Alla scoperta di Devin Özek, uno dei direttori più promettenti (e giovani) di tutta Europa

by Giacomo Brunetti

A soli 28 anni ha contribuito a costruire il Leverkusen degli invincibili. La Germania sforna talenti anche tra i dirigenti: Devin Özek è pronto al grande salto come direttore sportivo. «Il mio prossimo passo sarà diventare il direttore sportivo di una società. Sto considerando diverse opzioni, valutando quale sarà lo step migliore», ci spiega Özek, classe ’95 e uno degli artefici della costruzione del Bayer che negli ultimi anni ha lasciato un’impronta nel calcio europeo, vincendo anche la Bundesliga e arrendendosi solo in finale di Europa League all’Atalanta. In Germania ha avuto modo di costruire una squadra pazzesca. Ma ancor prima, a colpire è stata la solidità dell’organizzazione societaria: due CEO (Fernando Carro per la parte dirigenziale, Simon Rolfes per quella sportiva) e i continui viaggi di Özek in giro per il mondo per tessere relazioni, scovare e trattare giocatori, realizzare importanti cessioni.

La struttura della squadra di lavoro

Ci ha spiegato come organizza il suo team di lavoro: «Dipende dal Club, chiaramente. Ho ben chiari il ruolo e i compiti, prima ancora dei nomi delle persone. Penso che sia molto importante rispettare la storia e la struttura del Club, quindi se entro in una società, preferisco prima valutare chi c’è già. Lo scouting lo organizzo in base ai mercati interessanti per quel determinato Club».

Il suo è un ruolo in continua evoluzione: «Il direttore sportivo deve dare una direzione chiara al progetto tecnico: deve fare un’analisi approfondita di tutti gli aspetti del Club». Soprattutto, «è fondamentale capire il contesto in cui agisce il Club, «di ciò che rappresenta nel contesto nazionale e internazionale, dell’ambiente, della comunità dei tifosi, al fine di identificare uno stile di gioco». Il passo successivo è «creare un’identità calcistica che possa aver successo in base al tipo di campionato e al budget a disposizione». Una volta identificato lo stile di gioco, «puoi definire i profili specifici per ogni ruolo. L’allenatore deve allinearsi perfettamente al progetto e ai suoi principi», cosicché «il Club possa cambiare allenatore nel tempo, implementando le idee e il tipo di adattamento, ma partendo da un sistema di base».

Il calciomercato e le sfere d’influenza: dentro e fuori dalla rosa

La gestione dei trasferimenti è sicuramente uno dei fiori all’occhiello di Devin Özek: «La mia filosofia si basa su 2 punti chiave: provare a reclutare giocatori che normalmente non potresti ingaggiare e cercare di vendere con successo i cosiddetti giocatori ‘fuori dal progetto’». In questo, sicuramente Özek ha dimostrato di saperci fare: prima di lui, le squadre tedesche facevano molta fatica a smaltire gli esuberi e i calciatori ai margini. Tra le trattative portate a termine, il prestito secco più oneroso dell’ultima sessione estiva: Odilon Kossounou per 5,5 mln di prestito all’Atalanta, facendo fruttare le conoscenze nate durante la finale di Europa League.

«Il calciomercato italiano – ci racconta – è uno dei più stimolanti in cui lavorare: qui il calciatore è ancora visto come una star. Per me che ho anche radici turche, l’Italia è interessante: è un mix tra la mentalità turca del sud, dove si ama sedersi, mangiare, parlare e conoscersi… Con quella tedesca, dove ci sono varie figure con cui interloquire tra presidenti, ad, direttori sportivi, agenti e così via. In Italia ci si incontra molte volte prima di chiudere una trattativa. La frase standard è: ‘Vieni a Milano e poi vediamo’. Rispetto agli altri Paesi, in Italia ci sono moltissime informazioni pubbliche sui calciatori: le persone ne sanno tantissimo e il giudizio sulla persona influisce su quello legato alle prestazioni in campo. Le squadre italiane hanno spesso problemi nel liberarsi degli “esuberi”. È un mercato caotico in cui vorrei misurarmi, mi piace. In Italia ci si incontra molte volte prima di chiudere una trattativa. La frase standard è: ‘Vieni a Milano e poi vediamo’. Fissi un appuntamento, poi arrivi lì e ci sono il triplo delle persone di quante ne aspettassi! E magari spuntano argomenti e nuove trattative. In Germania si preferiscono le call. Se invece prendi un volo per l’Italia senza impegni già fissati, può accadere che ti ritrovi con 10 appuntamenti in un giorno!». Puro stile italiano.

Tra i mercati di riferimento per Özek ci sono sicuramente quello italiano e arabo. Ci ha spiegato che ogni Paese ha delle peculiarità nelle trattative e che il Medio Oriente sarà importante nei prossimi anni: è sua la prima cessione del Leverkusen da quelle parti, con Azmoun ceduto a Dubai. La sua visione sul mercato è netta: «Riuscire ad acquistare calciatori che il Club, in condizioni normali, non sarebbe in grado di ingaggiare: utilizzando il nostro network, la capacità di negoziazione e adottando soluzioni creative per la formula del trasferimento e dei pagamenti». E senza dimenticare l’importanza delle cessioni: «Nella mia visione è fondamentale essere in grado di vendere con successo chi non fa più parte dei nostri piani. Questo ti porta a creare spazio in rosa, diminuire il monte ingaggi e generare un profitto extra per il Club. In questo modo, si aumenta il livello medio di qualità della squadra e si migliora l’ambiente nello spogliatoio. Le squadre italiane hanno tanti problemi nel “liberarsi” di alcuni calciatori, è un mercato molto caotico e sfidante che mi attrae».

L’importanza delle public relations

Le relazioni sono alle basi del suo lavoro e del modo d’intenderlo: «Avere un’ampia rete di relazioni mi permette di trovare la soluzione migliore per Club, calciatori e agenti. Il mio background da procuratore mi ha aiutato a capire che il ds dev’essere proattivo e non aspettare le proposte degli agenti», ci spiega. «Mi piace lavorare con i calciatori e i loro agenti in modo attivo e intraprendente: il giocatore ha un contratto ed è giusto che anche la società si muova per sistemare le varie situazioni». «Avere un’ampia rete di relazioni mi permette di trovare la soluzione migliore per Club, calciatori e agenti».

Un esempio concreto e lampante è il suo approccio verso il mercato arabo, «qualcosa che non si era mai visto nel calcio: ad esempio non trattano per telefono, devi essere lì di persona. Devi viaggiare, sederti con loro e mangiare. Crearci un legame. Mi è capitato di avere 5 incontri per una trattativa e non parlare mai di calcio. Al sesto incontro, in 5 minuti abbiamo fatto tutto. Ha dinamiche diverse, un modo differente di trattare. È un mercato in cui mi sono specializzato. Alcuni pensano: ‘Ho un esubero, lo piazzo in Arabia’. Ma non è così: hanno talmente tanti soldi che sono loro a poter scegliere chi comprare e chi no». Per alcuni tratti ricorda l’approccio italiano: «Anche da voi è fondamentale conoscersi di persona e condividere del tempo. Non è facile convincerli, hanno anche delle liste con un determinato numero di calciatori locali da dover schierare in campo. Il networking diventa uno strumento di lavoro fondamentale se tratti con il Medio Oriente. Come quando ho ceduto Azmoun a Dubai, il primo trasferimento in quelle zone proveniente dal Leverkusen. In Arabia, ad esempio, è incredibile cosa hanno costruito nel giro di due o tre anni: strutture devastanti dove prima non c’era niente. Certo, manca ancora qualcosa. Ma recentemente ho visto Al-Hilal contro Al-Nassr, una sfida al vertice che aveva tutti i requisiti di un big match».

Scouting, giovani e visione del team di lavoro

Il suo metodo di scouting si suddivide in due aree complementari, ovvero «la dimensione legata ai dati» e «le sensazioni reali che percepisco da un calciatore sul campo». Difatti, «per me lo scouting tecnico, quello dal vivo, è il lato più importante. Bisogna avere intuito e fantasia sia nel trovare i giovani, che nello scegliere i calciatori già affermati». Ma soprattutto, «devi conoscere bene la tua squadra e di cosa hai realmente bisogno. Devi saper immaginare i calciatori che vedi integrarsi nella tua rosa, questo fa uno scout preparato: conosce bene cosa ha in casa».

Altro aspetto importante è la gestione di un giovane: «Quando lavori in una società, ripeto, devi conoscere le risorse tecniche che hai in casa: se voglio crescere un determinato attaccante per farne il nostro numero nove, oppure so che può diventare un ottimo secondo centravanti in panchina, non posso andare a ingaggiare due centravanti nella stagione precedente». È necessario costruire un piano a medio-lungo termine per la prima squadra. Come garantirgli spazio? È essenziale «farlo allenare con i grandi, ma naturalmente non tutti i talenti sono uguali: con tanti devi lavorare anche individualmente per farli arrivare al giusto livello tecnico o fisico per accumulare minuti in prima squadra». Ma è fondamentale che «riescano ad avere i primi minuti tra i professionisti, non voglio tenere un giovane in panchina per due anni», a costo di mandarlo in prestito: «Deve assorbire il gap con il settore giovanile, anche nell’intensità e nella pressione».

Il Bayer degli invincibili (o quasi!) e l’incredibile incontro con Rolfes

L’esperienza al Bayer Leverkusen lo ha formato ad alti livelli: «È una società ben strutturata con due CEO: uno per l’ambito sportivo (Simon Rolfes), uno per quello gestionale (Fernando Carro), ed entrambi sono molto bravi. C’erano poi due figure che dipendevano dal CEO sportivo, che si occupavano dello scouting e del reclutamento, coordinando tutte le relative attività: Kim Falkenberg ed io. In pratica, dei collaboratori esecutivi. Il lavoro di pianificazione della squadra e gestione dei trasferimenti era molto articolato: Kim si occupava maggiormente della gestione scouting, mentre io ero avevo il compito di strutturare la pianificazione della prima squadra, individuare i profili necessari alla squadra, condurre le trattative di compravendita in alcuni mercati specifici, gestire la movimentazione dei calciatori in prestito. Questo lavoro si abbinava allo sviluppo delle relazioni internazionali, viaggiando in giro per il mondo per ampliare il nostro network di contatti. Un ruolo di responsabilità all’interno del processo di gestione dei trasferimenti e del set-up della squadra. Durante i miei 4 anni al Bayer abbiamo lavorato molto per ottimizzare il meccanismo della cessione dei calciatori: prima avevamo problemi nel vendere, soprattutto piazzare i calciatori in uscita era complicato».

Il gancio che lo ha portato al Leverkusen è stato Simon Rolfes, ex calciatore del Club che con il tempo ne è diventato direttore sportivo. E la loro storia mixa il bizzarro, le competenze e le sliding doors: «L’ho conosciuto quasi 10 anni fa. L’ho visto in televisione e aveva appena annunciato il suo ritiro dal calcio giocato, spiegando che aveva intenzione iniziare una carriera come manager sportivo. Ho ascoltato il mio istinto, all’epoca stavo lavorando in una piccola agenzia di procuratori e mi sono detto: ‘Gli scrivo’. Solo che non avevo i suoi contatti. Buttai giù un testo: ‘Salve mr. Rolfes, vorrei essere il suo uomo nel sud della Germania perché abito a Monaco’. Non avevo la sua e-mail, quindi iniziai a provare indirizzi a caso come info@rolfessimon oppure info@simonrolfes, e proseguii».

A una di quelle e-mail arrivò davvero una risposta: «Dopo una chiamata su Skype, mi ha testato per alcuni mesi e alla fine mi ha inviato a monitorare una competizione in Azerbaigian. Mi chiese di selezionare i tre migliori giocatori che avessi visto, e lui avrebbe fatto lo stesso. A fine competizione avremmo confrontato le liste. Entrammo in call e mi chiese di inviare la mia lista, poi mi condivise la sua: i tre nomi erano uguali! Era un match perfetto, dunque iniziammo a lavorare insieme. Quando Simon è entrato a far parte del management del Bayer Leverkusen – io stavo lavorando come agente per migliorare la mia abilità nelle trattative – mi ha chiamato per lavorare con lui. Il dialogo con Simon Rolfes era parte integrante delle mie attività quotidiane. Ci siamo confrontati continuamente su come volevamo impostare il reclutamento calciatori in vista dell’estate, tanti meeting per parlare insieme della squadra e dei calciatori, di chi avremmo potuto comprare e chi invece vendere, sempre in concerto con il team di scouting e recruiting. Simon è una persona molto importante nella mia vita».

Una vittoria di gruppo e i viaggi in giro per il mondo

La costruzione della squadra che ha vinto la Bundesliga è stata un lavoro di gruppo: «Ognuno di noi ha contribuito per il suo ruolo, con le sue competenze, in modo sinergico e armonico. Ci sono due aspetti da evidenziare per capire come si è arrivati a quel risultato: da una parte il processo di reclutamento dei calciatori e la strategia sportiva, dall’altra l’atmosfera positiva che si era creata dentro alla società. Abbiamo avuto questo feeling dalla prima stagione in cui è arrivato Xabi Alonso, c’era la forte sensazione che poteva crearsi qualcosa di speciale. In vista della sua prima finestra di mercato, abbiamo iniziato a preparare e costruire la struttura della squadra che successivamente sarebbe diventata campione di Germania: uno sforzo prodotto con grande energia collettiva, tutte le persone che lavoravano al massimo, dallo scouting al personale. Giorno e notte, abbiamo viaggiato tantissimo e fatto viaggi incredibili, con qualunque mezzo, da una parte all’altra: è stato molto intenso, ma tutti questi piccoli dettagli e il tempo che ci abbiamo investito, hanno portato successo». In particolar modo, «mi ricordo di una settimana pazzesca, cinque giorni di fuoco che non credevo fossero veri. Sono partito da Monaco per Amsterdam, poi diretto in Qatar e dopo a Jeddah, da lì a Riyadh, poi Milano, infine Roma e sono tornato in Germania. La settimana più intensa che io abbia mai vissuto, ho dormito pochissimo e ho delle immagini sul telefono dove sembro uno zombie. Tutti quelli che hanno lavorato in quel Bayer hanno dato il massimo».

Xabi Alonso e i suoi protagonisti

Se il gruppo di lavoro di Devin ha agito da architetto, l’ingegnere è stato l’allenatore Xabi Alonso: «Appena l’ho incontrato, ho subito avuto chiaro che sarebbe stato un allenatore top. Avevo questa sensazione anche prima di incontrarlo. Ha una grande aura, entra nella stanza e lo percepisci. Nei nostri meeting era impressionante il livello di accuratezza e di dettagli nell’identificare ciò di cui la squadra necessitava, i profili di giocatori che voleva integrare nel gruppo, la sua conoscenza approfondita di tantissimi calciatori: un chiaro segnale che era abituato a vedere tantissime partite. Un’altra cosa che mi ha sempre colpito era la sua capacità di unirsi all’allenamento insieme alla prima squadra quando voleva mostrare ai ragazzi come voleva che le cose venissero fatte in campo. Si notava subito che le sue grandi qualità di calciatore erano ancora ad altissimi livelli. Abbiamo condiviso un bel percorso, Xabi è destinato a fare grandi cose in carriera».

Tra i talenti più cristallini presenti in rosa c’è Florian Wirtz, uno di quello che ha spaccato in due la Bundesliga con il Bayer: «Il momento più speciale che ho condiviso con lui è il suo gol decisivo per lo Scudetto, quando tutti i tifosi sono entrati in campo. Non sono riuscito a godermelo, perché ero molto spaventato: non ho festeggiato perché dal mio punto di vista mancava ancora tanto alla fine della partita. Ero nervoso, mi guardavo attorno. Poi ho visto Rolfes scendere in campo dicendo di contare quanto mancasse prima di diventare campioni. Stavano già festeggiando, solo in quel momento mi sono rilassato». Fondamentale tanto quanto Granit Xhaka: «Il suo arrivo a Leverkusen è stato un grande colpo firmato da Fernando Carro e Simon Rolfes. Hanno fatto un lavoro incredibile. Abbiamo lavorato sempre in team, come successo con Kossounou (trasferito all’Atalanta) e Mukiele (arrivato dal PSG), chiusi in 36 ore: io ho definito l’affare in Italia, mentre Rolfes insieme a Falkenberg chiudeva il trasferimento a Parigi. Nello stesso momento. Questo credo che sia il miglior esempio di come si lavora in squadra e che così facendo, tutto è possibile».

Non sappiamo quanti dirigenti abbiano dipinto calcio alla sua età. Certo è che il futuro parla per Devin.