Hatem Ben Arfa, il francese che non aveva niente da invidiare a Ronaldo

by Francesco Pietrella
Hatem Ben Arfa

Hatem Ben Arfa ti dà la sensazione di un’opera incompiuta, un lavoro interrotto, come l’Adorazione dei Magi di Leonardo gli Uffizi. Ogni volta che lo osservi noti un dettaglio nuovo, una sfumatura diversa, mentre dietro la Madonna col bambino il paesaggio è sempre a metà. Schizzi di nero su tela e bozzetti scuri con i volti della gente, senza sguardi. 

Senza casco sul motorino

Ben Arfa è stato uno dei più grandi what if degli ultimi vent’anni di pallone. Uno che ha preso il suo talento e l’ha buttato, sprecato, calpestato, avendone cura solamente un paio di stagioni. A 35 anni, dopo una manciata di partite a Lilla senz’arte né parte, si è ritrovato ancora una volta senza squadra. Il luogo in cui è stato avvistato l’ultima volta è la sintesi perfetta di un ragazzo rimasto bambino: Ben Arfa era a cento metri dal Parco dei Principi, casa del Psg, la chance più grossa mai sprecata, e a cinquanta dal Philippe Chatrier, il centrale del Roland Garros dove Nadal ha dominato 14 volte, e dove un francese non vince da quasi quarant’anni (Yannick Noah, 1983). Lì dove le stelle di Simon, Tiafoe, Gasquet e Monfils hanno brillato troppo poco, o troppo presto, infrangendosi contro aspettative, pressioni e salti di qualità mai avuti. Hatem si trovava lì per caso, a Boulogne, insieme a un amico. Stava per salire sul motorino senza casco. 

Hatem Ben Arfa, Menez, Nasri, Benzema…

Coerente anche nelle piccole cose: allergico alle regole, refrattario ai consigli. Uno che insieme agli avversari ha sempre dribblato anche le responsabilità, come se non volesse portare sulle spalle il peso del talento, come Atlante con il mondo. E se non ha sfondato la colpa è sua. Magari lo sa, magari se ne frega. Cris, suo ex compagno a Lione, centrale tosto che l’avrà bastonato mille volte in allenamento, anni fa l’ha fotografato alla perfezione: «Quando ci parli ti dice di aver capito, ma dieci minuti dopo fa il contrario di quello che gli hai appena detto». Ben Arfa ha fatto parte della generazione maledetta degli ’87 francesi campioni d’Europa Under 17 nel 2004. Un parterre de rois giovanile in cui c’erano lui, Menez, Nasri e Benzema. I primi due, in un modo o nell’altro, rimasti incompiuti come Hatem (che mantiene lo scettro). 

Odi et amo con chiunque

Benino a Lione, odi et amo con il presidente Aulas. Prima gli ha fatto firmare un contratto lungo e se l’è coccolato un po’, sbandierando il suo amore per lui: «Il più forte giovane di Francia ce l’abbiamo noi». Poi l’ha scaricato. Perché Ben Arfa è così. Prima ti fa innamorare e poi ti fa incazzare. Una volta, in nazionale, si è fatto cacciare da Blanc perché aveva tenuto il telefono acceso durante una riunione tecnica, mentre Deschamps lo bollò come uno che «mette gli allenatori nella merda», tant’è che per tre anni non l’ha convocato in nazionale. Si è ricreduto solo nel 2015,  dopo un inizio di stagione al top a Nizza, venti minuti in campo contro la Germania allo Stade de France, il giorno degli attentati al Bataclan. 

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«Era fuoriclasse, ma…»

Una decina di anni fa ha letto Nietzsche e Oscar Wilde, ma anche se aprono la mente giura di non averli capiti. Da quando è un ragazzino c’è un regista che lo segue passo passo per documentare tutta la sua carriera, dal centro di formazione a Clairefontaine al passaggio in Inghilterra con il Newcastle, dove circola ancora un suo gol segnato dopo una cavalcata di 50 metri. Anche lì, luci e ombre. Come le parole di Alan Pardew: «Era un fuoriclasse, ma passava poco il pallone, e quando glielo facevo presente si innervosiva». Male a Bordeaux, male a Valladolid, malissimo a Lilla. L’ultima impresa degna di menzione resta la Coppa di Francia vinta con il Rennes nel 2019, contro il vecchio Psg. Quando l’hanno dopo ha affrontato Emery in Europa League si è fatto una risata: «Era sempre agitato…».

«Sono salito in fretta, poi…»

Per Domenech non aveva niente da invidiare a Ronaldo; per Wenger aveva dei gesti alla Maradona; per l’amico Benzema era come Messi, poi Emery gli disse chiaro e tondo di no: «Tu non vinci le partite da solo, lui sì». Hatem, di se stesso, ha sempre parlato in modo chiaro: «Sono salito in fretta, poi sono caduto in picchiata». Quando ha lasciato il Psg ha detto che la dirigenza non l’aveva rispettato, ora riparte per l’ennesima volta. Un’opera incompiuta, un talento sprecato, un lavoro lasciato a metà, da osservare comunque stregati mentre fila via senza casco in motorino. Coerente fino alla fine.