L’ex, Giorgio Veneri: «La mia Atalanta era diversa da tutte le altre. Europeo? Arriveremo lontano»

by Redazione Cronache

Giorgio Veneri, vincitore dell’unica Coppa Italia nella bacheca dell’Atalanta, si racconta a Cronache di Spogliatoio. Oltre all’esperienza da calciatore, anche più di mille panchine tra Serie A, Lega Pro e Nazionale Lega Pro Under 19. Ci ha parlato anche della Dea di oggi, della Nazionale, di come è cambiato il calcio dagli anni ’60 al 2000.

Domanda secca: chi si tifa per la finale di Coppa Italia? C’è paura che l’Atalanta possa toglierle un primato incredibile?
«Paura no. Io la mia parte l’ho fatta e sono a posto. Sono molto legato a Bergamo e alla società, però sono tifoso della Juve. Diciamo che tifo 50 e 50».

Il primato della Coppa Italia dura comunque da 60 anni. Quanto è stato ed è ancora motivo di orgoglio?
«Hai ragione, sono passati così tanti anni che facciamo quasi fatica a ricordarcelo. Anche perché all’epoca si dava molta meno importanza, rispetto ad oggi, alle partite importanti: un articoletto sul giornale era sufficiente. Però a pensarci bene fu incredibile: vincemmo in finale contro il Torino 3-0, mica poco».

È ancora in contatto con qualche ex compagno?
«Purtroppo tanti non ci sono più. Ma fino a qualche anno fa il vecchio Presidente organizzava ancora cene di squadra, ed era sempre un piacere immenso».

Nell’anno della Coppa Italia avete battuto la grande Inter due volte (una a San Siro) e siete arrivati in finale di Coppa delle Alpi, perdendo con la Juve: una grande stagione.
«È vero. All’epoca fu un’annata eccezionale. Un po’ come adesso, che siamo in un periodo eccezionale per la società, così fu allora. Vincere a San Siro è una cosa incredibile e ti rimane per sempre, anche se, come ho detto, una vittoria era celebrata molto meno di quanto non lo sia ora, anche per mancanza di mezzi. Ma è indescrivibile».

A proposito di miti, si può fare un parallelo tra la vostra vittoria in Coppa e il Leicester di oggi?
È difficile fare confronti, sono epoche diverse. Allora poteva succedere, oggi ci sono così tante potenze economiche che è molto più difficile. Per questo quello che sta facendo adesso l’Atalanta è qualcosa di straordinario, fuori da ogni regola».

È un progetto, quello dell’Atalanta, assolutamente vincente: può fare da modello per altre società o è un caso unico e irripetibile?
«Il bergamasco è diverso da tutti. Dal pubblico alla dirigenza, c’è qualcosa di diverso dalle altre società. Ritengo molto, molto difficile che altri possano imitare un progetto come questo. Basta guardare il centro di Zingonia: qualcosa di un altro livello, il migliore da 30 anni. Poi a Bergamo esiste solo l’Atalanta, non ho mai visto una città così legata alla propria squadra, e questo fa la differenza».

Fin dove può arrivare questo progetto?
«Già vincendo la Coppa Italia sarebbe qualcosa di assurdo, ma una vera grande vittoria sarebbe quella di mantenersi a questo livello nel tempo, trovare continuità: oggi, le grandi squadre hanno paura dell’Atalanta, ed è già una conquista incredibile».

Lei era un centrocampista: più Freuler o più De Roon?
«De Roon. Ero molto difensivo, ma anche duttile. Pensa che quando giocavo io non c’era nemmeno la panchina: chi non era titolare andava in tribuna. Con la mia duttilità, se avessi potuto subentrare avrei fatto un mare di partite, invece in tanti anni ne ho fatte poche, ma sempre quelle importanti, come la finale di Coppa (ride, ndr)».

Da calciatore comunque fu molto fedele alla Dea. Da allenatore invece è stato più ‘giramondo’.
«È vero. Ho fatto più di mille panchine da professionista, credo che in Italia ce ne siano pochi con questi numeri. Sono contento che mi abbiano cercato tante realtà diverse: alle società bisogna dare sempre qualcosa, soprattutto quando si riceve tanto come nel mio caso a Bergamo, ma è anche importante fare tante esperienze diverse, oltre che divertente».

Sommando la carriera da giocatore e da allenatore ha visto e vissuto il calcio attraverso generazioni intere, cambiamenti, rivoluzioni. Come si fa a restare al passo costante con la novità?
«Si, 50 anni di calcio sono davvero tanti. È stato difficile stare al passo. Per esempio, negli anni ’60 il calcio era più lento, più ragionato, ma con più spazi. Oggi la tattica soffoca un po’ il gioco, e per emergere devi essere più bravo, più preparato, pronto anche fisicamente. È più tosta».

Sempre facendo un parallelo: ha condiviso il campo con campioni come Boniperti, Mazzola, Gustavsson (finale Mondiale ’58 contro Pelé). Quanto sono diversi dai fuoriclasse di oggi?
«Oggi sono figurine. All’epoca il grande campione si gestiva da solo in tutte le sue sfaccettature: allenamento, gestione dell’immagine, dei contratti. Per questo io penso che per un giovane sia più utile ascoltare un consiglio da Gustavsson, che si è costruito da solo a 360 gradi, rispetto a quello di un altro campione che è stato gestito da un team di persone. Ma ci sta, d’altronde anche i metodi di allenamento si sono dovuti evolvere e adattare ad un ritmo completamente diverso: oggi si gioca sulla velocità, e la tecnica da sola non basta più».

A proposito di allenamento: che tipo di allenatore era? Più Guardiola o più Simeone?
«Una via di mezzo. Usavo un 4-4-2 con i terzini di spinta, che secondo me è il modulo che copre meglio il campo. Con questo, mi sono sempre divertito e ho anche vinto, sia con i club sia con la Nazionale».

Avendo allenato tanti giovani recentemente, nota differenze con il Giorgio Veneri emergente?
«Tantissime. Quando ero giovane, si chiedeva innanzitutto un certo comportamento e un certo rispetto, sui quali si era assolutamente intransigenti. Oggi si concedono comportamenti per cui io sarei stato messo fuori rosa dopo tre giorni. Ma anche l’esposizione è diversa: con la risonanza mediatica di oggi, dopo 3 partite un giovane si sente arrivato, e i tifosi pretendono sia già un campione, ma non esiste».

Lo spogliatoio come si viveva? Non credo si potesse mettere la musica…
«Non solo non c’erano musica e cose varie, ma addirittura i veterani avevano uno spogliatoio a parte. Sembra incredibile ma è così».

Però le rose erano molto più ‘italiane’. Quanto fa la differenza?
«Tanto, per noi era molto più facile costruire il rapporto anche fuori dal campo. Oggi non solo ci sono tante culture diverse, con i relativi pro e contro, ma i calciatori hanno anche tanti interessi extra-calcistici, quindi spesso al di là del campo, ci si perde un po’. Io fino a qualche anno fa, mi trovavo ancora con i miei compagni dell’Atalanta. Anche se, devo dire, il mio era un gruppo diverso da tutti gli altri. Mi hanno insegnato tantissimo, in tutto».

Insegnamenti che sono tornati utili anche allenando?
«Certo. Per me è stata una scuola meravigliosa. Non ho mai avuto un solo problema con un ragazzo che allenavo, stavo bene al campo e, cosa fondamentale, avevo un bellissimo rapporto anche con chi giocava poco. Non può essere un caso».

Tra l’altro, tra le sue esperienze in panchina, una anche in Serie A alla Sampdoria, insieme a David Platt.
«Una bellissima esperienza. Burrascosa, perché Platt non era all’altezza. Era un grande giocatore ed una grande persona, ma non era un allenatore. Io ero nessuno, eppure i giocatori si confrontavano con me, perché li capivo molto di più. Mi dispiace, perché era una buona Sampdoria che poteva salvarsi tranquillamente. Dopo questi episodi poi, la società ha deciso di mettere un grande nome in panchina, perché retrocedere con Veneri sarebbe stato un suicidio per la dirigenza. Per evitare contestazioni, mi mandarono via, ma tanti giocatori volevano che rimanessi. Peccato».

Però ha vinto tanto in Lega Pro: quanto è lontana come categoria dalla massima serie?
«Dipende solo dai giocatori: ho avuto tanti calciatori che potevano fare la Serie A alla grande, ma anche tanti mediocri. Ma le soddisfazioni maggiori le ho avute con la Nazionale, dove sono passati tanti giovani che poi sono diventati dei campioni. Penso a Sportiello, Barzagli, Verratti. Abbiamo vinto perché erano già all’epoca di un altro livello».

Forse, quindi, la squadra Under 23 in Lega Pro può far bene per la crescita del nostro movimento.
«Qui non sappiamo più dove mettere i giovani. La Juve li tiene e li fa crescere, e se non possono arrivare in Serie A li possono sistemare alla grande. Le altre società li mandano allo sbaraglio. Non sono gestiti bene, purtroppo. Gli emergenti, poi, fanno fatica perché hanno attorno troppe persone che fanno i propri interessi con i loro soldi. Ci vuole più calma, bisogna capire che con i piccoli passi si può arrivare più lontano. Ho apprezzato tanto De Bruyne che si è occupato del suo rinnovo senza tira e molla con la società tramite un procuratore. Credo che sia il modo migliore per creare un rapporto con la società, che poi si traduce in attaccamento alla maglia, e si vede in campo».

Domanda inevitabile: la Super Lega?
«Arriverà. Hanno sbagliato tempi e modi, e chi comanda in Uefa ha capito che gli stavano levando la poltrona e ha reagito male. Non so se sia giusto o meno, ma distribuendo bene i ricavi e pianificando i rapporti nel modo corretto può non essere un piano malvagio. Secondo me ci arriveremo».

Sbilanciandosi sulla finale di Coppa Italia, chi vince?
«60% Atalanta e 40% Juve. Dipende come ci arrivano, l’Atalanta mi sembra che vada a 200, i bianconeri un po’ meno, ma non si sa mai. Le finali sono sempre particolari. Comunque sono impressionato da Muriel: è rinato, e fa giocate assurde con una semplicità disarmante. Poi, Pirlo è inesperto e la Juve quest’anno è sfortunata, ma manca anche un centrocampo all’altezza. È inutile avere un attaccante da 40 gol se non è supportato da gente di livello. In generale in Italia, però, non siamo in un buon momento. Ha vinto l’Inter perché è riuscita a prendere meno gol delle altre, ma se dall’anno prossimo si alza il livello delle rivali, non vedo i nerazzuri come una squadra che può aprire un ciclo come quello della Juve».

La Nazionale all’Europeo dove può arrivare?
«Sono fiducioso. Con Mancini la squadra gira bene. E poi ha la fortuna giusta che serve per arrivare in alto, quella che ti assiste quando ne hai bisogno: ha vinto un campionato inglese a tempo scaduto che gli ha svoltato la carriera. Secondo me agli Azzurri manca solo un top player di personalità che trascini gli altri nei momenti importanti, ma teniamo gli occhi aperti, perché possono darci delle soddisfazioni…».