Domenico Morfeo, l’angelo e il diavolo

by Giacomo Brunetti

di Giacomo Brunetti

«Sono uscito dal calcio perché non mi divertivo più. Nessuno mi ha obbligato a farlo, per me è sempre stato un piacere giocare. Quando mi sono reso conto che i miei interessi erano passati in primo piano, ho detto basta».

Domenico Morfeo è il diavolo e l’angelo nello stesso calciatore. Quello che se chiedi ai compagni, ti rispondono: «Il più forte con il quale ho giocato». Eppure la sua carriera è piena di contraddizioni e occasioni scivolate via, e non di rinunce: «Ho un rimpianto: non aver fatto il professionista a 360°, hai tempo per fare tutto quando smetti e non devi fare subito quelle cose che fanno tutti da giovani. Quando smetti sei ancora giovane per non esserti perso niente».

Ma se non vali niente, non arrivi a giocare nell’Inter e nel Milan.

A Bergamo si può

Morfeo è cresciuto nell’Atalanta, la squadra che domina l’attualità e per la quale le parole sui metodi di crescita dei calciatori si sprecano. E quando gli chiedo se ha chiari i motivi della nascita di talenti a Bergamo, non ha dubbi: «A differenza delle altre squadre che non puntano sul settore giovanile, ma sempre e solo a vincere, l’Atalanta forma una equipe di persone che vanno in giro a osservare partite, gente competente. E all’epoca c’era un maestro come Mino Favini che diceva l’ultima parola. I ragazzi vengono seguiti al 100%, ci puntano davvero. Se ne vedono uno pronto, investono su di lui». Anche perché, secondo Morfeo, c’è un aspetto da tenere in considerazione: «È una delle poche società che guadagna con il calcio. Non vincendo, perché anche se vinci guadagni soldi. L’Atalanta è una di quelle che guadagna senza vincere. E se adesso riesce a ottenere pure i risultati, sarà una macchina perfetta».

Con le giovanili nerazzurre vincerà di tutto, anche il Torneo di Viareggio. Alla guida Cesare Prandelli, che «mi ha fatto esordire all’Atalanta, l’ho raggiunto a Verona e Parma. Con lui c’era un rapporto di stima reciproca: davo tutto per lui e facevo dare tutto ai miei compagni per il bene che gli volevo». Per esemplificare il loro legame c’è un aneddoto nato poche ore prima della finale di quel torneo. Morfeo non è al meglio, ma lo ha disputato tutto da protagonista e non vuole certo perdersi la sfida decisiva: «Sali sulla collinetta e colpisci per tre volte consecutive quell’albero. Se ci riesci, giochi». Domenico non parte titolare, ma subentra per il suo momento di gloria.

A Milano non per caso

All’Atalanta si consacra prima del passaggio a Firenze. Gioca alle spalle di Filippo Inzaghi, capocannoniere con 24 gol nella stagione 1996/1997, e i bergamaschi restano in Serie A.

«Quella squadra non era molto forte tecnicamente, ci siamo salvati nelle ultime giornate. Ricordo che Inzaghi lottava per la classifica cannonieri, all’ultima partita a Reggio mi disse: ‘Se mi fai fare una doppietta, ti do 5 milioni’. Solo così avrebbe staccato Montella. A fine partita prese 5 milioni e me li diede, e andammo a mangiare con la squadra. Gli avevo fatto fare gol, ma non giocavamo solo io e lui».

A 20 anni è uno dei maggiori talenti in circolazione. Lo acquista la Fiorentina, e le cose iniziano a girare bene: quando è titolare tutto va per il verso giusto. Poi, «quando stavo facendo bene e stavo per andare in Nazionale, è arrivato Edmundo e non mi fecero più giocare. Doveva giocare lui, e io rimasi fuori non per demerito. Con Malesani feci bene seppur in un ruolo non mio, ma non mi divertivo. A Firenze c’era una buona squadra, ci sono stato in varie stagioni: andavo e venivo, ero una pedina di scambio per loro».

A Firenze resta un anno – salvo tornarci per altri due spezzoni tra il 2000 e il 2002 – e passa in prestito al Milan, mentre proprio nell’estate del 2002 arriva all’Inter. C’è una foto emblematica di Morfeo in allenamento con Cannavaro e Vieri. «Lì e al Milan – ci racconta – ho capito perché esistevano quei grandi giocatori come Maldini e Zanetti. Come Batistuta, come questa gente qui. Avevano un altro modo di allenarsi rispetto agli altri: arrivavano prima, finivano dopo, erano i primi a tirare la carretta. Capisci perché certi traguardi e certa importanza arrivano. E non arrivano dal niente. Forse è quello che è mancato a me: non mi piaceva allenarmi».

Zanetti e Maldini, due leader iconici che Morfeo illustra: «Sono persone silenziose, parlano poco ma quando lo fanno sono incisive. Quando parlano le ascolti perché non ti richiamano sempre, ma dicono cose giuste e corrette. Ti dimostrano insegnamenti non con le chiacchiere, ma con i fatti. E allenandosi sempre a mille all’ora. Mi rimase impresso quando vincemmo lo Scudetto: eravamo sotto, prima c’era la Juventus. Nessuno nello spogliatoio parlava di Scudetto, era tutto normale, una alla volta sebbene stessimo arrivando sotto. Niente pressione».

Le carte con Adriano, la spensieratezza di Totti

Nel 1996 Domenico Morfeo vince l’Europeo U-21. In attacco gioca insieme a Totti e Cannavaro: «Con Totti le abbiamo fatte tutte. Lui è sempre stato un giocherellone, un menefreghista. Lui è fatto così, così viveva le partite, ma non era sintomo di disinteresse. Anzi. Sapeva di essere bravo e non aveva bisogno di quella concentrazione che serviva agli altri».

Storie di campioni. Campioni del Mondo, dieci anni dopo quell’esperienza. Così come Alberto Gilardino, che Morfeo assiste a Parma. Lì Gila esplode: «La fortuna di Gilardino è stato l’infortunio di Adriano. Lui non segnava neanche a porta vuota in allenamento, era un anno così. Si fece male Adriano, entrò e da lì ha segnato un camion di gol».

Adriano, un altro fenomeno: «Ci ho giocato a Firenze e Parma, era uno dei più completi: bravo tecnicamente, potente, fisico, colpo di testa. Lui abitava da solo a Firenze e dopo il ritiro ci diedero qualche giorno libero per Ferragosto. Lo portai al mio paese, dove frequentavo i bar per giocare a carte. Lui vide delle scene mai viste: quando si giocava, o si perdeva, c’erano delle persone che sbattevano i pugni sul tavolo, avevano reazione di tensione in quelle partite. A lui rimasero impresse. Alla prima partita ci mettemmo d’accordo: dopo un gol ci siamo seduti a terra e abbiamo finto di giocare a carte».

Questo era Domenico Morfeo, l’artista del pallone fermato solo da se stesso.