di Arthur Mendonça Cabral

L’enorme vetro con la scritta “EuroAirport” riflette il freddo. Mentre cammino, sento addosso tutti i gradi di differenza che dal Brasile mi porto a Basilea. Mi sono vestito pesante, evidentemente non abbastanza: che ne sappiamo noi brasiliani del vento e delle temperature sotto i 15°? Ma la vera domanda è: cosa ci fa un ragazzo brasiliano in un aeroporto svizzero?

 

In tanti lo chiamano Re Artù. Tutto era nato alcuni mesi prima, quando un tifoso del Ceará aveva portato allo stadio una corona soltanto per fargliela indossare durante i festeggiamenti. Quel giorno, Arthur Cabral è diventato re. Con tanto di incoronazione dopo la vittoria del secondo Campeonato Cearense consecutivo. Il campionato regionale del mio stato in Brasile, quello in cui abbiamo battuto nel derby il Fortaleza.

 

Sì, re Arthur sono io. Ci avevo messo poco per farmi amare dai miei tifosi. Da noi ci sono due campionati: quello statale e quello brasiliano. Durante tutta la stagione, quelli del Fortaleza – che nel campionato brasiliano erano in Serie B – ci avevano presi in giro perché eravamo partiti con 12 risultati negativi consecutivi. Tutti ci davano per spacciati. Così, arrivato il derby, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa per rimetterli a posto. Ho chiesto a un amico di tagliarmi i capelli lasciando soltanto una scritta: 8C. Otto come gli anni in cui il Fortaleza era stato in Serie C. Ancora oggi, credo che i tifosi del Fortaleza vogliano uccidermi! Però quelli del Ceará, quando c’è il derby, mi scrivono ancora: «Guarda Arthur, mi sono fatto i capelli come te!».

 

 

Partite senza destino. Come quando si accese il duello tra me e il bomber del Fortaleza, Gustavo detto «Gustagol». Io segnavo, lui segnava. Lui segnava, io segnavo. La febbre del derby a distanza era salita alle stelle, tanto che iniziarono a essere prodotte delle magliette da indossare a seconda del tuo attaccante preferito: Arthur o Gustagol. Sulla sua c’era scritto «Messi, Neymar, Cristiano e Gustagol!», nella mia «Arthura ou surta», ovvero Arthur o impazzisci. Vendevano un sacco di quelle t-shirt, io ne ho ancora una nella mia casa in Brasile. Quell’anno ho segnato due gol nella finale in cui li abbiamo battuti e allo stadio hanno iniziato a cantare una canzone per me: «Matador… goleador… Re Artù!». La cantava tutta la curva, l’hanno caricata anche su YouTube e ha 100mila visualizzazioni.

 

 

La prima volta in cui ho sollevato un trofeo, avevo giocato solo una partita con il Cearà. La coppa era più grande di me. Da quel giorno, non mi sono più fermato. Il Palmeiras chiamò per comprarmi: si trattava di un grande salto. Ma fu una delusione. La gente mormorava che fossi buono soltanto per giocare nel Ceará. Era il 2019 e, dopo la seconda esperienza al Palmeiras, capii che dovevo cambiare qualcosa. Fare un passo in avanti che mi permettesse di dimostrare che Arthur non era re soltanto a casa sua.

 

Ecco perché, in quel momento della mia vita, mi trovavo nell’aeroporto di Basilea. Avevo appena deciso di mollare il Brasile per andare in Europa. Dimostrare, quindi, che Arthur non era forte solo al Ceará. L’impatto fu scioccante. Freddo, freddo, neve, temperature pesanti. Ma io sono una persona che è stimolata dal cambiamento e soprattutto dalla necessità di adattarsi. In Svizzera, ogni aspetto della vita è completamente diverso dal Brasile. E quando dico ogni aspetto, mi riferisco davvero a tutto. Per me, il periodo a Basilea è stato troppo importante per arrivare dove sono adesso. Senza quell’esperienza, sarebbe stato un dramma. Se dal Palmeiras fossi arrivato alla Fiorentina, mi sarei fatto male. Un salto troppo grande. Quello step intermedio mi ha permesso di imparare molto, soprattutto che un attaccante deve anche aiutare la squadra in vari modi.

 

Se è vero che a Firenze la gente è molto ‘brasiliana’, empatica e di cuore, in Svizzera sono culturalmente diversi e ho pensato: «Sono tutti così in Europa?». Sono freddi, ma nel senso buono del termine. Rispettosi. Ero abituato agli stadi del mio Paese, alle rivalità accese che non ti fanno dormire la notte e alle sconfitte che ti perseguitano per giorni. Ero abituato  alla primavera e all’estate: cos’è l’inverno in Brasile? Quella stagione dove minimo ci sono 20 gradi? Qui pioveva sempre, d’inverno. Il primo che ho vissuto in Europa non è stato troppo duro. Il secondo… mamma mia… tremendo. Allenamenti con -14 gradi, e la neve… bella la prima volta, ma ricordo di partite giocate su campi interamente imbiancati! Ho capito che non è sempre estate.

 

 

Ho in mente due momenti che mi hanno fatto capire quanto nel mondo ci sia diversità, e quanto esistano usanze davvero differenti tra loro.

 

Perdemmo un derby contro lo Zurigo per 4-0. Da noi, in Brasile, inizierebbero a fischiarti e a chiederti di andare a lavorare. Anche al ristorante non ti lascerebbero in pace. Lì, invece, siamo andati sotto la curva e hanno iniziato ad applaudirci e incitarci. Mi sono girato verso i miei compagni e gli ho chiesto: «Perché non ci stanno offendendo?». Un’altra volta – era l’ultima di campionato – ne prendiamo ancora 4, in trasferta. Torniamo a Basilea e c’erano 200 tifosi ad aspettarci. Mi aspettavo la contestazione, dover dare spiegazioni, restare lì per molto tempo a sentire insulti. Invece, appena siamo scesi dal pullman, hanno iniziato ad applaudirci per ringraziarci per la stagione. Un’altra mentalità.

 

Dopo due anni e mezzo, però, era arrivato il momento di fare un altro salto. Un altro adattamento. Perché in Europa, come al Palmeiras, avevo capito che non è sempre estate. Che bisogna continuare a migliorarsi se si vuol restare al passo. Sogno di diventare uno degli attaccanti più forti, come lo è stato il mio idolo Ronaldo: sapete che un giorno sono stato a casa sua? Il mio procuratore è suo amico, io ero un ragazzino e mi disse: «Domani non prendere impegni, ti porto a casa di Ronaldo». Non ho parlato, ero immobilizzato. Troppo nervoso e troppo emozionato.

 

 

Re Arthur doveva quindi spostare la sua corona. Mi chiamò la Fiorentina. E fin dal primo giorno, ho trovato un ambiente più simile a casa mia. Mi ha fatto molto ridere un’immagine di me al supermercato, in cui i tifosi facevano a gara per capire cosa acquistassi quando faccio la spesa: «Cosa compra Arthur Cabral al market?». Sono abituato a fare delle grandi grigliate nella mia casa in Brasile: lo ammetto, non sono quello che griglia, ma quello che mangia… di più! La nostra casa è sempre aperta: giochiamo a teqball, a poker, a calcio, abbiamo anche una piscina. Impossibile che stia fermo a non fare niente: le porte sono sempre aperte. Sopra abitano le mie sorelle con i loro nipoti, a fianco i nonni. Tutta la famiglia si riunisce, è pieno di bambini. C’è sempre un clima wow.

 

Quando sono arrivato, ero consapevole di dovermi adattare. E infatti all’inizio ci ho messo un po’ per ingranare. Il mister non molla mai: Italiano è un motivatore intenso, un allenatore che urla sempre e che vuole concentrazione. Non molla un centimetro, è un martello. Mi ha insegnato che non devo mai perdere il focus su quello che sto facendo: fin dal riscaldamento inizia ad urlare per farci rimanere sul pezzo e concentrati. Mi ha detto che devo farlo se voglio essere un top. Questo passaggio mentale è uno di quelli che hanno fatto la differenza per la mia esplosione a Firenze.

 

Ora le persone mi fermano per strada: «Arthuuuuuuur! Dai che devi segnare eh!». Ogni giorno qualcuno mi affianca con la macchina per dirmi che dobbiamo vincere, o anche solo per farmi i complimenti. È davvero bello.

 

«Daaai Arthur! Daaai!».

 

E poi sono impazziti per le esultanze. Il gol è il momento più bello del calcio e merita di essere celebrato. Dopo quella sul VAR che ho fatto contro il Braga la gente ha iniziato a scrivermi: «Arthur sei il numero uno! L’esultanza meglio del gol!». Il calcio è allegria, per questo improvviso i balletti con Igor e Dodô. Anche in palestra, dove però non spingo come il mio amico Igor: io ho la genetica dalla mia parte, sono fortunato, mi basta poco. Pure in campo cerco di portare felicità, pure con i difensori avversari. A volte trovo qualcuno un po’ più serioso…

 

 

Se mi manca l’atmosfera del Brasile? Certo. Ma dovevo dimostrare a tutti il mio valore. In ogni momento della mia carriera ho saputo prendere quanto di buono si potesse: dalle panchine al Palmeiras, dal freddo svizzero, dai gol che non arrivavano a Firenze. Perché se è vero che un’estate vale più di dieci inverni, io sono qui per crescere ancora, sapendo chi voglio essere sia quando le cose vanno bene, sia quando vanno male.

 

Perché non è sempre estate, ma vivo per far sì che sia così.