Dal Qatar al Rwanda, ma lo sportwashing del Bayern non piace ai tifosi

by Grei Hasa
bayern

Il 30 giugno è terminata dopo 5 stagioni la sponsorship del Bayern Monaco con Qatar Arways che garantiva ai bavaresi circa 15/20 milioni a stagione. Probabilmente causa del mancato prolungamento del contratto c’è anche la volontà dei tifosi: il 77,8% di loro erano in disaccordo nel promuovere il Qatar per motivi etici, poiché il paese non rispetta molte delle norme internazionali in tema di diritti umani.

Nonostante ciò, il consiglio direttivo del Bayern ha respinto la richiesta dei membri, arrivata ufficialmente nel meeting annuale che la società bavarese organizza con una rappresentanza di tifosi. L’amministratore delegato del club dell’epoca, Oliver Kahn, disse che il Bayern aveva «criteri molto chiari» per le sue partnership.

Criteri che probabilmente non tengono in considerazione i motivi etici. Il club infatti, dopo la naturale conclusione del contratto con Qatar, ha scelto il Rwanda come prossimo partner. Il claim ‘Visit Rwanda’ apparirà nelle maniche del Bayern per i prossimi 5 anni, dopo che già l’abbiamo visto su quelle di PSG e Arsenal. Ma perché parliamo di sportwashing anche in questo caso?

Con I soldi alle big del calcio europeo il Rwanda cerca di attirare turisti e di apparire come un Paese moderno e sicuro. Cosa che purtroppo non è. Fino al 1994 il Rwanda ha vissuto una guerra civile cruenta e fratricida, dove due gruppi (Hutu e Tutsi) si uccidevano tra di loro. Vi consigliamo un film per capire la situazione ‘Gli alberi della pace’, lo trovate su Netflix. Si parla di un vero e proprio genocidio: più di mezzo milione di morti.

Il generale Kagame esce vittorioso dalla guerra civile e da allora è sempre stato presidente. Per rimanere in carica per quasi 30 anni ha modificato la Costituzione e nelle ultime elezioni ha vinto con il 99% di preferenze. Negli anni ha portato il Rwanda a essere uno degli stati più ricchi d’Africa, anche grazie a collegamenti finanziari con il Qatar stesso, ma rimangono grandi carenze nella garanzia dei diritti civili.

Esprimere critiche e dissenso è pericolissimo. (Il caso più eclatante è quello di Paul Rusesabagina, eroe nazionale che durante il genocidio ha salvato la vita a centinaia di persone nell’hotel in cui lavorava, è stato condannato a 25 anni di prigione”per terrorismo” per aver criticato il lavoro del presidente. Anche la sua storia è raccontata da un film: “Hotel Rwanda”.)

Un altro caso è quella della YouTuber Yvonne Idamange. In un suo video aveva accusato il presidente di essere un dittatore. È stata condannata a 15 anni poiché nel proprio canale: «presenta un comportano che mescola politica, criminalità e follia».
La polizia e l’esercito sono strumenti con i quali il governo controlla e tacciare il dissenso.

Ma non c’è un controllo ossessivo solo sulle critiche, le persone vedono limitate la propria sfera privata in molti modi. Persino nella privacy e nel modo di vestire. Una cittadina di nome Lilliane Mugabekazi è stata arrestata per aver indossato un “abito indecente” per assistere un concerto a Kigali, la capitale.

E purtroppo spesso non basta neanche il carcere a placare la paranoia. Secondo Country Reports on Human Rights Practices degli Usa, è una pratica diffusa quella di uccidere arbitrariamente oppositori politici facendone sparire i corpi.

Secondo il governo il turismo sportivo ha portato in Rwanda 6 milioni di dollari nel 2021. Dopo l’accordo con l’Arsenal, le entrate del turismo in Rwanda sono aumentate del 17% e i turisti dall’Europa sono aumentati del 22%. Lo sportwashing sta funzionando.