«Sono pronto a tornare a casa». Domenico Tedesco si è raccontato a Cronache

by Redazione Cronache

di Marco Canestrelli

C’è un detto che dice: «La fortuna è quando l’opportunità incontra la preparazione».

Di norma è così, ma Domenico Tedesco ha dimostrato che a volte devi essere tu a tracciare la via. 

Da un bambino che ha lasciato l’Italia a soli 2 anni, all’essere uno degli allenatori più promettenti in Europa.

Ha cominciato la sua carriera in Germania, dove ha iniziato ad allenare mentre lavorava dopo essersi laureato all’università e aver conseguito un Master. 

«Il calcio è un mondo difficile, molto competitivo. All’inizio, quando allenavo nelle giovanili dello Stoccarda, non riuscivo a vivere di quello.

Ho provato prima come calciatore, ma a 18 anni ho capito che non c’era un futuro. Allora ho cominciato ad allenare, ma avevo bisogno di sostenermi economicamente.

Ho studiato tanto: mi sono laureato in ingegneria meccanica industriale e ho preso anche un Master. Ho iniziato a lavorare e nel mentre allenavo. Avevo un sogno e ho fatto di tutto per raggiungerlo.

La svolta è arrivata nel 2017: allenavo l’U19 dell’Hoffenheim e mi arriva la chiamata dell’Erzgebirge Aue, in 2. Bundesliga.

La squadra era ultima in classifica e mancavano 11 partite alla fine del campionato. Una missione impossibile, specialmente per un allenatore che non aveva mai toccato il professionismo.

La situazione era così drastica che la società mi offrì un contratto anche per la Serie C tedesca. Nella loro testa la squadra era già retrocessa.

Ne parlai con i miei amici e tutti mi dissero la stessa cosa: ‘Domenico, non farlo. Come pensi di farcela? Mancano 11 partite, la squadra è spacciata. Iniziare con una retrocessione la propria carriera da allenatore è una pazzia’.

Io però sono testardo. Ho osservato la squadra e ho capito che potevo farcela. Accettai e riuscimmo nel miracolo.

È vero: potevo bruciarmi la carriera ancor prima di iniziare. Nella vita però bisogna rischiare e io sapevo di potercela fare».

La chiamata dello Schalke

Nella maggior parte dei casi, quello sarebbe il punto d’inizio di una carriera: lavorare per stabilizzarsi in 2. Bundesliga, cercando di arrivare sempre più alto. Come molti di voi avranno già capito, questo non è il solito allenatore.

«Dopo l’esperienza in 2. Bundesliga mi arrivò la chiamata dello Schalke. Il DS mi disse: ‘Abbiamo chiuso la stagione al 10° posto, ma il prossimo anno dobbiamo andare in Champions.’

Il club non poteva permettersi un’altra stagione fuori dall’Europa. Mi ha detto: ‘Pensi di potercela fare?’. Io non ho esitato un secondo: ‘Sì, insieme torneremo in Champions’.

La chiave di tutto è stato Christian Heidel, il ds dello Schalke. Lui è stato il primo a puntare sugli allenatori giovani.

Prima di me aveva portato Jürgen Klopp e Thomas Tuchel al Mainz: ha dato il via alla nuova generazione di allenatori ‘Made in Germany’.

Sembra folle, ma io sono andato allo Schalke da solo, senza staff. Lì ho avuto la fortuna di trovare delle persone preparate e insieme abbiamo riportato la squadra al 2° posto dietro al Bayern.

Anche lì torna la componente del coraggio: fare il salto dall’ultima in 2. Bundesliga a una squadra storica come lo Schalke era un rischio. Io però vivo per queste sfide.

Dopo lo Schalke avevo altre offerte dalla Bundesliga, ma crescere per me significa cambiare, conoscere nuovi modi di vivere il calcio.

Perché lo Spartak Mosca?

Sono andato in Russia, nonostante avessi la possibilità di affermarmi in Germania. È stata una scelta difficile: mia figlia era nata da 3 mesi, cambiare vita non è stato facile.

Allo Spartak Mosca ho cambiato il modo di pensare calcio rispetto allo Schalke. Avevamo una squadra giovane, piena di talenti, quindi abbiamo portato un calcio dominante.

Allo Schalke avevo una richiesta: vincere, in qualsiasi modo. Mosca è stato il vero spartiacque, mi ha permesso di rimettere in campo la mia filosofia».

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Il ruolo di Allegri

È qui che iniziamo a conoscere la proposta di gioco di Tedesco. Lo ha detto lui stesso: è stato parte di una nuova generazione di allenatori, dove l’obiettivo non era solo vincere, ma farlo dominando l’avversario.

Come ci si riesce a quell’età? Studiando, cercando sempre di migliorarsi. Anche osservando altri grandi allenatori.

«Tra una esperienza e l’altra ho sempre cercato di studiare, di innovare il mio gioco. Ho osservato da vicino molti allenatori, uno su tutti Allegri.

Quando allenava la Juventus mi ha sempre aperto le porte per vedere da vicino i suoi allenamenti.

È una persona straordinaria, molto umile. Poi mi rivedo in una sua affermazione: a un certo livello è la qualità di un giocatore a fare la differenza.

Lui riesce a tirare fuori il meglio dai giocatori. Ammiro il modo in cui si approccia al singolo, anche nel modo in cui si relaziona: sempre simpatico, molto aperto».

Lipsia e la Red Bull

Tedesco ha portato la sua filosofia di gioco nella sua prossima esperienza, in uno dei club più interessanti e affascinanti del panorama calcistico mondiale: il Red Bull Lipsia.

«Il modello Red Bull è straordinario. Hanno un DNA chiaro: un calcio moderno e con l’occhio sempre puntato sui giovani.

Lo vivi anche nello stadio. Il tifo è diverso, si tratta di una squadra che ha disputato solo 9 campionati di Bundesliga.

Quando siamo tornati a Lipsia con la Coppa di Germania, abbiamo fatto il giro per la città e ci siamo accorti che molti tifosi erano giovanissimi.

Lì abbiamo capito di aver fatto qualcosa di straordinario: abbiamo vinto il primo trofeo nella storia del club. È qualcosa che rimarrà per sempre.

Abbiamo fatto il miglior girone di ritorno nella storia del Lipsia: eravamo anche sopra al Bayern Monaco. Siamo arrivati fino alla semifinale di Europa League.

Era una squadra piena di talenti: Olmo, Nkunku, Gvardiol, Szoboszlai… Era perfetto per un calcio offensivo, dominante.

Lo avevo già sperimentato nelle giovanili dello Stoccarda: un vivaio che ha fatto uscire fenomeni come Khedira, Kimmich, Werner… Allo Schalke però ho dovuto rivedere il mio modo di giocare, perché è importante capire che giocatori hai e cosa ti chiede la piazza.

È importante sapere dove sei, a cosa sono abituati i tifosi. Allo Schalke ho provato a portare le mie idee, ma ho capito subito che il pubblico non apprezzava.

In quella parte della Germania c’è tanta disoccupazione, i tifosi non hanno molti soldi per vivere, ma spendono tutto per seguire la squadra. Loro vogliono quello: intensità, forza, dare tutto per la maglia».

L’esperienza nel Belgio

La chiave per un allenatore vincente? Comprendere la richiesta, capire dove ci si trova e il contesto in cui si lavora.

Queste differenze possono essere ancora più rilevanti quando ti trovi a cambiare non solo Paese, ma proprio la tipologia di lavoro. È esattamente quello che è successo a Domenico Tedesco, che è passato dall’allenare una squadra di club all’essere il Commissario Tecnico della nazionale belga.

 Come detto precedentemente, è stato lui a crearsi la propria occasione.

«Avevo da poco lasciato il Lipsia. Quando non sono in panchina cerco di fare quelle cose che non ho mai tempo di fare.

Mi trovavo dal dentista. Vedo una notifica che dice: ‘Roberto Martinez lascia la Nazionale belga’. Allora scrivo subito a un mio amico: ‘È il posto giusto per me’.

Una squadra piena di talenti, con tantissimi campioni. Era un’occasione unica, non potevo lasciarmela sfuggire.

Il ruolo del CT si avvicina a quello del direttore sportivo. È totalmente diverso dal fare l’allenatore.

Io viaggiavo per tutto il mondo per vedere i giocatori. Poi devi programmare ogni cosa: hai 10 giorni ogni 3/4 mesi per preparare 2 partite, quindi devi massimizzare ogni minuto a disposizione».

Come riesce un allenatore così giovane a diventare il leader di un gruppo pieno di campioni? Tedesco non ha dubbi.

«È vero, sono fenomeni, ma sono persone come noi: cercano una persona credibile, di cui possono fidarsi. Io provo a essere me stesso con tutti: da De Bruyne, al ragazzo delle giovanili.

Nel Belgio nasce una questione: in che lingua comunichiamo? Lì si parla inglese, francese, olandese… Era un po’ un mix: con Lukaku parlavo italiano, con De Bruyne inglese, con Doku in francese. Fortunatamente parlo 6 lingue, questo un po’ mi ha facilitato il lavoro.

Io ho vissuto la ‘Golden Generation’ belga, ma ogni anno vengono sfornati talenti assoluti. È un lavoro di sistema, che nasce proprio dal loro campionato.

Tutte le squadre puntano sui giovani, sul talento. Che sia la prima o l’ultima in classifica, vedi degli esterni che dribblano, giocatori giovanissimi che vengono messi in campo senza paura.

Il talento viene valorizzato, ecco perché poi ne vedi così tanti in Premier League o ne LaLiga. Nasce tutto dal campionato e il coraggio viene premiato».

Quello che è riuscito a fare Tedesco nel suo primo anno e mezzo è semplicemente straordinario: 17 mesi da imbattuti, portando un’idea di gioco offensiva ed efficace.

La squadra si è presentata agli Europei come una delle grandi favorite alla vittoria finale, ma le cose non vanno sempre come previsto.

«In 2 anni ho avuto 4 CEO e 2 Presidenti diversi: anche quando le cose andavano bene, la Federazione ha cambiato moltissimo.

Con il Belgio abbiamo fatto 1 anno e mezzo da imbattuti, siamo arrivati all’Europeo tra i favoriti. All’esordio poi è arrivata la prima sconfitta: lì è cambiato un po’ tutto.

Avrei preferito perdere prima, per vedere la reazione della squadra. Era una sensazione nuova per tutti. Poi agli ottavi è arrivata l’eliminazione.

È dura da mandare giù. Senti un vuoto enorme dentro, perché non hai la possibilità di rifarti: devi aspettare mesi prima di giocare la prossima partita.

Preparare un Europeo si basa su un lavoro individuale: hai giocatori che fanno la finale di UCL e altri che finiscono il campionato ad aprile. È un lavoro difficile, che si basa molto sul singolo.

Dopo l’Europeo abbiamo deciso di sperimentare: puntare su giovani talenti che non avevano avuto spazio. Uno su tutti De Ketelaere, ma anche Openda del Lipsia.

In quel momento è arrivato il 4° CEO di quei 2 anni. Lui aveva altre idee: rimanere con la vecchia guardia. A quel punto è stato difficile e le strade si sono separate».

Durante quei mesi, Tedesco ha dovuto affrontare diverse difficoltà, cercando sempre di tenere tutto privato. La ragione è tanto nobile quanto semplice: proteggere la squadra, a qualsiasi costo.

«Ho ricevuto molte critiche dopo gli Europei. Ho sempre cercato di tenere tutto privato, perché il mio unico pensiero era proteggere la squadra.

Per me è importante essere sincero e diretto con i miei giocatori, ma pubblicamente cercherò sempre di difenderli.

Alcuni giocatori hanno rifiutato la convocazione? Non è una situazione facile: in questi casi hai il club che ha degli interessi, il procuratore ne ha altri, la Nazionale

Io cerco sempre di capire la persona che ho davanti, però per me la Nazionale deve essere motivo di orgoglio. Quando ti arriva la chiamata devi volerci andare».

Futuro in Italia? 

In tutte le fasi della sua carriera, Domenico Tedesco ha sempre mostrato un’incredibile etica sul lavoro e la capacità di saper gestire ogni situazione. Ma soprattutto, ha portato risultati e ora siamo tutti curiosi di vedergli fare lo stesso in Serie A.

«Venire ad allenare in Italia? Ci sono state molte opportunità, ma deve esserci quella giusta.

Ho voglia di confrontarmi con la Serie A, ma non a tutti i costi. Cerco un posto in cui avere continuità: avere 3 anni in cui poter portare la mia filosofia.

Io vorrei che le persone, quando vedono le mie squadre in campo, pensassero: ‘Questa squadra gioca con 12 giocatori’.

Questa cosa nasce con l’intensità, in fase di possesso e in transizione. Ma soprattutto creando superiorità numerica, anche quando non abbiamo il pallone.

Se vieni pressato, la superiorità la puoi creare nei primi 16 metri e trovi spazio in profondità. Poi ora diventa fondamentale l’utilizzo del portiere, che è di fatto un giocatore di movimento.

Certo, per prima cosa il portiere deve parare, ma il suo ruolo diventa fondamentale anche in fase di costruzione. Se crei un 11 vs 10 giocare uomo su uomo diventa difficile».

Una visione chiara del presente, mantenendo sempre lo sguardo sul futuro.

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