a cura di Lorenzo Cascini

La terza squadra della Capitale si chiama Roma City e ha il 2° centro sportivo più grande d’Europa

Tutto parte da Roma, passando dagli Stati Uniti e facendo ritorno a casa.

Se chiude gli occhi si vede all’Olimpico con la maglia della Lazio, pronto a fare la guerra con il Cruz o lo Shevchenko di turno. «Erano delle vere battaglie. Ci menavamo proprio, non so se ‘se può dì’».

 

Modibo Diakité, 35 anni da Bourg-la-Reine, Francia. Periferia sud di Parigi. Scherza e racconta in perfetto dialetto, perché la Capitale – dopo tanti anni di Lazio – è diventata casa sua. «Sono arrivato che non avevo nemmeno vent’anni e ancora oggi vivo qui». Il presente dice Roma City, realtà emergente che lotta per salvezza in Serie D ma che punta in grande. «Hai visto il centro sportivo? È impressionante, solo al Sunderland e a Formello ho visto strutture simili. E io di squadre ne ho girate tante tra Serie A, B, l’Inghilterra e la Spagna. Con il presidente ci siamo guardati negli occhi e mi ha convinto, anche se la sua serietà non è stata l’unica cosa che mi ha fatto dire sì». 

 

Modibo si ferma. Alza lo sguardo, sorride e riparte. «Eccomi, scusa a ripensarci mi veniva da ridere». Contesto. «È il mio primo giorno al centro sportivo, avevo appuntamento con lui per parlare e non lo trovo. Lo chiamo, lo cerco un po’, niente. Poi mi dicono che sta seguendo i lavori dei muratori. Arrivo e lo trovo in jeans e maglietta, in piedi su una scala che li aiutava. Roba che dici ora mi cambio e vengo anche io. Ti coinvolge. Come fai a dire di no a un uomo che spende milioni e poi si comporta così? Quando dice che vuole arrivare in alto non scherza, di progetti così in Italia se ne vedono pochi». 

 

 

C’è poi un concetto che fa da filo conduttore alla chiacchierata. «Non ho dato peso alla categoria, voglio essere un esempio per i ragazzi. Cerco di aiutarli e di dare consigli quando posso». Poi tira fuori una cartolina, con una frase tipo mantra scritta sopra. «Non devi mai pensare di avercela fatta, anche se durante il cammino ti capitano momenti magici». Attimi in cui ti fermi e aggiungi una spunta verde alla voce “sogni realizzati”. Ecco il primo.

 

«Giocavamo in Coppa Italia contro il Milan. Parto titolare e chi mi trovo davanti? Ronaldinho. Io che a Parigi con i miei compagni saltavo la scuola per andare a vedere i suoi allenamenti con il Psg. Per noi più che un idolo. Gli lanciavamo le palline da tennis in campo, lui le prendeva e iniziava a fare numeri su numeri. Marcarlo è stato un po’ come realizzare anche i sogni dei miei compagni che erano lì, ma soprattutto quelli del me bambino». Ma non è stata l’unica spunta messa. «La Coppa Italia con la Lazio e la Supercoppa vinta contro l’Inter di Mou. Sono emozioni che non dimentichi mai».

 

 

Oggi gli può capitare di raccontarle in spogliatoio, tenendo incollati i suoi compagni più giovani che sognano sentendo certi nomi. «Ogni tanto è successo, magari facendo esempi formativi che possono spiegare ai ragazzi come si comportano i grandi campioni. Anche perché – per quella che è stata la mia esperienza – molto spesso più i giocatori sono forti, più sono umili e disponibili verso il gruppo. Penso a Klose, ma anche a Matuzalem, Pandev o Borja Valero. Ma potrei davvero andare avanti a fare nomi per una settimana».

 

Diakitè la chiama scelta di vita. È sceso di categoria, sposando un progetto in cui si sente coinvolto anche in prospettiva futura. «Il mio sogno è avere a che fare con i giovani, vorrei essere un educatore ancora prima di essere un allenatore. Mi piacerebbe insegnare a loro quello che ho imparato io in tanti anni di calcio. Intanto ad avere rispetto, a volare basso e a investire sui propri pregi». Un po’ come è successo a lui. «Appena arrivato alla Lazio, Delio Rossi mi disse di migliorare le qualità in cui ero già forte. ‘Tu lotta, usa il fisico e fai la guerra, a impostare ci pensano gli altri’. Aveva ragione. Non serve che tutti sappiano fare tutto, ma che facciano quello che sanno fare meglio in modo che sia funzionale al resto della squadra». 

 

Se chiude di nuovo gli occhi, stavolta pensando al futuro, si vede lì, al centro del campo a dare indicazioni con la stessa grinta con cui oggi guida la difesa da giocatore. Dal campo alla panchina. «Penso che farlo al Roma City sarebbe stupendo. Qui ci sono mezzi, strutture e organizzazione per diventare un punto di riferimento per i giovani. Ovviamente dopo la Roma e la Lazio. Ci vorrà tempo, ma si può realizzare davvero una grande Academy» Lo sguardo poi volge subito al presente. «Io gioco ancora però eh! Do il 100% in ogni allenamento, ho voglia di migliorare ancora. Ora puntiamo a salvarci, poi si vedrà. Con una società simile alle spalle non ci dobbiamo porre limiti». Con umiltà e organizzazione come stelle polari, senza avere mai paura di puntare in alto. Nessun problema di vertigini, garantisce Modibo. Lui d’altronde è abituato. Come quel bambino che lanciava palline da tennis a Dinho e che poi si è trovato a marcarlo davanti ai 70mila dell’Olimpico. La scalata è lunga, sarà difficile, faticosa. Ma l’orizzonte è ancora così pieno di spunte da mettere e sogni da realizzare.