Dieci anni dopo. Chi l’avrebbe mai detto?

 

Su quei tavolini bianchi ci abbiamo consumato la nostra adolescenza. Al Bar Biliardo di Via Collecchio, quella sera è uguale a tante altre. L’esistenza di quel posto scorre placidamente osservando i nostri cambiamenti. I miei e quelli dei miei amici. Quando la Primavera incombe, è piacevole restare là fuori. Soprattutto quando c’è la Champions League, che è una sorta di camino 2.0 e il perfetto sottofondo al racconto delle cazzate settimanali. La partita di Champions al bar è qualcosa che accomuna, che dà una sensazione di esclusiva normalità. Il verde elettrico pulsato dai cristalli liquidi della televisione e il simbolo del bicchiere sopra lo schermo che ti ricorda che siamo in un luogo pubblico. Ma, non per forza, nell’ordinario.

 

Abbiamo appena portato al tavolo qualche birra quando tutto il bar si volta: il Borussia Dortmund si è appena affacciato per la prima volta nella metà campo del Real Madrid. Sembra fare sul serio. C’è uno dei centrocampisti che si allarga per poi rientrare. Con le bottiglie in mano ci soffermiamo a guardare. Il classico momento che ogni scrittore definirebbe così: «Il mondo si ferma e tutti restano con il fiato sospeso». Non so ancora che il piede destro di Mario Götze sta per darmi l’assist per salvarmi la vita. Ma soprattutto, come un supereroe, arriva un altro ragazzo. Ha 5 anni più di me, ha finito le superiori da un pezzo e sta giocando una semifinale di Champions League. Io, la mia finale, la prima prova della Maturità, ce l’avrò tra qualche mese. Io vengo dal QT8 di Milano, lui dal centro di Varsavia. Abituati a grandi contesti.

 

Götze la spara sul secondo palo. Sembra un cross che ha poco da dire. Il mio supereroe, però, è già in volo: si chiama Robert Lewandowski, si lancia in tuffo sbattendo contro Pepe, il più cattivo. 1-0.

 

 

Sopravviverò ai trend e alle personali fasi. Perché il flusso resta sacro come il Gange a Varanasi.

 

Quella sera arriva prima di tutto. Prima di Londra, prima di guardarsi dentro definitivamente. Posso dire di essere sopravvissuto a quel giorno.

 

Quella sera, in quel momento, erano già partiti i classici discorsi: «Eeeeh, il Borussia è una bella squadra», «Eeeeh ma il Real ha il DNA in Champions, come il nostro Milan».

 

Me ne stavo lì, sciallo, ma partecipando attivamente alla conversazione. Ignaro che 40 minuti mi separavano dall’illuminazione. Il primo tempo della partita stava per finire e, anche se tutti la guardavano con un solo occhio, sapendo che prima o poi Cristiano Ronaldo, Higuaín o Modrić avrebbero pareggiato, è proprio quando si avvicina l’intervallo che la gente si alza per un secondo giro di ordinazioni. SBAM. Accade proprio quello che tutti stavano aspettando. Ronaldo, 1-1.

 

 

Ce ne andiamo tranquilli al riposo, anche noi. Gente che viene, gente che va. Khedira fa un tacco alla Holly&Benji nella sua area, il Borussia se l’aggiusta e Lewa con grande tecnica la spara ancora dentro. Qualcuno dalla cassa corre verso la televisione, qualcun altro dice: «Un tempo questa Casillas l’avrebbe presa». E qualcuno gli risponde: «Ma quale Casillas! Quello è Diego López, è un altro portiere!».

 

Non c’è tempo di parlare, il tempo di riprendersi e Lewa fa tripletta.

 

Respiro. Adesso non mi interessa più di parlare con gli altri, voglio vedere come va a finire. Sono rimasto folgorato: ma chi pensava che il Borussia potesse battere il Real Madrid? Mi isolo, concentrato sullo schermo. Mi metto a pensare. Troppo. Pensare troppo a volte fa male. Penso che domani pomeriggio, dopo scuola, devo andare a finire qualche lavoretto. Penso che forse dovrei iscrivermi all’università. O che dovrei scappare. Che dovrei lasciare la musica, che non mi sta portando da nessuna parte. Mi rendo conto di essere soltanto all’inizio della discesa, che al fondo manca poco.

 

L’ho messa nel culo ai bookmakers di ieri. Lo dissi che io ero il Leicester di Ranieri.

 

In quel periodo stavo perdendo l’attaccamento al sogno. Pensavo che la musica non facesse per me. Ero consapevole della mia situazione, che avrei dovuto guardarmi intorno. Lavoravo, cercavo la mia strada. Non avevo neanche 20 anni. Di lì a pochi mesi sarei partito per Londra.

 

«Mamma mia, quanto è forte questo», questa frase di un signore al tavolo accanto dà un pizzicotto ai miei ragionamenti. Rigore: quattro gol al Real Madrid, quattro gol di Lewandowski. Il primo gol di quella sera è sopravvivenza, il secondo istinto, il terzo classe e il quarto potenza. Tutte caratteristiche basilari nella vita.

 

 

Ma che partita stavo guardando? Anche io, come il Borussia, volevo sovvertire i pronostici. Essere quello per cui le persone si alzano in piedi. Perché a 20 anni non puoi sentirti un fallito. Non puoi dire di aver fallito. Puoi dirlo a 85 anni di aver fallito. A 20 hai talmente tante cartucce che biologicamente non puoi fallire.

 

Puoi cadere, al massimo.

 

Lo leggo anche oggi, nei commenti, che alcuni giovani parlano di fallimento personale. Come me quella sera, state solo cadendo.

 

Nella mia caduta libera, mi sono messo a scrivere: «Sì, lo chiamerò Lewandowski». In quei momenti, il sentimento che emergeva era molto simile alla disperazione. Non volevo parlare di calcio, ma prendere in prestito il significato dell’exploit a cui avevo assistito per tirare fuori una parte talvolta inedita, talvolta sofferente, di me.

 

E ho preso l’aereo per l’Inghilterra. Se il primo Lewandowski è stato l’inizio della discesa, il secondo Lewandowski è stato l’inizio della rincorsa. Di Lewandowski II ho bellissimi ricordi: sono tornato a sognare. Non facevo musica per lavoro, non riuscivo a ottenere i risultati che speravo, ma c’era una bella carica.

 

Cambia il cognome solo in “Professione”. Salva in rubrica: “Matteo Transazione”.

 

Negli anni è arrivato il successo. Ho imparato a conoscere Lewandowski. In questi dieci anni, il nostro modo di vivere si è incrociato: come me, è uno molto incentrato sul lavoro, ed è uno dei primi concetti che emerge se pensi a lui. Non si manifesta mai pubblicamente con gossip o cagate, come me. Esco, vado sul palco, vado in studio, torno alla base. Low profile.

 

E tutti e due siamo stati scippati del nostro Pallone d’oro: lui, nel 2020, avrebbe dovuto vincerlo, ma hanno deciso di non assegnare il premio; io, quell’anno, sono stato privato del poter suonare il mio album di maggiore successo. Quanto mi rodeva.

 

Non so se ci saranno altri Lewandowski. Se la saga si fermerà al decimo o se proseguirà. So soltanto che Lewandowski mi ha aiutato nella discesa e nella risalita. Che quei 4 gol hanno da sempre rappresentato per me il punto da cui iniziare a misurare i bilanci.

 

Processo vuole passi falsi e fasti.

Chi ha vergogna muore nella merda come Grumvalski.

Brillate, ma restate vetro e piombo, Swarovski.

E io ho fatto una saga che è leggendaria, Lewandowski.