Questa è l'Italia per me

di Vincenzo Grifo

Stanno per iniziare le quattro settimane più belle dell’anno. Quelle in cui partiamo da casa nostra, a Pforzheim in Germania, e andiamo a trovare i nonni in Italia. I genitori di mia madre abitano vicino Lecce, mentre quelli di mio padre stanno a Naro, in provincia di Agrigento.

 

«Mamma, come li hai fatti i panini?».

 

«Sono prosciutto e formaggio».

 

La grande certezza del viaggio da Pforzheim ad Agrigento è la consapevolezza che mangeremo dal primo istante e affogheremo tra le mille portate preparate dai nonni. La prima, vera prelibatezza, è come sempre l’involucro di carta in cui nostra madre incarta i panini. Tornare in Italia, per noi immigrati in Germania, è un puro atto di felicità. Perché sì, qui viviamo bene, ma non possiamo negare la mancanza. Soprattutto perché siamo tanti e quando andiamo in giro, parliamo solo dell’Italia. Di quanto sia bella.

 

I miei compagni di classe me lo ripetono sempre: «Vincenzo si capisce che è italiano, gesticola sempre!». Nonostante sia nato in Germania, dove ho frequentato la scuola, io mangio all’italiana, mi muovo all’italiana, mi vesto all’italiana e se da una parte ho imparato la precisione e la puntualità tedesche, dall’altra è impossibile che ti racconterò qualcosa senza muovere le mani.

 

La prima sosta del viaggio dell’Opel Corsa di mio padre è in Austria, vicino Innsbruck, a quattro ore da Pforzheim. Solitamente è un’area di servizio immersa nel verde. I miei genitori scendono per riposarsi, tirano fuori la borsa frigo dalla macchina, custodita gelosamente tra le gambe da mia madre, e i miei fratelli aspettano di mangiare. Io, invece, prima di lasciare la macchina, ho già iniziato a calciare il pallone. Esco palleggiando e coinvolgo tutti. In ogni momento del viaggio, io e il mio pallone siamo insieme. Lui sopra di me, io che lo tengo stretto e guardo fuori dal finestrino sognando di dribblare le altre auto con la maglia di Pirlo addosso. L’ho comprata al mercato, si vede che è falsa ma ne vado troppo orgoglioso.

 

Mentre mangiamo il panino con prosciutto e formaggio, mia mamma mi chiede: «Vincenzo, te lo ricordi come si gioca a briscola?». Vuole vedere se di anno in anno sono pronto a sfidare i miei nonni in Puglia. Non vedo l’ora di rivederli. Mio nonno Pippo è di Napoli e dopo pranzo, si distende sul divano e dorme un paio d’ore. O almeno, quando ci siamo noi in giro per casa, ci prova. Io e la mia palla non ci fermiamo un attimo. Lo tormentiamo tra gli oggetti che cadono e il rumore dei passi. Ha conosciuto mia nonna, Maria, e si è trasferito a Lecce. Ma le sue origini non lo tradiscono. Infatti, quando vuole dormire, esasperato dal rumore, mi strilla: «Vincè, vatte a cuccà!», che sarebbe «Vincenzo, vai a dormire!», un invito amorevole ma esasperato. Io, però, ho un sogno: giocare nella Nazionale con la maglia numero 10.

 

 

E in quei momenti non posso neanche immaginare che un giorno mi ritroverò nella stanza di Bonucci, Insigne e Verratti che me la consegnano. Dovevamo giocare un’amichevole contro gli Stati Uniti e Lorenzo doveva lasciare il ritiro. Così, Leo aveva la lista dei numeri in mano e ha annunciato: «Bene, la 10 è libera». Ne stava parlando con Marco, quando a un certo punto mi hanno guardato. Io ero in silenzio, appoggiato al tavolo, e ho subito realizzato. Ho sorriso imbarazzato: «Dai ragazzi, non posso prenderla alla prima convocazione». Non c’è stato niente da fare e l’ho indossata due volte: una l’ho regalata alla mia famiglia, l’altra l’ho tenuta io. I miei amici quando vengono a casa mi prendono in giro dicendo che in realtà è una di quelle che ho comprato da piccolo al mercato.

 

Insomma, il viaggio da Innsbruck a Lecce non era ancora finito. Mancano solo… 12 ore di macchina sulla costa adriatica. Rimarremo due settimane nella vecchia casa di mia madre e poi andiamo in Sicilia dagli altri nonni. Mi piace tanto quando arriviamo perché posso abbracciarli e intorno a noi si radunano anche i vicini, che hanno visto crescere i miei genitori e adesso noi più piccoli. E poi il cibo è straordinario, fuori controllo: ci sono mille portate e soprattutto c’è la pizza. La mangiamo anche in Germania, ma non è comparabile. Il cibo è il pezzo forte. Il caffè, ad esempio, lo compriamo in Italia e lo portiamo a Pforzheim.

 

Sento di avere il sangue del sud. Siamo una famiglia molto unita e siamo orgogliosi di essere italiani. Soprattutto quando gioca la Nazionale, siamo incollati alla televisioni.

 

Eccoci arrivati.

 

Lecce è una delle mie città preferite, è bellissima. Sarà un orgoglio tornarci da grande ed essere Vincenzo Grifo, «quello che fa il calciatore». Mi chiederanno com’è giocare con Chiellini e Verratti. E gli risponderò che è incredibile. Giorgio e Leonardo sono i due capitani per eccellenza e mi hanno aiutato tantissimo, fin dal primo giorno. Con Marco parliamo del fatto che siamo gli unici a non aver mai giocato in Serie A ad aver giocato in Nazionale. Poi è arrivato anche Willy Gnonto, che ora è in Svizzera e con cui ci raccontiamo le barzellette in tedesco fino a morire dal ridere. Marco è il più forte di tutti, di quelli che ci sono in giro… gioca con Messi e Neymar, ha una tecnica folle. Gli voglio bene. Però il sangue del sud non mente: Ciro e Insigne mi hanno accolto come uno di loro, mentre Gigio posso definirlo un amico nel calcio.

 

 

La prima sera in Puglia non riusciamo a prendere sonno per l’emozione. Nonostante il lunghissimo viaggio, stretto nei sedili posteriori tra i miei fratelli, senza neanche lo spazio per dormire, è impossibile. Il secondo giorno, i nonni ci portano al mare, a Porto Cesareo, verso Punta Prosciutto. Finalmente.

 

Mi piace molto che in Italia si mangi così tardi, verso le 21. Specialmente quando ci sono le sagre di paese. Sono tra i momenti più belli delle vacanze. Mi fanno sentire italiano. Passeggiate sul lungomare, un giro alle giostre e qualche videogioco. Solitamente è nonno Pippo che mi accompagna in giro per non perdermi tra la folla. Sono questi gli attimi che ricordo quando sento l’inno davanti alla tv, in Germania. Come quando abbiamo visto il Mondiale del 2006. Impossibile dimenticare la telecronaca di Caressa e Bergomi nella semifinale. La so a memoria: «Palla tagliata, messa fuori, c’è Pirlo, Pirlo, Pirlo di tacco, tiro, goooooool». Ma quello non è il solo gol di Grosso in cui abbiamo rischiato di spaccare tutto l’appartamento. Il giorno della finale eravamo in 22 in salotto! Tutti a tifare Italia: al rigore decisivo ci siamo riversati in strada, a Karlsruhe, e c’erano 15mila italiani a festeggiare insieme a noi. Indimenticabile per chi, come noi, è immigrato in Germania e vive distante dalla sua terra d’origine.

 

Non è facile da spiegare perché per noi, quelle 22 ore di viaggio tra panini, Austria, palloni negli autogrill e musica a tutto volume, sono così speciali. È l’Italia.

 

Le due settimane a Lecce sono terminate, è tempo di andare in Sicilia. A Naro, vicino Agrigento, tra porte antiche, quartiere ebraico e castelli medievali. Qui ci sono i miei nonni materni. Prendiamo ogni giorno la macchina e andiamo in spiaggia, dove organizziamo feste insieme ad altri immigrati che sono lì in vacanza. Spesso ho detto ai miei genitori che «sembra di essere a Pforzheim», perché è pieno di persone che abitano nella nostra città che sono originarie di queste zone. Fa impressione fare il bagno fino a tardi, tutti insieme.

 

Mentre siamo in macchina, ascolto con le cuffiette la canzone ‘Numero Uno’ che i tifosi tedeschi hanno dedicato a Luca Toni. Quando è andato al Bayern Monaco sono stato contentissimo. Mai avrei potuto immaginare che un giorno, durante una trasmissione televisiva, mi sarebbe arrivato un suo videomessaggio. Quel giorno ho avuto il suo numero e abbiamo iniziato a sentirci. Mai avrei potuto immaginare che un giorno avrei superato il suo record di gol italiani in Bundesliga, arrivando a 41. Mi avrebbe scritto in direct e sarebbe stata un’emozione pazzesca. Per fortuna, ho avuto tutto questo. 

 

Infatti, quando ho postato il record nelle mie storie, in suo onore ho messo la canzone ‘Numero Uno’.

 

«Fritti, Scampi, et Chianti, calamari. Luca sei per me, NUMERO UNO».

 

 

In Sicilia il tramonto è stupendo. Tutti mi chiedono se diventerò un calciatore. Non posso saperlo. Ci interrogavamo su come potesse essere far parte della Nazionale. Un giorno glielo spiegherò. Sì, è vero, mister Mancini mi ha escluso dall’Europeo. Avrei potuto portare la medaglia giù dai nonni. Ma a lui devo tanto: quando facevo panchina all’Hoffenheim, lui mi ha dato fiducia convocandomi e dandomi l’opportunità di avere un palcoscenico nel quale mettermi in mostra.

 

Non smetterò mai di ringraziare lui ed Evani, che mi ha convocato nel 2013 in u-20. Nel calcio ci saranno sempre momenti deludenti, ma la Nazionale rimane comunque un sogno. Nel 2018, i vicini di casa dei miei nonni sono rimasti incollati alla televisione sperando nella mia convocazione. Questa è l’Italia: unione, condivisione, gioia. Ho indossato la 10, ho segnato dei gol, ho festeggiato quando abbiamo conquistato l’Europeo e ho sofferto quando non siamo andati al Mondiale. Dobbiamo fare di tutto per riportare la maglia azzurra dove merita. Fa male non vederla al Mondiale. Sono calciatore da 11 anni e non ci si abitua mai alle sconfitte.

 

Ma, cara Italia, io ci sarò sempre per te.