Diego Perez: «Sinisa mi diceva che avrebbe voluto 11 uruguaiani in campo»

by Mattia Zupo
Diego Perez

Punta Cana si trova sulla costa orientale della Repubblica Dominicana. Spiagge bianche, palme e acqua cristallina dove si incontrano il Mar dei Caribi e l’Oceano Atlantico. Questa la meta scelta da Diego Perez per le vacanze insieme alla sua famiglia dopo la vittoria contro l’Italia al Mondiale U20. «Un orgoglio. È stato bello perché il calcio in Uruguay si vive con passione, quando siamo rientrati a Montevideo abbiamo fatto il giro col pullman scoperto in mezzo alla gente», racconta da sotto l’ombrellone l’ex centrocampista del Bologna che a distanza di 13 anni è tornato a festeggiare un titolo con la Celeste, dopo quella Copa América vinta in finale contro il Paraguay che lo portò a farsi crescere i capelli e a percorrere 40 km in 8 ore insieme a suo padre e suo fratello. «Questa volta non c’era nessuna pazzia in programma. Mi ero promesso di andare alla Vergine di Lourdes e ci andrò quando tornerò dalle vacanze».

L’intervista a Diego Perez dopo il Mondiale U20 vinto

113 partite al Bologna dal 2010 al 2015, poi l’avventura in panchina come allenatore della Primavera campione del Torneo di Viareggio e l’esperienza nello staff di Mihajlovic. Pérez da un anno e mezzo è rientrato a Montevideo dopo la morte della madre e della nonna. «È stata una decisione difficile perché a Bologna stavo bene, ma per motivi familiari ho deciso di tornare. I primi mesi non sono stati facili, mi mancava la gente che avevo conosciuto e la cucina italiana, in generale la qualità della vita. Qui ho ritrovato la famiglia e amici di infanzia che non vedevo da tanto tempo, ma Bologna rimarrà nel mio cuore: da giocatore amavo giocare contro le big e mi porto dietro le vittorie contro l’Inter, il Napoli e la Juventus, ma soprattutto la gente che lavora nel club. Dal nulla poi mi è arrivata la chiamata della federazione uruguaiana per lavorare nello staff dell’U20 e ho accettato». È iniziata così una nuova tappa della vita del Ruso, soprannome che gli aveva dato sua mamma per la carnagione chiara della pelle e che lo ha accompagnato per tutta la carriera, ma adesso preferisce non utilizzare. «Ruso resterà il mio soprannome. Ma da quando ho iniziato a lavorare con Broli ho chiesto anche ai ragazzi di non chiamarmi più così per rispettare il suo ruolo e non passargli sopra. Una questione di rispetto, visto che tanti dicevano la Sub20 del Ruso» spiega Diego Perez.

«Forlan, il compagno più forte. La retrocessione col Bologna è stato il momento più triste della mia carriera»

Poche parole e pochi gol, tanti muscoli, polmoni e garra. Un guerriero in campo, lo si ricorda così. Tra i tanti aneddoti ce n’è uno che lo ritrae in una partita contro suo fratello Omar ai tempi del Defensor Sporting. «Correvo con il pallone, ma dopo un contrasto con lui cascai a terra e mi feci male alla caviglia. Iniziai a urlare dal dolore con mio fratello che mi diceva di alzarmi perché aveva 4 cartellini gialli ed era a rischio squalifica. L’arbitro allora si avvicinò e ci disse: “Risolvetela tra di voi, come a casa”. Alla fine non lo ammonì».

L’immagine più iconica della sua carriera è il volto insanguinato al Mondiale in Sudafrica contro il Messico. Un’altra è il gol all’Argentina nella Copa América 2011, con il pallone che non toccò neanche la rete. «È stato uno dei più importanti della mia carriera. È stata una partita molto emozionante, perché poi siamo stati espulsi sia io che Mascherano. I miei compagni mi hanno salvato la vita perché sono riusciti ad eliminare in 10 l’Argentina di Messi, Di Maria, Higuain e Tévez…Alla fine è andata bene», ricorda il 43enne che allora componeva un centrocampo muscolare con Gargano e Arevalo Rios per sostenere un tridente che ha fatto la storia, col Cachavacha, il Pistolero e il Matador. «Il più forte con cui ho giocato in nazionale è Diego Forlan, senza nulla togliere a Suarez e Cavani. In Italia dico Marco Di Vaio». Con l’attuale direttore sportivo rossoblù ha condiviso lo spogliatoio sia al Monaco che al Bologna. L’avventura con gli emiliani è culminata nel 2015 con la retrocessione in Serie B. «Quello è stato il periodo più difficile della mia carriera. Ho avuto tanti infortuni, avevo giocato il mondiale in Brasile e a quell’età si vedeva tutta la stanchezza che avevo accumulato negli anni». Un altro periodo complicato lo ha vissuto a contatto con Mihajlovic e al momento della sua scomparsa. «Che argomento difficile. Sono entrato nel suo staff quando ha iniziato a combattere il tumore. Era un esempio per come caricava tutto quello che lo circondava, quando invece era lui che doveva essere aiutato. È stata un’esperienza molto dura. Quando ho saputo la notizia della sua morte mi ha fatto male. Ricordo che quando non vincevamo si arrabbiava e mi diceva: “Vorrei 11 uruguaiani come te”. E io invece gli rispondevo che i ragazzi avevano fatto bene per calmarlo un po’».

 

Diego Perez: il trasferimento al Monaco e il rapporto con Deschamps

Dopo aver parlato di Sinisa, Diego si prende una pausa. Tempo di fare un tuffo e di pranzare. Riprendiamo dopo 2 ore, dopo una grigliata, tradizioni che per gli uruguaiani vanno oltre i confini. Lui che la patria l’ha lasciata per la prima volta nel 2004. «Il Monaco aveva giocato la finale di Champions nel 2003. Era come uscire dall’Uruguay e andare sul tetto del mondo. È stata una bella esperienza. Ricordo che Chevanton stava facendo le visite mediche perché avevano preso anche lui dal Lecce e sente che c’era un giocatore africano che non aveva ricevuto l’idoneità per un problema al cuore, allora gli fece il mio nome ai dirigenti. Sono stato acquistato l’ultimo giorno di mercato dopo la Copa América in Perù. Il mio agente venne da me dopo la partita per chiedermi il passaporto e mi disse: “Non dire nulla, ma sei già stato venduto al Monaco”».

 

6 stagioni nel Principato con i monegaschi, anche se dopo appena un anno era stato messo sul mercato da Deschamps. «Venne da me e mi disse che non avrei giocato tanto. Lo ringraziai per avermelo detto e gli risposi che mi sarei allenato 4-5 volte in più per fargli cambiare idea. Dopo 3 partite lo esonerarono e il suo vice venne promosso. Da lì iniziai a giocare e poi rinnovai anche il contratto». Nessun rancore però con l’attuale ct della Francia. «Di Deschamps posso solo parlare bene. Era una scelta tecnica, poi sono stato bravo io a non mollare. Anni dopo ci siamo rivisti a Monaco e mi fece i complimenti per i miglioramenti e perché mi aveva seguito in nazionale. È stato molto carino con me».

«Pioli, l’allenatore che mi ha dato di più. Tabarez aveva previsto il mio futuro in panchina»

Il quarto posto a Sudafrica 2010 rappresenta la vetrina che gli ha dato visibilità a livello internazionale. «Sarei potuto andare all’Atlético Madrid, ricordo che se ne parlava di quella possibilità, ma alla fine sono andato al Bologna. Mi voleva anche il Palermo che poi però è retrocesso. Bologna è stata la scelta giusta». E alla seconda stagione in rossoblù ha conosciuto Pioli. «L’allenatore che mi ha dato di più in carriera. Uno che spiega bene e che parla tanto con i giocatori, forse anche troppo, infatti certe volte non mi piaceva perché poi magari gli altri compagni pensavano male vedendomi sempre col mister». Tra gli allenatori avuti è impossibile non menzionare il Maestro, Oscar Washington Tábarez. «Ha iniziato il percorso della nostra nazionale. Mi diceva che sarei diventato un allenatore perché per lui già lo ero in campo, quindi lo vedeva prima. Io non ho fretta, voglio andare piano, ho ancora tanto da imparare, ma qualcosa al calcio posso dare e con l’Uruguay è ancora più facile».

Joga, telefonini sequestrati e l’erede della numero 15 celeste

In attesa di rinnovare il contratto con la federazione uruguaiana, per Pérez si potrebbe prospettare l’esperienza di vivere il Preolimpico Sub-23 al fianco di Bielsa. «L’ho visto 2 volte prima e dopo il Mondiale. Ci ha fatto i complimenti e ha fatto un’analisi della nostra squadra. Mi piacerebbe lavorare con lui per imparare».  Un ruolo quello di assistente che Perez lo vive a 360 gradi, 24 ore su 24 a contatto con quelli che potrebbero essere i suoi figli. Tanto che durante il Sudamericano e il Mondiale si assicurava che tutti riposassero. In che modo? Sequestrando i cellulari, ma non solo. «Riposare è il segreto del giocatore di élite. Dormire è fondamentale, lo so perché ho giocato ad alti livelli e qui in Uruguay invece siamo lontanissimi. Ricordo che una delle prime sere a mezzanotte sentivo che nella stanza di fronte i fratelli Rodriguez erano ancora svegli e allora entravo in camera, gli facevo fare un po’ di joga e poi si addormentavano. Mi sono divertito a stare con questi ragazzi».

Anche se non si rivede in nessuno di loro. «Non c’è un altro Diego Pérez, i centrocampisti oggi devono saper fare tutto. Fabricio Diaz e Damian Garcia ne sono la prova». Ma c’è un momento in cui si è emozionato, esultando al gol del centrocampista che utilizza il suo stesso numero di maglia: la 15. «Ignacio Sosa ha segnato con il mio stesso numero di maglia ed è venuto ad esultare da me. Il giorno prima gli dissi di tirare da fuori che avrebbe segnato, e poi è successo». Premonizioni, come quella al portiere Randall Rodriguez dopo la sconfitta in finale col Brasile nel Sudamericano lo scorso febbraio. «Andai a consolarlo mentre stava piangendo a terra. Gli dissi: “Guarda che sarai il portiere della nazionale e vincerai il Mondiale”. 2 mesi dopo è accaduto. È stato convocato in nazionale maggiore ed è campione del mondo». Il tempo per i ricordi è finito, Pérez ci saluta. È arrivato il momento di un altro bagno.