Ho un biglietto da darvi

di Giovanni Di Lorenzo

Se alzo lo sguardo, non posso far altro che vedere un tetto in mattoncini rossi che sbuca dietro la tribuna. Ci sono i classici schiamazzi da partita dilettantistica, quelli confusi che finiscono nel vuoto, che fanno eco fino a morire. Gli schiamazzi di Forcoli vanno a sbattere contro quelle case e tornano indietro. Non c’è molta gente sugli spalti, anche per questo mi arriva qualche voce: «Guarda, guarda, entra quel ragazzino».

 

Quel ragazzino si chiama Giovanni Di Lorenzo. Quel ragazzino, di 15 anni ma che ne dimostra anche meno, sta per fare il proprio esordio in Serie D. Quel ragazzino sono io.

 

Qualche giorno prima, come ogni pomeriggio dopo la scuola, stavo camminando con la borsa in spalla addentando un panino con prosciutto cotto e mozzarella, preparato accuratamente da mia madre la mattina stessa. Quella tracolla rossa e nera mi rendeva inconfondibile, soprattutto quando da lontano sentivo il rumore nitido della suola di un paio di scarpe da ginnastica sbattere contro l’asfalto: «Giovanni! Come stai? Mi raccomando eh, che domenica voglio vedere il tuo esordio». Era una sorta di rituale, capitava ogni giorno che io incontrassi quell’uomo. Antonio Nuzzolo, ormai anziano, nonno di un mio amico. Il mio più grande tifoso. Lo incontravo mentre faceva jogging, tarato come un orologio svizzero sulla mia partenza, destinazione Lucca, dalla stazione di Ghivizzano-Coreglia, un microscopico comune alle pendici di Lucca. A Ghivizzano, un antico borgo di 1500 anime, mi conoscevano tutti.

 

E conoscevano il mio sogno: «Dai, speriamo che riesca a fare il calciatore». Mentre mi divoravo le partite di Champions League in televisione, la mia vita scorreva tra panini, treni e allenamenti. Cinque anni prima mi aveva preso la Lucchese, scovandomi nel Valle di Ottavo, una scuola calcio della mia zona. Lì, per tutti, ero «Batigol»: giocavo in attacco e qualche gol l’ho segnato. Uno dei dirigenti era un tifoso a dir poco sfegatato della Fiorentina e quale soprannome poteva rendere meglio? Alla Lucchese, però, avevo svestito i panni di Batigol già da un pezzo, arretrato prima a centrocampo e poi in difesa per necessità. A un torneo il mio mister, Tiziano Bizzarri, ebbe quest’idea: «Oggi fai il centrale». Era l’inizio della svolta, e io non lo sapevo.

 

 

 

 

Insomma, mangiavo quei maledetti panini con la speranza di arrivare in Serie A. Sacrifici, sì, che non saprai mai se verranno ripagati. Eh, ne arriva uno su un milione. Vero, ma perché non provarci. Certo, il sapore di un panino mangiato da un ragazzino che si allena con una società di Serie D non è lo stesso di un coetaneo delle giovanili di Napoli, Juventus, Inter o qualsiasi squadra professionistica. Ha un sapore più amaro, fatto di incertezze e addolcito solo da un pensiero: sei l’unico artefice di te stesso, la scalata ha una pendenza proibitiva e serve anche un pizzico di fortuna.

 

Quel giorno, a Forcoli, durante il mio esordio in Serie D, probabilmente non toccai neanche un pallone. Avevamo già vinto il campionato e mi venne concesso un po’ di spazio. Sia l’allenatore che i dirigenti stravedevano per me. Tanto che, alcuni giorni dopo, mi mandarono a un torneo giocato a Parma tramite l’Udinese, dove c’erano i migliori osservatori. Rientrato a casa, squillò il telefono. Risposi ed era Paolo Giovannini, il ds della Lucchese, che chiamava dalla sede. Voleva parlare con i miei genitori. Gli passai mia madre, che dopo qualche minuto mi rese il telefono: «Vuole parlare con te».

 

La domanda fu secca: «Giovanni, vuoi andare alla Reggina?». Mi si offuscò la mente, venni ricoperto da una vampata di calore. Balbettai qualcosa, pensai che sarebbe stato davvero strepitoso. Certo, a centinaia di chilometri da casa.

 

«Ah, molto importante: devi dirmelo adesso, perché sono a Milano insieme al loro presidente e dobbiamo chiudere».

 

«Digli che andiamo». Secco, deciso. Stavano trattando due calciatori e gli avevano chiesto in cambio il miglior giovane del vivaio. Avevano scelto me. Inutile dire che il cambio di vita fu drastico, difficile e spiazzante. La Reggina, però, aveva un bel settore giovanile e ottime strutture. Era un fiore all’occhiello, in quegli anni. Lasciai i campi spelacchiati per gli stadi.

 

 

 

 

Juniores, Primavera, Prima Squadra. Procedeva tutto alla grande e si aprirono per me le porte della prima esperienza in prestito: Cuneo. Neve, ghiaccio, terreno da gioco durissimo a causa del gelo, ma lì sono diventato grande. Risalii la penisola per giocarmi le mie carte. Mi presi il posto da titolare e la convocazione nella Nazionale Under-20. Quando tornavo a casa, cercavo di prendere tutto il buono di Ghivizzano e delle sue 1500 anime, per portarlo dentro di me. I miei genitori mi venivano a prendere, la sera una veloce cena con gli amici, e ripartivo verso Cuneo. Purtroppo, durante le mie camminate, non incontravo più il signor Antonio: ci aveva già lasciati.

 

Alla fine del prestito, tornai alla Reggina. Il baratro, però, mi attendeva. Avevo quasi 23 anni quando, dopo due stagioni in Calabria, ci venne comunicato che la società era fallita. Di botto, tutti i sacrifici si erano arenati come l’ultima onda della giornata sulla sabbia. Risucchiati e scomparsi. Ero svincolato, non più giovanissimo. Senza una squadra dopo i treni, i panini e tutte le risorse che avevo investito sul mio sogno. Mi allenai da solo, a Ghivizzano, per sentirmi a casa. Non era facile. Anzi, era davvero tosta. Paolo Giovannini, che nel frattempo era diventato il direttore sportivo del Pontedera, mi disse: «Giovanni, io ti prenderei subito, ma tu meriti altri palcoscenici». Si diede da fare e dopo qualche giorno mi richiamò: «Ascolta, ti va di andare a Matera? Sono una bella squadra, ti do una mano io con i contratti e tutte le scartoffie». Si prese cura di me e in poco tempo trovai squadra.

 

Feci le valigie e tornai verso Sud, prima di risalire, due anni più tardi. Il richiamo di casa, ancora. Sembrava il destino, probabilmente anche per la vicinanza alla mia terra sono riuscito a fare così bene a Empoli. Una grande famiglia, a partire dal presidente. Avevamo tutti e tutto a portata di mano. Sono brave persone, che si meritano tutto ciò che stanno ottenendo. Anch’io andavo alla grande. Segnai pure qualche gol. In particolar modo, quello in casa contro il Torino.

 

Alla fine della partita, il mio procuratore mi avvisò dell’interesse del Napoli. Scoppiai a ridere, pensando che fosse uno scherzo. Sì, qualche squadra si era già interessata. Ma dai, il Napoli! E invece era tutto vero, vollero fare le cose in fretta e appena terminata la stagione, ero già a sostenere le visite mediche. Mentre correvo sul tapis roulant, mi gustavo ogni passo ripensando a quando mi ero ritrovato svincolato, ad allenarmi da solo, dopo anni passati a prendere treni per una destinazione che mi sembrava sfocata. Averci sempre creduto mi aveva portato lì, vestito d’azzurro.

 

 

 

 

Dopo le visite mediche, andai al mare. Ebbi subito occasione di comprendere lo spirito dei miei nuovi tifosi, tra i più stimolanti del mondo per un calciatore. Appena entrato in acqua, vidi una signora correre verso di me con un neonato in braccio. Me lo posizionò addosso e, mentre cercavo ancora di capacitarmi di cosa stesse accadendo, iniziò a scattare le foto. Ero imbarazzato, non me lo aspettavo. Era l’inizio di questa storia d’amore. Tanto che alla fine, pure la mia neonata, è nata qui.

 

Se già prima di quel giorno, di cose ne erano successe tante, in quel preciso istante iniziarono a moltiplicarsi a dismisura. Il San Paolo, l’esordio in Champions League contro il Liverpool, la qualificazione mancata contro l’Hellas. Ricordo che prima delle prime gare, aprivo YouTube per guardarmi i video dei cori allo stadio che si sentivano in tutta la città. Mi venivano i brividi e non vedevo l’ora di esserne protagonista. Magari, che so, da leader. Era tutto come nei video, una bolgia di suoni che dal campo ondeggia ancor più forte. Ti senti un gladiatore.

 

Come quello che ho tatuato sul braccio insieme a mio fratello. Il primo di una lunga serie. Su quel braccio, qualche settimana fa, ci ho messo per la prima volta una fascia. Quella da capitano del Napoli.

 

Capitano, del Napoli.

 

Io, capitano del Napoli.

 

Tutti quei panini, d’un tratto, avevano un senso. Tutti quei treni, tutte quelle corse, tutti quei saluti ad Antonio davanti alla stazione. Tutte le volte che ho abbracciato i miei in stazione. Tutto aveva un senso.

 

E chi ci credeva, quel giorno a Forcoli, che sarebbe successo. Mmm… io!

 

Anche perché, nel mentre, qualcosa di incredibile era già successo. E i panini, i treni, tutto aveva già preso un senso circa un anno prima. Bastava aprire Instagram, o accendere la televisione, per trovare Ghivizzano da qualsiasi parte. Perché il campanile era illuminato con la mia maglia della Nazionale? Un simpatico omaggio del parroco, perché tutti erano in piazza per vedere gli Azzurri. C’ero anche io: dall’altra parte dello schermo, però.

 

 

 

 

L’Europeo mi ha portato su un altro livello. Mi ha affermato. Un passaggio fondamentale anche per la fascia da capitano. A inizio estate, sono entrato nello spogliatoio insieme a mister Spalletti. Lo stesso spogliatoio in cui ho visto Malcuit vestito da Pikachu, in cui Fabián, Juan Jesus e Petagna ci tempestano di scherzi, lo stesso in cui devi stare attento a come ti vesti, altrimenti ti ritrovi maglietta e pantaloni nascosti chissà dove. Annunciò che io sarei stato il nuovo capitano. Fino a quel momento, la fascia era stata di chi era da più tempo lì. Lorenzo, leader tecnico indiscusso, Kalidou, persona fantastica a cui auguro il meglio, e di altri bravi ragazzi che hanno fatto altre scelte. Tutto lo spogliatoio fu d’accordo, anche chi per militanza la meritava più di me. Nessuno escluso. Un attestato di stima.

 

Farò il capitano in Serie A e in Champions League. Il capitano del Napoli, qualcosa di grande. Ricordo la partita al San Paolo tra Napoli e Borussia Dortmund, di qualche anno fa. Vidi in televisione lo scambio dei gagliardetti. Chi lo avrebbe mai detto che, al posto di Hamšík, ci sarei stato io, un giorno.

 

Che capitano sarò? Semplice, umile, distinto. Non sbraiterò, ecco. Sarò la stessa persona che si mostra a Ghivizzano: non sarò Di Lorenzo, ma Giovanni. Sempre Giovanni.

 

Voglio fare una cosa per i miei compagni. Il mio primo atto da capitano del Napoli. E voglio farlo ora.

 

Dovete sapere, miei compagni di viaggio, che lo scorso luglio ho ricevuto diversi messaggi su WhatsApp. Erano di Salvatore Sirigu, insieme lottavamo per vincere l’Europeo. Prima di ogni sfida, ci mandava un messaggio motivante sulla chat di squadra. Alle porte della finale, poi, ha raccolto alcuni videomessaggi per ogni calciatore: familiari, amici. Li ha montati e ci ha fatto vedere a sorpresa il risultato. Un momento toccante, di quelli che ti arrivano dentro. Poi, a ognuno di noi ha consegnato un biglietto. Nel mio c’era scritto: «Hai dimostrato di essere forte, la gente non ti conosceva fino in fondo, ma tu hai dimostrato a tutti che in questa Nazionale ci puoi stare eccome. Andiamoci a prendere questa finale».

 

Oggi voglio dare io il mio bigliettino a voi: «Lo so che ci danno per sfavoriti, per squadra che ha subito molti cambiamenti con tanti importanti giocatori che sono andati via, ma sappiamo che anche noi possiamo fare bene. Sono arrivati ragazzi nuovi, altri se ne sono andati. Siamo forti, così come i giovani che sono rientrati. Abbiamo salutato di botto 6-7 amici, che su un gruppo di 23 sono tanti. Ma si sta formando un bel gruppo e se portiamo in campo l’atmosfera che abbiamo creato fuori, beh, ci possiamo divertire».

 

Firmato: il vostro capitano, Giovanni.