Il ruolo dell’allenatore nel mondo del calcio sappiamo essere il più scomodo. E non potrebbe che essere così in effetti, soprattutto nei livelli top: capacità gestionale di spogliatoi spesso non omogenei, capacità relazionali con i media, presidenti, dirigenti e responsabilità pressoché totale dei risultati negativi. Chiaramente esistono altri nobili valori, da cui alcuni sono fortunatamente affetti ed altri solo portatori sani. Dicono che gli allenatori migliori siano ex centrocampisti o ex difensori, per l’abitudine a guidare compagni di reparto e perché il loro campo visivo era di 360°.
Rafa Benitez è stato difensore e centrocampista, seppur mediocre: inizia nella Castilla senza mai riuscire ad affacciarsi in prima squadra, per continuare poi la sua breve carriera in Segunda Division B, senza lasciare tracce significative. Si accorgerà presto, complice una serie di fastidiosi infortuni, che la scelta migliore sarebbe stata quella di abbandonare il calcio giocato. Così accade, ma Rafa non si ferma, non ne ha la minima intenzione, e pochi mesi dopo il ritiro, a 26 anni diventa allenatore delle giovanili del Real Madrid, squadra in cui iniziò e città in cui è nato.
Nel Real rimarrà per 9 stagioni, in cui non perde occasione di assistere allenatori del calibro di Del Bosque e Valdano e macinare esperienza: l’età glielo permette, glielo suggerisce, glielo impone. Il tempo di ambientarsi coi grandi, prendere spunti dai migliori (un anno a studiare Man Utd e Arsenal) e raccogliere qualche delusione ed è pronto.
Siamo nel 2001, Benitez ha da poco compiuto 41 anni e approda al timone del Valencia, con tutti i dubbi e le perplessità del caso, ma dureranno poco: vince la Liga, subito, al primo anno, e per togliere ogni dubbio dalla mente dei malpensanti si ripete due anni dopo. Da quel momento in poi sarà oggetto del desiderio dei più grandi club europei. Sceglie il Liverpool, il fascino inglese dal quale era già rimasto incantato è troppo forte. Del resto, come dargli torto? La possibilità di radicare un progetto, di avere tempo per poterlo realizzare, la gestione manageriale del club non è propria di tutte le nazioni. L’apoteosi e il momento più alto della sua carriera lo ricordiamo bene tutti: stravolge una finale di Champions passando da 0-3 a 3-3 in poco più di 6 minuti, contro una delle squadre più forti che si ricordi.
Poi Inter, Chelsea e Napoli: coi nerazzurri vince Supercoppa Italiana e Coppa del Mondo per Club in sei mesi; coi londinesi un Europa League in nove, con il Napoli una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana.
Benitez ha vinto, ovunque sia andato. Ha collezionato coppe di ogni nazione e lo ha fatto nel modo in cui tifosi e dirigenti vogliono: divertendo. Viene criticato il suo integralismo tattico, la sua perseveranza nel modulo e negli schemi, la sua pigrizia della fase difensiva. Lui, sempre disponibile, rispettoso e decisamente simpatico, complice una fisionomia quasi comica, ha sempre ascoltato e accettato critiche, ribattendo con eleganza e serenità da par suo, con la fermezza dei forti e l’umiltà degli intelligenti.
Al Real non sono mai bastate le vittorie e i trofei: Capello ha vinto ed è stato esonerato, stessa sorte per Del Bosque e Mourinho. Hanno appena esonerato l’allenatore più vincente del calcio moderno. Vittorie e bel gioco sono i dictat dal quale presidenti e tifosi non sanno prescindere. Benitez questo lo sa: ha un passato che lo lega indissolubilmente alla capitale, sponda Real. E da quando l’ha lasciata ha imparato a vincere e divertire, con garbo, signorilità e distinzione. Pare essere il primo favorito per la prossima panchina dei Blancos: vi viene in mente qualcuno di più adatto?