a cura di Matteo Lignelli e Giacomo Brunetti

Sacrifici, doppio sport e la parola chiave: adattamento. Questo è il beach soccer

Il campionato dura due mesi, poi la Nazionale. Durante la stagione, la maggior parte degli atleti lavora per renderlo sostenibile.

Fabio Sciacca ha giocato in Serie A, ma il beach soccer lo appassiona fortemente: «La partita non è mai chiusa! Anche il portiere può segnare, è tutto imprevedibile. Non puoi pensare la giocata, in quella frazione di secondo ti ritrovi già l’avversario addosso. E inoltre, a differenza del calcio normale, si riducono le distanze: alleniamo la componente fisica, con sessioni adattate dal calcio ma su percorsi più corti e ritmi più alti. Quando andiamo al centro tecnico di Tirrenia per la preparazione, condividiamo la struttura con l’u-21 di calcio a 11, e loro ci dicono: ‘Non riusciremmo mai a fare i vostri allenamenti!’».

 

Sciacca ci racconta come «il beach sia uno sport evoluto, dove negli ultimi anni praticamente non ci sono pause».

 

Gli chiediamo chi vedrebbe bene dei giocatori di oggi sulla sabbia: «Vi spiego perché non posso rispondere. L’adattamento alla superficie sabbiosa è determinante. Il rimbalzo è imprevedibile, devi alzarti il pallone in modo funzionale. Nel calcio classico, io ero forte palla a terra, quindi atipico per questo sport: ho lavorato e osservato i migliori per crearmi questa competenza». Passa tutto dalla sabbia, quindi: «Facciamo sempre doppio allenamento, serve una condizione fisica di alto livello. La superficie è più morbida, anche adesso nelle serie dilettantistiche, specialmente al Sud dove gioco io, ci sono alcuni sintetici vecchi in cui sento dolori nel muovermi, mentre sulla sabbia tutto tace». Sciacca gioca nel Napoli Beach Soccer adesso, mentre il resto dell’anno lo trascorre, come detto, nel calcio a 11. «Questo sport è sacrificio. Io vivo di calcio, ma ci sono alcuni miei compagni che devono prendere le ferie da lavoro o dal club con cui sono tesserati, perdendo anche dei soldi, pur di venire in Nazionale. Non tutti possono sostentarsi con il beach e il calcio. Abbiamo una diaria che ci permette di compensare, in questo la Federazione ci aiuta molto».

 

 

Nel femminile non va meglio, anzi. «Come accade per il calcio a 11, siamo ancora indietro rispetto al maschile» ammette Martina Galloni. «Ma è uno sport così spettacolare che chi lo prova non riesce a tornare indietro. Ti innamori per l’ambiente e il grande coinvolgimento che c’è, tra musica e pubblico, e non smetti. Anche se questo significa essere occupati durante tutta l’estate». Per chi non vive di calcio, vuol dire rinunciare alle vacanze con la propria famiglia. «Ci sono colleghe che per giocare devono prendere un mese di ferie, per noi donne può essere un sacrificio aggiuntivo. Non essendoci molti sponsor, poi, anche per le società è dura sostenere i costi di trasferta» conferma la numero 1 della Nazionale di beach. «Io ho la fortuna di avere uno stipendio, ma nel frattempo studio psicologia e penso al futuro perché per noi donne non è scontato vivere di calcio, ma finché riesco continuerò a farlo, poi si vedrà».

 

C’è poi un’ulteriore barriera che rischia di allontanare i calciatori dalla spiaggia, ed è la paura di infortunarsi. «Un falso mito» assicura il c.t. Emiliano Del Duca, e a riprova di questo c’è proprio la storia di Fabio Sciacca. «Questa paura è uno dei primi problemi che incontriamo quando reclutiamo giocatori, eppure nel beach statisticamente ci sono meno infortuni rispetto al calcio a 11 e nessuno di natura muscolare. I più frequenti sono gli infortuni traumatici alle dita» chiarisce il c.t.. «Però in quel caso le stecchiamo e torniamo subito in campo!» scherza Sciacca, carico per questa nuova avventura in Nazionale.