Il campetto per noi è sempre stato più di un semplice luogo di aggregazione; è stato il nostro tempio, la nostra chiesa, il nostro luogo di culto. Il nostro Teatro dei Sogni. Al campetto abbiamo imparato a sfidare prima di tutto noi stessi, a capire i nostri limiti per spingere l’asticella sempre più in alto. È stato il posto in cui abbiamo vissuto le nostre prime volte: la prima rovesciata, il primo tunnel, la prima Rabona. Poco importava che ci fossero le porte vere o se dovevamo inventarcele. Ci siamo legati a quel quadrato magico come una tribù durante un rito ancestrale e, ad un certo punto, ne siamo rimasti dipendenti.
Al campetto abbiamo imparato a sfidare prima di tutto noi stessi, a capire i nostri limiti per spingere l’asticella sempre più in alto. Era la nostra droga, ma nessuno ci ha mai costretto a disintossicarcene.
Non conto più i pomeriggi passati a giocare a Tedesca, due zaini come porte, e la testa che, semplicemente, sembrava più leggera. Altri tempi, altri mondi. Era la nostra droga, ma nessuno ci ha mai costretto a disintossicarcene. Infatti siamo ancora qui. Ci ritroviamo, sempre gli stessi, nei momenti più improbabili dell’anno; con la pioggia, la neve, il solleone; nei giorni di festa, il 25 aprile, ferragosto, in una piazzola dell’autogrill di Rovigo la sera di Capodanno. Perché niente ci appagherà mai come un gol di spalla—che elimina il portiere—durante una maratona di tedesca, giù al campetto. Il nostro Teatro dei Sogni.