D’Agostino a Cronache: «Conti e Capello, Sanchez e quel volo per Madrid»

by Redazione Cronache

di Lorenzo Semino

«Amo il rischio» racconta Gaetano D’Agostino in una lunga intervista che cerca di sbrogliare i fili della sua intricata strada da giocatore, da Nord a Sud. I fili del centrocampo, per un ragazzino arrivato a Roma spaesato e coccolato da Bruno Conti, non è mai stato un problema tirarli da solo. «Mi sono sempre guadagnato tutto step by step». E noi, passo passo, ripercorriamo la carriera di un numero 10 da galacticos. L’avevano capito pure loro, ma il calcio è fatto anche di sogni spezzati e fantasticherie. «Se fossi nato adesso come calciatore, forse sarei il centrocampista più pagato in Italia dopo Pirlo». Come non detto.

«Come Roma mi ha cambiato la vita» 

«Arrivo a Roma che ho 13 anni. Mi sentivo un po’ spaesato nel vedere tutti quei campi in erba, campi che non avevo mai visto. Venivo da una realtà in cui si giocava ancora sulla terra battuta e mi sembrava di stare a Gardaland. Ero ancora un bambino e quando mi sono visto tutto questo davanti ho pensato fosse un sogno. Poi, quando mi sono abituato, ho capito anche che la vita da calciatore fosse completamente differente da quella che facevo in Sicilia: giocavo nel Palermo, ma la mia vita era giocare in strada. Quando devi osservare regole, tornare da scuola e fare i compiti, arrivare in orario ad allenamento con un orario fisso per tornare in camera, ti cambia tutto».

C’è spazio per due aneddoti: «Un giorno io e Lanzaro siamo scappati da Trigoria: lui veniva da Nola e io da Palermo, in convitto sembravamo due rifugiati a cui mancava quella libertà di cui avevano bisogno. Bruno Conti mi prese e mi portò per un periodo a casa sua a Nettuno, dove ho vissuto con Daniele (Conti, ndr) e mi sono sentito un po’ più in famiglia. Per salire su a Roma dovetti lasciare mamma, papà e sorella. Io e gli altri giovani dovevamo fare lavoro di tecnica individuale, portare le casacche ai magazzinieri, lavare tutti i palloni prima dell’allenamento, portarlo in campo, riprenderli tutti e contarli…e Trigoria guardate che è grande! Fuori dal campo stavamo un’ora a girare per riportarli tutti, con la pioggia e con il freddo, perché altrimenti non potevamo tornare negli spogliatoi. Questo tutti i santi giorni. Oggi se lo fai con un giovane rischi di andarci a litigare».

5 novembre del 2000: esordio in Serie A. 6 maggio 2001: conquista dello Scudetto. «La Juventus si stava avvicinando, ma Capello ci radunò e ci disse che non sarebbe successo niente, che l’avremmo vinto noi». «No pasa nada» pare abbia detto un allenatore che ha fatto la storia del madridismo e viene definito da D’Agostino come un padre putativo. Altro aneddoto, questa volta proprio su Capello: «Con lui non si poteva fiatare. Una volta un mio compagno dopo pranzo fece un ruttino, il mister era lontano e non so come ha fatto a sentirlo. Fatto sta che è apparso come una divinità e l’ha obbligato a farsi tutto il giro del centro sportivo facendogli dire ‘sono un cretino’ ogni volta che passasse di fronte a una porta. Avevamo tutti timore di lui, ma ci è servito. Dico sempre che sia stato l’allenatore più importante per me, perché mi ha insegnato come si vive in uno spogliatoio e mi ha insegnato a rispettare le autorità. Ha avuto un ruolo significativo anche quando sono tornato nel 2004: ho fatto una stagione importante, siamo arrivati secondi giocandoci il campionato con il Milan».

Roma caput mundi? Non per sempre. «Sono voluto andar via io – racconta – Avevo 19 anni e dopo lo Scudetto volevo capire se potessi davvero fare questa carriera. Essere cresciuti a Trigoria ti fa sentire protetto, dentro una sfera di cristallo». La sfera rotolerà verso Sud, direzione Bari nel celebre scambio che ha portato sotto il Cupolone Cassano.

 

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«A Bari un ometto, a Messina una divinità»

Se ami il rischio e vuoi rompere il vetro, devi avventurarti al San Nicola o al San Filippo. Nel destino di D’Agostino ci sono entrambi. «Dentro di me c’era la voglia di mettermi in gioco, cavarmela da solo, vivere da protagonista o comunque giocare per meritarmi il posto in uno spogliatoio nuovo. Nell’affare con Antonio la mia metà valeva 5 miliardi: non era mica poco. A Bari sono cresciuto e diventato un ometto. L’ho fatto in una piazza importante dove – dopo la retrocessione – c’erano tanta rabbia e tanta voglia di rivalsa. Non ha da invidiare nessun’altra città per la pressione. Con la maglia numero 10 a 19 anni avevo addosso delle grosse responsabilità, ma mi sono sempre meritato la maglia da titolare perché avevo fame e voglia di diventare un giocatore importante».

«A Messina ho trovato un’altra piazza calda, uno stadio sempre pieno. Giravi in città e ti fermavano ad ogni angolo della strada, al supermercato o in tabaccheria. Ti sentivi una divinità. Siamo retrocessi perché la società aveva già dato l’input che qualcosa non andava, infatti il calcio a Messina è scomparso, ma è una piazza che merita davvero tanto. Ventura? In Italia si fa presto a giudicare un allenatore. È vero, non ha qualificato l’Italia a un evento importante ma non credo che la colpa sia tutta sua. La gente poi si dimentica dei 25 anni che ha fatto a buonissimi livelli, esaltando giocatori che poi sono diventati importanti».

«Guardai Alexis e gli dissi che era da Barcellona»

A Udine la consacrazione da regista, ma anche l’esultanza da arciere. Prendi una freccia lanciata da van der Meyde, mettila in mano al Niño Torres e come risultato otterrai l’esultanza di D’Agostino. Che però ci racconta di averla ideata sulle orme di Usain Bolt. «L’ho personalizzata partendo dal suo gesto, che era diventato il mio idolo. Ovunque andasse sfondava tutti i record. Poi mi piaceva la nonchalance con cui lo faceva, anche lui un personaggio che attirava l’attenzione. Nel 2008 scherzando dissi a mia moglie che avrei fatto quell’esultanza, tanto ero un centrocampista: mica pensavo di segnare tutte le domeniche. Invece mi portò persino fortuna, perché quell’anno ne feci addirittura 11 e per tutti diventai l’arciere come mi chiamavano. Lui lo faceva con un dito io con due».

A proposito di frecce e di niños, dal Cile arrivò un certo Alexis Sanchez. «Quando lo vidi in ritiro pensai: ‘così magrolino, ma dove va questo?’. Dopo il primo allenamento capì che non si riusciva neanche a prenderlo e allora dentro di me pensai un’altra cosa: ‘O è il classico giocare del giovedì, che poi alla domenica se la fa sotto, oppure in campo fa la differenza’. Dalla prima amichevole ho capito che avrebbe fatto la differenza. In allenamento era un fenomeno, tanto che il giovedì quando facevamo le partitelle ed eravamo un po’ più stanchi lo volevamo sempre in squadra con noi. Scalpitava, puntava e scartava tutti, se gliela rubavi veniva a riprendertela in scivolata. A un certo punto partivano  le minacce, ma quelle vere (sorride, ndr). A parte gli scherzi, era imprendibile». Nuovo aneddoto. «Una premessa: giocando da regista, Totò Di Natale mi conosceva a memoria. Giocavamo sul corto, sul lungo, in profondità, lui viveva per il gol. Alexis invece viveva per il dribbling. Quindi un giorno lo chiamai vicino a me e gli dissi scherzando: ‘Niño, tu sei un giocatore da Barcellona ma per andarci devi fare almeno 7-10 gol all’anno. Ci alleniamo qualche volta anche a cercare la profondità?’. Detto fatto, lui mi guardò con gli occhi affamati e in Spagna ci arrivò per davvero. Non so se gli portai fortuna, lui è un fenomeno ma i fenomeni se non fanno gol sono fini a se stessi. Quell’anno ero stato il centrocampista più prolifico della Serie A e attirai l’attenzione di grandi squadre d’Europa».

 

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«Il biglietto per Madrid lo lascio al mio avvocato»

Chi non andò al Real per questione di minuti, cosa ormai nota da anni,  è proprio D’Agostino. Il suo avvocato ha ancora il biglietto aereo per Madrid. «Ce l’ha lui e glielo lascio, perché a vederlo rosicherei ogni volta. Preferisco mantenere un bel ricordo, è stata un’esperienza e la delusione ormai è assimilata. L’unico rancore che ho, in quell’estate famosa fra Real Madrid e Juventus, è di aver detto no al Napoli. Era fatta, avevamo trovato già l’accordo ma tentato dalla Juve e avendo già parlato con i dirigenti dissi di no istintivamente. Se tornassi indietro, con il mio carattere e il mio modo di vivere, molto probabilmente prenderei più tempo nel fare scelte affrettate. Quella scelta mi costò caro. Udine, calcisticamente, è stata la mia vita, ma avrei potuto fare il salto economico – non lo nego – e di blasone e alla fine non è successo. Quello forse è l’unico rammarico». E per la mancata convocazione ai Mondiali del 2010? «No, non provo rancore. Mi ero fatto male al ginocchio a marzo e non ho fatto in tempo a riprendere».

La carriera di D’Agostino e la nostra intervista riprendono colore con il viola della Fiorentina. Un viola che, visto a distanza, forse è un po’ sbiadito. «C’erano queste due correnti di pensiero. C’erano giocatori che avevano dato già tutto per la maglia ed erano in scadenza; poi c’erano giocatori nuovi che volevano mettersi in mostra come me, Cerci e Boruc. Inconsciamente quindi si scontrava gente con grandi motivazioni e gente che aveva raggiunto risultati già importanti. Non che ci siano mai state liti, ma questa mancata fusione ha fatto sì che la stagione fosse un’annata normale, un campionato brutto.  Nonostante questo chiusi con 5 gol, che come centrocampista significa un’annata prolifica. Poi decisero di non riscattarmi, avrei potuto tornare a Udine ma scelsi di non farlo».

«A Siena è caduta una città intera»

Scelse il bianco e il nero del Siena. Nel bianco della prima stagione c’è anche una semifinale di Coppa Italia: «Un’annata che ho vissuto in maniera stupenda». Nel mezzo un prestito al Pescara, poi l’inizio della fine. Nel 2014 la società di Massimo Mezzaroma è dichiarata fallita per dissesto finanziario: «Non è caduta solamente una società, ma una città, perché il 90% dei dipendenti che lavoravano nel club erano senesi. Oltre a un progetto societario fallito, a pagare è stata la città: sono stati momenti molto brutti da vivere. Lì anche noi abbiamo lasciato e perso tanti soldi, veramente tanti».

Soldi fa rima con calciomercato, quello che a Gaetano ha dato e saputo togliere. “È diventato un mercato di prodotto. Sul giocatore, soprattutto di questi tempi, non c’è più una linea guida di valutazione. Io ho suscitato l’interesse di Real, Juventus e tante altre squadre, ma mi ci sono volute 150 partite in Serie A. Ho dovuto dimostrarlo sul campo, perché prima si facevano tantissime valutazioni: ‘vediamo matura’ o ‘quando sarà pronto per il grande salto’. Io a 26 anni, dopo tante presenze, finalmente potevo scegliere di andare al Real Madrid, che sarebbe stato un sogno. Oggi è un criterio giusto valutare un giocatore 50 milioni dopo che ha fatto 5 partite? Passare dal guadagnare 100mila euro a 2 milioni e mezzo nel giro di pochi mesi ti cambia la vita. Ti viene da pensare di aver raggiunto l’obiettivo e di poterti godere la vita. Spesso non è tanto quello che ti compri ma l’ambizione che rischia di cambiarti. A distanza di 10 anni questo concetto è cambiato. Sono partito dalla Primavera guadagnando il minimo indispensabile, a Bari mi hanno aumentato e così via anche a Messina, step by step, sono arrivato a guadagnare cifre importanti. Se come calciatore fossi nato oggi, forse sarei il giocatore più pagato dopo Pirlo: se le cifre del mercato sono queste, nel 2020 bastano 3 punizioni per valere 100 milioni». E nel 2009? Nel 2009 voleva solo dimostrare di valere il prezzo del biglietto. Di quel biglietto.