare’. Così mi trovò un modo per recarmi ogni giorno al campo del Napoli, la squadra che ho sempre tifato. Sono cresciuto con le cassette di Maradona e mano nella mano con mio padre andavo al San Paolo. Quando ci ho giocato contro con il Genoa, anni dopo, il team manager Fabio Pinna prima che entrassi in campo dalla panchina mi ha abbracciato. Aveva capito quanto contasse per me quel momento. La maglia di Higuaín la conservo ancora, insieme a quella del mio primo gol in Serie A è la più significativa. Ho dato questa soddisfazione a mio padre. Lui lo sapeva già che sarei arrivato: prima di andarsene mi disse che mi sarei occupato io dei miei fratelli. Sapeva già tutto. Quel giorno la mia famiglia piangeva, io no. Ero già proiettato su come accudirli e salvarli.

 

 

Per questo non posso permettermi di mollare. È la mia forza, non posso perdere il coltello tra i denti. La fame mi ha portato dove sono e non ho paura di tornare indietro. Né di guardare in quel buco nero. Ho sofferto quando uscirono le voci del calcioscommesse. La mia immagine davanti a tutti: il mio sogno stava svanendo all’improvviso. Ho avuto un lampo: non volevo me lo portassero via. Le mie origini hanno influito sul giudizio della gente, ma io non sputo sui posti in cui sono cresciuto. Mi chiamavano ‘Ignorante’, ma sono un ignorante onesto. Non ho vergogna, solo orgoglio. A me piacciono le sfide, vivere la vita con adrenalina. Non provo dolore, non provo emozioni, solo voglia di competere e alzare l’asticella. In campo ho solo l’agonismo che mi sale da dentro, cresce e non se ne va. Sono partito con nulla. La vita mi ha messo subito alla prova, poi mi ha tolto mio padre quando avevo 10 anni. Non sento dolore. Più mi fai male, più mi carico. Non posso permettermi di mollare. Ogni volta che ho fatto un salto in avanti, ho trovato sulla mia strada un ostacolo. Va bene così, sono pronto.

 

Come ero pronto quel giorno per conquistare Concetta. Io di Scampia, lei del rione Sanità. Uscivamo a Sanità perché è lì che ci sono le ragazze più belle. In quel quartiere tutti girano con lo scooter. Io ero il mago delle impennate, avreste dovuto vedermi. Avevo 16 anni, lei 14, e dal primo momento ho pensato: ‘Deve essere la madre dei miei figli’. Solo che le piaceva un altro. Così ho iniziato chiedendole il numero, ma niente. Per fortuna una sua amica mi ha aiutato. Concetta non mi voleva dare il suo cellulare, ma la sua amica – sì, era più sveglia di lei – iniziò a mimarmelo con le dita. 3… 3… 5…

 

 

Poco dopo è rimasta incinta. Io nel frattempo sono entrato nella sua famiglia, mi sono fatto accettare e voler bene. Ero a casa sua nel 2006 quando abbiamo vinto il Mondiale. Mi sono visto tutte le partite in piedi, con un panino in mano, bevendo Coca-Cola. Adesso mi gioco le qualificazioni agli Europei e penso a quei ragazzi che mi guardano in piedi, con un panino in mano, bevendo Coca-Cola.
Sono uno di voi.

 

 

Nella vita contano i gesti, non i soldi. Nessuno me li ha mai chiesti, nonostante adesso non siano più un pensiero per me. Voglio essere io a dare un futuro agli altri con il cuore. Ne ho avuto la riprova uno dei primi giorni con la Prima Squadra del Napoli. Walter Mazzarri mi convocò per il ritiro, ma arrivai a Folgaria senza scarpe. Nelle giovanili io non mi allenavo con la divisa della società, mia madre mi preparava la borsa e spesso scendevo in campo con i calzettoni diversi, la maglia dell’Arsenal e i pantaloncini del Barcellona. Tommaso Starace, il magazziniere, mi prendeva in giro. Mi diceva che gli finivo tutte le magliette, a forza di prestarmele. Quella volta in ritiro a Folgaria però entrai in punta di piedi.

 

Accidenti: era il primo giorno e non avevo le scarpe da ginnastica. E il programma cosa prevedeva? Corsa. Entrai nel magazzino del materiale usato e me ne provai un paio. Erano 4 numeri più grandi dei miei. Feci tutta la seduta così. Mentre ero a pranzo con i miei compagni, Mazzarri mi chiamò al suo tavolo: ‘Vieni qui. Come hai corso oggi?’. Gli spiegai la situazione. Con grande signorilità prese il portafoglio, lo aprì ed estrasse un po’ di contanti. Li diede al preparatore, dicendogli: ‘Accompagnalo a comprare un paio di scarpe nuove’. Non fu per i 50 euro, ma per il gesto. Quando ci siamo ritrovati a Torino mi ha ringraziato per le belle parole che avevo speso per lui negli anni.

 

 

I miei compagni mi chiedono come sia Scampia. Gli mostro le foto, mi dicono che vorrebbero vedere con i loro occhi. Tomás Rincón, ad esempio, è uno dei più interessati. La mia storia è simile a quella di Paulo Dybala, anche lui viene dal nulla e ha perso il padre da piccolo. Dopo un derby gli sono andato incontro e gli ho detto: ‘Io e te abbiamo una storia simile. Ci fa onore per quello che siamo diventati’. E l’ho abbracciato. ‘Noi due siamo simili’.

 

Non posso permettermi di mollare. Quella tazza di latte caldo con i biscotti, dopo aver giocato in corridoio spaccando le lampadine con il pallone, per me e per i miei fratelli era la felicità. Ancora oggi la ricordiamo con il sorriso. Ma quello che voglio dirvi è che non mangiare per due giorni non va bene. Io ho lasciato Scampia impaurito e, quando ci sono tornato, l’ho fatto da persona migliore. Da esempio, da speranza. Quello che voglio essere per voi. Quando vengo lì, io mi sento forte grazie a voi. Mi sento a casa. Abbiamo qualcosa in più, noi. Non mangiare per due giorni non va bene, non deve succedere. Abbiamo fame, ce la possiamo fare. Noi siamo indistruttibili.