a cura di Giacomo Brunetti
Francesco Farioli ci racconta a 360° il suo essere allenatore in una lunga chiacchierata che ne analizza il ruolo.
Nella mia esperienza, in tutte le squadre in cui sono stato, ho sempre avuto ottimi rapporti con i giocatori di esperienza, quelli che avevano un passato importante. Credo fermamente che nelle relazioni – e nello stare insieme, specialmente con certi profili – sia fondamentale costruire un rapporto diretto e autentico. Prima vengono le persone, poi i ruoli. Questo approccio mi ha sempre accompagnato, anche quest’anno. Ogni giorno l’allenatore deve dimostrare che ciò che ha in mente può funzionare, portare beneficio sia alla squadra sia al singolo individuo.
All’inizio dell’anno, mi chiese come volessi essere chiamato. Le opzioni erano due: “Gaffer” oppure “Boss”. Gli risposi: “Jordan, fai come vuoi!”. Sicuramente la sua abitudine alla Premier League, al campionato inglese e a una concezione del ruolo molto diversa dalla nostra ha influenzato questa scelta.
Mi parlavi poco fa di quanto questa stagione sia stata lunghissima. In effetti, si è agganciata direttamente alla precedente, visto che non c’è stato praticamente alcuno stacco a causa dei playoff europei.
Abbiamo affrontato 54 partite ufficiali, 12 amichevoli, 210 allenamenti, 340 meeting, di cui più di 280 gestiti personalmente da me. È stato un carico di lavoro enorme, per me e per tutto lo staff. Lo scorso anno abbiamo terminato la stagione a maggio, a Nizza. Dopo qualche giorno di trattative con l’Ajax, ho firmato il contratto, sono tornato in Francia per sistemare le ultime cose, e poi mi sono spostato in Olanda. Ufficialmente abbiamo iniziato il 15 giugno, ma già nei giorni precedenti io e il mio staff eravamo al centro sportivo a preparare tutto.
Quando arrivi in un nuovo club, è fondamentale analizzare il contesto. Si pensa spesso di cominciare da una pagina bianca, ma in realtà non è quasi mai così. A volte erediti un buon lavoro, altre volte trovi confusione da riorganizzare. All’Ajax abbiamo trovato proprio questo: un club straordinario per storia e potenziale, ma che negli ultimi anni aveva perso una guida dirigenziale solida. E quando in un club così importante c’è un vuoto di potere per troppo tempo, ogni errore pesa doppio, sia sul piano economico che sportivo. Il campionato precedente parlava chiaro: quinto posto con 35 punti di distacco dal PSV, 28 punti dal Feyenoord, ultimo posto per una parte di stagione, e uno 0-10 cumulativo nei due scontri diretti contro il Feyenoord. Queste sono vere e proprie cicatrici, immagini forti che ho usato spesso anche con i giocatori, e che ci siamo portati dietro come monito per evitare di ripetere gli stessi errori.
Ho scelto di farmi carico di tutto ciò che di negativo era accaduto l’anno precedente, e di provare a ricostruire un gruppo che mi era stato descritto come disunito, senza disciplina e senza cultura del lavoro.
Un anno dopo, posso dire che la squadra – che poi non è cambiata così tanto – ha fatto qualcosa di straordinario. Abbiamo perso qualche elemento, ma il nucleo principale è rimasto. La cosa più bella di questi 12 mesi in Olanda sono stati proprio i giocatori. Hanno lavorato duramente, andando oltre ogni aspettativa. Ho spesso usato l’immagine della spremuta: abbiamo spremuto tutto quello che avevamo… anche la buccia dell’arancia. Abbiamo vissuto ogni emozione possibile, dalla gioia immensa a nuove cicatrici, ma sempre con spirito di sacrificio, dedizione e unione.
Quando siamo arrivati, sapevamo che la squadra non solo aveva raccolto pochi risultati, ma aveva avuto anche un altissimo numero di infortuni. Con la prima partita fissata al 20 luglio e la preparazione iniziata il 15 giugno, le priorità erano due: costruire una condizione fisica accettabile; evitare di superare il limite, per non incorrere in ulteriori infortuni. Tutto questo ha richiesto scelte metodologiche precise: che tipo di lavoro fare, dove mettere l’accento e come gestire la rosa, anche per poter affrontare una stagione lunga e intensa.
Per realizzare tutto questo, è fondamentale avere uno staff solido, coeso e con una visione comune. Negli ultimi anni mi sono sempre mosso con un gruppo formato da sei collaboratori principali, ognuno con un ruolo chiaro: due assistenti, un preparatore atletico, un responsabile per il recupero infortunati (aggiunto in corso d’opera), un allenatore dei portieri e un videoanalista. Tuttavia, non si può prescindere dalle persone già presenti nel club. Il nostro compito, come staff che si integra in una nuova realtà, è mettere subito sul tavolo ciò di cui abbiamo bisogno, ma anche ascoltare chi conosce la società, il campionato, il contesto. Lo abbiamo fatto a Nizza, e lo abbiamo fatto anche ad Amsterdam. Alla fine, lo staff tecnico era composto da 14 persone: sei con me, e le altre già parte dell’Ajax. La volontà comune di lavorare e mettere entusiasmo e competenze al servizio della squadra è stata uno dei fattori chiave della stagione.
Mi piace immaginare il lavoro come una matrioska di cerchi concentrici. Il nostro ufficio era come questo grande tavolo pieno di computer, ma intorno a noi c’erano altri dipartimenti: l’area medica, quella della performance, ecc.
Credo che il ruolo dell’allenatore, o meglio del manager, sia proprio quello di essere un facilitatore di processi. Più cresce il livello del club, più questa definizione acquisisce significato. In un club come l’Ajax, dove le dinamiche sono anche extra-campo, il lavoro diventa simile a quello di un orologiaio: ogni ingranaggio, anche il più piccolo, conta. E se la lancetta visibile sei tu, tutto il resto deve funzionare alla perfezione per farla girare.
In questo senso, sono cambiato molto rispetto alla mia prima esperienza in Turchia. All’epoca facevo fatica perfino a delegare gli esercizi di passaggio all’inizio dell’allenamento.
Con il tempo ho capito che non puoi essere ovunque, e che per far funzionare davvero le cose, serve fiducia. Devi scegliere le persone giuste e saper delegare. È una delle qualità principali del manager: non accentrare, ma far lavorare bene chi hai accanto. La delega non è una debolezza e non è gratis: con il tempo sono diventato un allenatore che in campo spinge e finisce la voce è molto spesso ma ho imparato a scegliere un pochino di più i momenti e poi quest’anno chiaramente con l’esperienza delle delle competizioni europee. Devi saper modulare.
I giocatori hanno bisogno di sentire voci diverse. Non possiamo diventare un rumore costante nelle loro orecchie: dobbiamo essere quelli che, quando parlano, fanno arrivare un messaggio chiaro, credibile e incisivo. Le parole dell’allenatore non devono essere solo suoni, ma vere e proprie “impronte” che lasciano il segno.
Nella gestione quotidiana c’è ovviamente la parte di campo. Per come sono io, e per come lavora il mio gruppo, cerchiamo di essere molto intensi. Puntiamo a creare un ambiente il più possibile stressante per ricreare – nei limiti del possibile – il contesto reale della partita. Allo stesso tempo, dobbiamo saper modulare: ci sono momenti in cui bisogna alzare il volume, altri in cui è giusto abbassarlo. Alcuni giorni si deve spingere al massimo, altri lasciar scorrere le cose con il “flow” del momento.
Giocare con la maglia dell’Ajax comporta responsabilità diverse rispetto ad altri club. Il peso della maglia, della storia e della tradizione è enorme. Ti raccontavo prima che quest’anno abbiamo giocato 27 partite casalinghe, tutte con il tutto esaurito – che fosse Europa League, campionato o Coppa d’Olanda, anche contro una squadra di metà classifica in Eerste Divisie. Molti ragazzi, molto giovani, devono imparare a sostenere tutto questo. Ecco perché è importante creare momenti in cui possono spingere al massimo, ma anche altri in cui possono staccare, disconnettere, ritrovare un equilibrio.
Nel calcio l’equilibrio assoluto non esiste. Quello che ci muove è la ricerca continua di un’alchimia ideale, che però cambia costantemente. Ogni giorno ci sono nuove emozioni, nuove circostanze: un risultato, un infortunio, una situazione familiare o contrattuale può cambiare tutto. Pensare che ciò che ha funzionato ieri sia valido anche domani è un errore. È un lavoro bellissimo proprio per questo: ogni mattina, mentre bevi il caffè e vai al centro sportivo, devi essere pronto a ogni scenario, sapendo che ce ne sarà sempre almeno uno fuori dai piani.
Quando si gioca ogni tre giorni, cambia tutto: è un altro sport, al 100%. È uno step importante per un tecnico, e per me è stata un’esperienza straordinaria. Abbiamo sviluppato delle strategie specifiche per affrontare questo contesto e, sinceramente, abbiamo ottenuto ottimi risultati. Un dato interessante: quest’anno, nelle partite successive all’Europa League, ne abbiamo vinte 12 su 15. Questo dimostra quanto la gestione e l’ottimizzazione delle risorse siano decisive. Giocare il giovedì e poi di nuovo la domenica richiede un’organizzazione estremamente precisa. Anche perché, in realtà, quei tre giorni non lo sono davvero: tra viaggi, recuperi, impegni mediatici e conferenze stampa, diventano molto di meno.
Per tutto questo, lo staff diventa cruciale, soprattutto nella parte performance. Quando giochi così tanto, ti alleni poco: devi massimizzare i minuti (non le ore) in campo per recuperare e prepararti. Il lavoro diventa un’alternanza continua di “plus one” e “minus one”. Abbiamo avuto fino a sei conferenze a settimana, un numero importante di riunioni e preparazioni video. Tante partite vengono preparate soprattutto tramite analisi visiva, e non solo da me: i miei collaboratori hanno condotto molte sessioni, in gruppo o individualmente, per entrare nel dettaglio con ogni singolo giocatore.
Ti racconto com’è andata quest’anno: abbiamo utilizzato 41 giocatori diversi. Siamo partiti con una rosa che ha affrontato il preliminare di Europa League e le prime due di campionato, poi sono stati venduti 6-7 elementi per esigenze economiche. Da lì sono stati reintegrati tre giocatori, altri sono arrivati tra settembre e gennaio. A gennaio ne abbiamo persi altri sei, tra cui tre titolari. Abbiamo sopperito con nuovi arrivi e con alcuni giovani del vivaio, che hanno dato un contributo importante.
Oltre al carico naturale delle competizioni europee (due partite in più nel girone rispetto agli anni precedenti), abbiamo vissuto un’interruzione forzata: un mese senza gare a causa della sosta per le nazionali e di due match rinviati per motivi di ordine pubblico. Il risultato? Dal 22 settembre al 15 marzo non abbiamo mai avuto una settimana piena tra una partita e l’altra. Questo ha imposto una gestione totalmente diversa della squadra: pochissimo spazio per fermarsi, rifiatare, analizzare. Abbiamo dovuto ottimizzare ogni momento disponibile e ruotare costantemente i giocatori.
Uno dei motivi che mi ha spinto a lasciare l’Ajax è stato legato anche a una riflessione più profonda: ad alto livello, oggi, servono competenze estremamente specifiche. Non è più sufficiente avere uno staff generico o una struttura che funziona solo “quando tutto va bene”. Serve un sistema pronto a gestire lo scenario peggiore possibile – da un punto di vista tattico, fisico, emotivo, gestionale. In ogni situazione bisogna avere strumenti e risorse adatti. Dai casi più prevedibili fino a quelli più imprevisti. Ed è proprio questo che spesso non mi fa dormire la notte: il pensiero di ciò che potrebbe accadere, la responsabilità di essere pronto a tutto. È il mio modo di lavorare, il mio approccio: prepararmi mentalmente e operativamente allo scenario più complesso. A questi livelli, ogni piccolo dettaglio conta. Quando giochi così tanto, come abbiamo fatto noi, la differenza tra vincere o perdere può passare dalla figura del nutrizionista, da chi gestisce il recupero infortunati, da chi lavora sull’ottimizzazione fisica e fisiologica. Sono tutti micro-dettagli, ma sono proprio quelli a fare la differenza. In questo contesto, il mio ruolo è quello di spingere su ogni aspetto che migliori la performance. Ma per farlo davvero servono strutture e società pronte a supportarti, a condividere questa attenzione maniacale per le sfumature. È lì che si vede la differenza tra chi lavora con standard di alto livello e chi no. Serve dedizione, sì, ma anche ossessione buona per il miglioramento.
Quando ci siamo incontrati la prima volta, ti parlavo della parola curiosità. Ecco, per me è una parola chiave. La curiosità è ciò che mi ha portato fin qui, ma soprattutto è ciò che mi farà andare oltre. Perché sono certo che quello che è bastato ieri non basterà domani. E l’unico modo per evolversi è mettere costantemente in discussione ciò che si fa. L’altro pilastro per me è la dedizione totale. I giocatori percepiscono quanto ci credi, quanto tempo e energia dedichi al tuo lavoro. È contagioso, in positivo o in negativo. E nel calcio di oggi, dove il margine tattico si assottiglia sempre di più, sono queste componenti umane e relazionali a fare la differenza. Una volta, un’idea di gioco poteva durare un anno. Poi sei mesi. Oggi, forse 45 minuti. L’intervallo può bastare agli avversari per cambiare, per leggere, per neutralizzarti. Con i dati in tempo reale, con la possibilità di rivedere le immagini dalla panchina, tutto è più veloce. L’intelligenza tattica dei giocatori, poi, ti permette – o ti costringe – ad adattarti nel giro di pochi secondi. Per questo non puoi più permetterti di pensare di avere cinque passi di vantaggio. Forse ne hai uno, e te lo recuperano. Allora devi spostare il limite ancora un po’ più avanti, un centimetro alla volta. Sempre. Perché è lì che vieni misurato: nella capacità di adattarti, di evolverti, di restare rilevante.
Ed è proprio su questo punto che oggi, anche i club ragionano in modo diverso. Non cercano più semplicemente “uno che fa il 3-5-2” o “uno che gioca col 4-3-3”. Soprattutto all’estero, l’allenatore è visto come un gestore completo, un punto di riferimento per un gruppo di lavoro complesso. Nel processo di selezione, in un colloquio con un club, si valuta ormai molto di più della semplice parte tattica. Ti chiedono come comunichi, come strutturi lo staff, come gestisci lo stress, che tipo di relazione hai con la dirigenza, che approccio hai con lo sviluppo dei giovani, come usi i dati, come affronti i momenti di crisi. È una valutazione multidimensionale. Vogliono sapere se sei in grado di reggere pressioni diverse, di adattarti a culture nuove, di costruire un ambiente che funzioni a lungo termine. Ed è anche per questo che oggi essere allenatore significa molto più che “allenare”: è leadership, strategia, comunicazione, visione.
La maggior parte dei miei colloqui di lavoro sono state svolte all’estero, in contesti molto diversi da quelli a cui ero abituato. I miei colloqui di solito durano almeno cinque ore e spesso si svolgono in più sessioni. Questo perché le società vogliono davvero capire con chi stanno parlando, e anche a me piace essere completamente trasparente. Credo sia fondamentale, prima di intraprendere un percorso insieme, conoscersi a fondo: capire quali sono le passioni comuni e riconoscere le possibili fonti di conflitto. Dico sempre quello che penso, mettendo tutto sul tavolo. So quali sono i miei punti di forza, ma anche le aree in cui potremmo avere delle divergenze. Questo approccio nasce dall’esperienza, perché sono una persona esigente – ma solo sul lavoro, non per capriccio. Non mi è mai successo di aver a disposizione una squadra con budget illimitato o giocatori pagati milioni, e questa non è mai stata una difficoltà vera. La mia vera insistenza riguarda l’ottimizzazione di tutto ciò che può aiutare un club a muoversi in una direzione precisa. Su questo punto sono intransigente. Spesso si dice che gli allenatori siano “quelli con la luce addosso”, quelli che ricevono i meriti o i demeriti di un lavoro. Ma in realtà quel lavoro è fatto da un’intera squadra, che va ben oltre i 25 giocatori della prima squadra. Ci sono altre 25-30 persone che lavorano esclusivamente per la prima squadra, e ognuno ha un impatto importante, sia chi lavora di più sia chi lavora meno. Anche chi si occupa di piccoli dettagli, come chi taglia l’erba del campo, contribuisce: il modo in cui è preparato un campo parla del livello di dedizione e amore che si mette nel lavoro. Credo moltissimo nell’alchimia che si crea tra calciatori, staff e tutte le persone che lavorano intorno alla prima squadra. L’ambiente è fondamentale, perché quello che ti dà o ti toglie sono vibrazioni: non dati oggettivi, ma percezioni che ti aiutano a capire in quale direzione si sta andando. Penso che gran parte del successo della nostra stagione all’Ajax sia nato proprio da queste vibrazioni, unite a idee tattiche efficaci e a un’ottima performance fisica. Quando, l’ultimo giorno prima di lasciare il club, ho comunicato la mia decisione, ho sentito chiaramente come l’ambiente l’avesse vissuta con grande trasporto. Tutti noi avevamo la sensazione di aver costruito qualcosa di magico, un equilibrio molto sottile che va alimentato ogni giorno, ma che è davvero speciale quando si raggiunge. È un po’ come un esterno di qualità che, se si sente scontento, rischia di diventare mediocre: l’ambiente influenza tutto. Entrare in un ambiente e percepire un’aura positiva o negativa è contagioso. Questa energia influisce moltissimo sulla performance in campo. Prima di scendere in campo, oltre alla preparazione tecnica, tattica, fisica e psicologica, per me è essenziale che l’energia di tutti sia incanalata verso un obiettivo comune.
All’inizio della stagione, nessuno credeva in noi. Abbiamo trovato una squadra e un ambiente disillusi, ragazzi senza voglia. Eppure, quando tutti insieme hanno visto uno spiraglio di luce, abbiamo deciso di andare avanti, bruciando ogni dubbio e guardando avanti con determinazione. Il recupero di nove punti sul PSV e i risultati ottenuti sono stati straordinari proprio perché tutti, dai più influenti ai meno, hanno camminato nella stessa direzione.
Da allenatore principale ho sempre lavorato in inglese, ed è un dato di fatto che ormai anche in Italia è più efficace. Prima pensavo in italiano e poi traducevo, ora penso in inglese e sogno in italiano. L’inglese da campo è pratico e immediato: una parola porta con sé tante connessioni. L’italiano, come il tedesco, è una lingua molto precisa, con un vocabolario ricco di sfumature. L’inglese è più diretto e pratico, e nelle squadre in cui ho lavorato abbiamo costruito un vocabolario fatto di parole chiave efficaci e condivise. Per esempio, “uomo solo” è diventata una parola chiave in campo per indicare situazioni specifiche, così come tante altre espressioni che aiutano a velocizzare l’apprendimento e la comprensione. Nella prossima squadra dove lavorerò, userò un mix di inglese, italiano e un po’ di francese, perché alcune parole hanno un suono che attiva parti del cervello che altre lingue non riescono a stimolare allo stesso modo. Creare questo vocabolario è fondamentale per adattarsi rapidamente e migliorare l’efficienza del lavoro.
Non sono un allenatore “difensivista” all’italiana, ma qualcuno capace di liberare i giocatori e portarli a creare tante occasioni nell’ultimo terzo di campo. Questo, credo, rappresenti davvero ciò che cerco di fare ogni giorno in panchina.
Parlando di calcio moderno, credo che uno dei temi centrali sia proprio la capacità di portare i giocatori giusti nei momenti chiave, come abbiamo visto nella recente finale di Champions League. Il Paris Saint-Germain ha fatto un lavoro molto efficace, non solo nel portare calciatori di qualità, ma anche nel mettere a disposizione finalizzatori di altissimo livello. Quando ho sentito le parole di Slot su di me, mi ha fatto molto piacere: ha riconosciuto il percorso fatto, il lavoro di base, e questo per me è motivo di orgoglio. Sapere che un tecnico di alto livello, come lui, parte dalle tue basi e riconosce il lavoro svolto, è un segnale forte. In Olanda, dove la cultura calcistica è molto attenta, questo tipo di riconoscimento non è scontato: vuol dire che ha visto le partite, ha valutato con cognizione di causa e ha riconosciuto il valore di un lavoro serio e metodico. Questo è particolarmente importante in un mondo dove spesso si parla per sentito dire o si commenta superficialmente. Le parole di Slot, che ha un grande rispetto per il campionato olandese e per i valori delle squadre, mi hanno fatto capire quanto sia stato chiaro e sintetico nel definire il nostro progetto e il nostro lavoro, iniziato dal primo giorno. Fa davvero piacere ricevere un riconoscimento da qualcuno che non è solo un grande tecnico ma anche una persona di grande umanità, come ha dimostrato nella sua carriera sia in Olanda sia in Inghilterra. Abbiamo anche scambiato qualche messaggio, e l’ho ringraziato per le sue parole: è stata una bella scoperta.
Un altro aspetto interessante, che mi piace molto analizzare, è come un allenatore può cambiare il rendimento di un calciatore attraverso un cambio di posizione o un diverso modo di interpretare lo stesso ruolo. È un processo complesso, che coinvolge ritmi, atteggiamenti e interpretazioni del gioco, e spesso il passaggio da un allenatore all’altro determina anche un cambiamento importante nella carriera di un giocatore. Prendiamo ad esempio il caso di Hato: partiva come difensore centrale, ma sotto la nostra guida è diventato un esterno di livello nazionale. Questo tipo di trasformazione nasce da un’attenta analisi delle sue caratteristiche tecniche e fisiche. Hato ha qualità tecniche importanti, è fisicamente forte e veloce, e ha una buona capacità di gestione dell’uno contro uno. Anche se non ha una naturale attitudine difensiva da centrale, la sua esperienza in quel ruolo gli ha dato delle buone letture di gioco. In realtà, il club lo vedeva ancora come difensore centrale, ma io credo che a livelli molto alti, come Premier League o Real Madrid, per esempio, un giocatore alto un metro e ottantuno come lui fatica a giocare centrale, soprattutto in duelli fisici intensi. Per me il suo futuro è più come terzino sinistro, ruolo che richiede qualità offensive e difensive, e che si adatta meglio alle sue caratteristiche. Convincere Hato e il suo entourage non è stato immediato, così come convincere la società, che aveva una visione diversa. Ma con pazienza, spiegando i motivi tecnici e tattici attraverso video e incontri, siamo riusciti a farlo adattare nel nuovo ruolo. Dopo qualche settimana, ha iniziato a dare i suoi frutti, anche segnando nelle prime partite ufficiali.
Questa trasformazione ha creato la necessità di trovare un centrale mancino affidabile: abbiamo quindi schierato Baas, un giocatore intelligente, dotato di grande personalità e lettura del gioco, che ha compensato alcune lacune fisiche ma ha portato stabilità alla difesa. Insieme a questi due e a Rensch, che a gennaio è passato alla Roma, abbiamo costruito un pacchetto difensivo solido sia in fase difensiva sia offensiva.
Oltre al lavoro tattico e tecnico, c’è un aspetto fondamentale che riguarda la prevenzione e il recupero dagli infortuni. Sappiamo tutti che i giocatori sono un patrimonio prezioso per il club: perdere un giocatore per infortunio significa non solo non averlo in campo, ma anche una perdita di valore economico. Per questo la prevenzione è una delle priorità del mio lavoro. L’allenatore deve prestare la massima attenzione a questo aspetto, considerandolo chiave per il successo sportivo. Gli studi dimostrano come avere i giocatori disponibili faccia la differenza nei risultati. Il lavoro sulla prevenzione e sul recupero è un mix complesso: ottimizzare l’allenamento, inserire sessioni compensative e di integrazione, gestire i carichi di lavoro, anche riducendo il carico in campo quando necessario. C’è poi l’allenamento invisibile, tutto ciò che ruota intorno al giocatore: alimentazione, recupero, sonno, aspetto psicologico. Tutto deve essere curato nei minimi dettagli per garantire prestazioni di alto livello. Oggi, con i ritmi frenetici delle competizioni, non basta più aspettare che passi il tempo per recuperare. Bisogna lavorare attivamente sul recupero: vasche di ghiaccio, sauna, alimentazione specifica, riposo controllato. Solo così si può garantire che i giocatori siano sempre al massimo della forma. In definitiva, credo che il calcio moderno non sia solo una questione di tattica o tecnica, ma di una cultura di lavoro integrata, fatta di cura del dettaglio e di attenzione a ogni singolo aspetto, per far sì che la squadra e ogni singolo giocatore possano esprimersi al meglio.
Qualche anno fa, pensare di concedere giorni liberi ai giocatori durante la stagione sembrava una follia. Durante le pause nazionali, molti dei nostri atleti venivano convocati dalle rispettive nazionali, e questo complicava molto la gestione della squadra. Nonostante ciò, abbiamo sempre cercato di inventarci giorni liberi durante l’anno per farli respirare e recuperare energie. Prendo ad esempio Sutalo: ha giocato l’Europeo, e non appena è finito il torneo ha avuto appena due settimane di pausa. In realtà, è rientrato in squadra dopo una settimana, ha disputato un’amichevole a metà settimana e dopo soli cinque giorni ha giocato la prima partita ufficiale con noi. Da quel momento non si è più fermato, totalizzando oltre 4.500 minuti con il nostro club. Se aggiungiamo le partite con la nazionale, arriva a quasi 60 partite in una stagione, e ora sta già giocando nuovamente. Non c’è mai un vero e proprio stacco tra un impegno e l’altro. Guardando all’Inter, arrivata alla finale di Champions League con quasi 57 partite giocate, i giocatori si trovano a un livello di stress fisico che, per certi versi, è quasi disumano. Per questo motivo, credo fermamente che sia indispensabile iniziare a gestire il carico dei giocatori lasciando loro il tempo necessario per recuperare. Sono convinto che tra qualche anno la FIFA introdurrà un regolamento che limiterà il numero massimo di partite e minuti giocabili in un anno. Fino ad allora, sento che sia mia responsabilità tutelare i miei giocatori, anche prendendo decisioni difficili, a volte impopolari, ma necessarie. Noi siamo giudicati per i risultati della domenica, ma io entro in un club pensando di lavorarci a lungo termine, come se fosse un progetto di dieci anni. Anche se ho cambiato diverse squadre negli ultimi anni, il mio approccio resta quello di gestire i calciatori come risorse preziose per la società. Voglio che questi ragazzi siano a disposizione il più possibile, e per questo devo convincerli che non possono giocare tutte le partite e tutti i 90 minuti. Lo spiego sempre chiaramente, sia ai giocatori che alle società: “L’amicizia lunga si costruisce sulla trasparenza”.
Parlando di lavoro quotidiano, i meeting con lo staff sono tanti, quasi 320 in un anno, perché compensano e integrano ciò che non si può fare in campo. Personalmente, mi piace che gli allenamenti siano brevi, molto intensi e con pochissime pause, così da mantenere alta la concentrazione e il ritmo per tutta la durata della seduta, che dura spesso tra i 60 e i 70 minuti. Un feedback che ho ricevuto da Daniele Rugani mi ha colpito: mi ha raccontato di come all’inizio degli allenamenti si sentiva “impiccato”, ma poi il ritmo serrato lo ha aiutato a mantenere alta concentrazione e intensità fino alla fine. Per me questa densità deve essere “off the chart”, cioè fuori scala, ed è uno dei principi metodologici più importanti. Lo staff gioca un ruolo fondamentale in questo perché deve preparare ogni dettaglio per garantire fluidità e velocità durante la sessione. Per fare questo, la preparazione e l’energia dello staff sono decisive: più metti forza e pressione sulla struttura, più puoi spingere i giocatori a un certo livello. I meeting pre-allenamento sono dedicati alla preparazione dell’avversario, spiegazioni sul lavoro in campo, strategie di gara, piani B e variabili da adottare. Una parte delle riunioni video è condotta da me, un’altra parte dai miei collaboratori, che lavorano su aspetti più specifici. Le riunioni video possono durare da pochi minuti fino a un’ora, e sono flessibili a seconda delle esigenze e degli argomenti. La chiave è adattarsi e essere disponibili, perché i giocatori devono sapere fin dalla mattina, quando fanno colazione, che le ore al centro sportivo sono ore di lavoro intenso, tra preparazione fisica, video, tattica e allenamento. Quando è possibile, però, cerchiamo anche di concedere momenti di pausa e relax, perché credo che la varietà nella settimana di lavoro sia fondamentale per mantenere alta l’attenzione. La linearità assoluta, infatti, può portare a un calo di concentrazione. Per questo motivo, secondo me, il calcio è fatto di spingere al massimo, poi mollare un po’, e ricominciare a spingere ancora.
Nel calcio, la questione della nazionalità e dell’esperienza sul campo spesso crea una certa resistenza, non solo per i giocatori, ma anche per gli allenatori. Sicuramente c’è sempre un po’ di timore quando un allenatore non ha mai lavorato in Italia, o in un determinato campionato. Oggi, però, il calcio a tutti i livelli è influenzato da stimoli e confronti tattici e psicologici che arrivano dalle competizioni europee, e questo rende tutto più complesso e ricco. In vari Paesi si nota una certa tendenza a preferire allenatori della propria nazione: in Francia vogliono allenatori francesi, in Olanda allenatori olandesi, in Italia invece c’è questa inclinazione a scegliere allenatori italiani o che abbiano già lavorato qui. Credo che questo sia comprensibile, perché chi ha già esperienza nel campionato conosce l’ambiente, la cultura e le dinamiche di gioco, e questo aiuta molto. Nei miei staff ho sempre voluto includere almeno una persona con esperienza nel campionato in cui lavoravamo: è successo in Turchia, in Francia, in Olanda. Avere un ex giocatore o un collaboratore che conosce bene il campionato e l’ambiente è un grande aiuto, perché ti permette di capire meglio cosa ti aspetta, dal tipo di campo al tipo di atmosfera che troverai. Personalmente, lavorare in diversi campionati mi ha dato una grande flessibilità e mi fa sentire a mio agio anche quando devo approcciarmi a un nuovo campionato che non ho mai fatto. Se domani dovessi tornare a lavorare in Turchia, in Olanda o in Francia, l’esperienza accumulata è un piccolo ma importante vantaggio. Allo stesso tempo, aver lavorato in Serie A come collaboratore per tre anni mi ha dato una certa conoscenza delle dinamiche italiane, ma ciò che davvero conta – sia per un allenatore che per i giocatori – è l’apertura mentale. Quando un allenatore si confronta con un nuovo contesto, riuscire a portare dentro almeno l’80% di ciò che ha in testa è già un grande risultato. Il restante 20%, fatto di nuove dinamiche e adattamenti, è quello che fa davvero la differenza e determina se gli obiettivi verranno raggiunti o meno. Nel mio staff ho persone con tanti passaporti diversi e questo ha sempre creato dinamiche molto stimolanti, che ci hanno aiutato a superare le aspettative nelle varie squadre in cui abbiamo lavorato. Ma soprattutto ci ha permesso di costruire memorie e ricordi che ci accompagnano e che rappresentano la vera benzina del nostro lavoro quotidiano.
Gli obiettivi futuri
Quello che mi auguro è di rimanere aperto e curioso come sono stato finora. Voglio trovare un contesto disposto a lavorare con gli stessi principi e la stessa intensità che ho sempre cercato di mettere in campo. È un criterio che considero fondamentale quando valuto nuove opportunità. Negli ultimi anni ho accumulato tante esperienze di vita e di lavoro, quindi adesso non ho fretta. Voglio scegliere con cura il mio prossimo passo, indipendentemente dal prestigio del club o dal campionato. Per me conta lavorare in un ambiente in cui si possa operare secondo un certo modo di fare, chiaro e condiviso. È importante chiarire fin da subito ciò che piace e ciò che potrebbe invece creare conflitti: il confronto è normale in ogni relazione, ma deve essere gestito e orientato al risultato finale. Sono proprio quei piccoli dettagli, quei piccoli punti che spesso decidono il successo di una stagione o, al contrario, portano a situazioni meno positive.