Il calcio di strada e l’arte di reinventarsi di Marco Giampaolo

by Redazione Cronache

di Giulio Zampini

Marco Giampaolo è un maestro di calcio, uno di quei professori vecchio stile: si apprende con l’applicazione, si impara con la ripetitività. Dove ha allenato ha quasi sempre lasciato qualcosa in più di un semplice segno. Giusto per citare le recenti avventure: orme positive a Genova, sponda Sampdoria, e tracce negative nella Milano rossonera. Qual è quel fattore che ha deciso l’esito del suo lavoro? Il tempo.

La differenza tra Sampdoria e Milan

Lo sanno tutti: Roma non è stata costruita in un giorno. Lo stesso può valere per le squadre di calcio. Prima stagione a Genova: dopo sei giornate di campionato, la Sampdoria ha 6 punti – due vittorie e quattro sconfitte la legano al treno della retrocessione. Il presidente Ferrero non lancia l’ultimatum al tecnico. Anzi, lo difende in pubblica piazza:

FIDUCIA – «Con lui ho incontrato un uomo molto intelligente e molto professionale, un grande lavoratore che lavora 12 ore al giorno. Diamogli tempo».

Il tempo. Tutto il lavoro di Giampaolo ruota intorno quello. Certo, ci sono anche le idee, i progetti studiati a tavolino con la società, il duro lavoro. Ma senza tempo, il castello di pietra si trasforma in castello di carte: fragile, soggetto al soffio del primo passante. Quello che è successo sulla panchina del Milan: ingaggio a giugno ed esonero a ottobre. Nel mezzo, 7 giornate e nove punti conquistati – quattro le sconfitte, proprio come la prima stagione a Genova. E le parole della società? Rassicuranti solo di facciata, arrivate da Paolo Maldini una settimana prima dell’addio.

FINTA FIDUCIA – «Noi lo difenderemo sempre perché è giusto dare tempo. Abbiamo una squadra giovane, sapevamo che potevamo avere dei problemi anche se speravamo di fare meglio, questo è certo».

La mentalità

Giampaolo, dicevamo, è un maestro che insegna calcio, che entra in classe, sul campo, e non esce fino a quando non vede negli occhi dei suoi giocatori di aver lasciato qualcosa di nuovo. Non si lavora a fasce orarie, ma a convinzioni: imparato uno schema, si passa al successivo. Giampaolo non lo cambi. Se vuoi virare, devi cambiare allenatore. La mentalità è uno dei suoi punti di forza. Da lì deriva il lavoro, prima, e la bellezza, poi. Ai tempi del Milan, una sua dichiarazione racchiuse alla perfezione tutta l’essenza del suo credo:

FILOSOFIA – «I risultati sono questione di tempo. C’è n’è sempre poco, lo so, ma io sono uno che non salta gli step e quindi il tempo me lo vado a prendere comunque. Ho un percorso che so bene dove deve portarci. Sono consapevole della storia del Milan, ma vado avanti con le mie convinzioni. Posso cambiare posizione di un calciatore, ma non la filosofia e il pensiero originario».

E quella puntata dedicata su “Chi l’ha visto?”…

Ama il calcio, quello bello e spettacolare che le sue squadre sanno regalare. Ma non è uno che si tira indietro nei momenti di critica verso il suo stesso amore. Come nel 2013, quando da tecnico del Brescia provò sulla sua pelle la pressione, l’oppressione e l’ossessione dei tifosi italiani nei confronti del pallone.

SCOMPARSO – «Dopo la sconfitta interna col Crotone l’addetto stampa della società si presenta con due uomini della Digos. Mi dicono che bisogna andare dai tifosi per un chiarimento. Chiarimento di che? chiedo. Bisogna andare per motivi di ordine pubblico, mi dicono, perché altrimenti di qui non fanno uscire nessuno. Io faccio un errore: li seguo. Passiamo davanti alla tribunetta dove ci sono le famiglie dei calciatori, entriamo in un locale sovrastato dalla scritta “Polizia di Stato”. Ci sono lì otto o dieci ragazzi. Uno lo riconosco, dev’essere il capo, era venuto a mettermi una sciarpa al collo il giorno della presentazione ufficiale, e a dirmi che non volevano Gallo. Gli dico che con lui non parlo perché era già prevenuto. Un altro mi critica sul modulo di gioco. Se non sei soddisfatto, gli rispondo, vai dal presidente e digli di esonerarmi . La vivo come un’umiliazione assurda e dico basta. Avviso il figlio del presidente e allerto i miei collaboratori perché provvedano all’allenamento del giorno dopo. Mando un messaggio a Zambelli, il capitano. E non mi muovo da casa, a Brescia. Non parlo per non disturbare l’ambiente. Hanno cercato di farmi passare per uno squilibrato, hanno messo di mezzo Chi l’ha visto?, hanno cercato di farmi cambiare idea ma non l’ho cambiata. È una questione di dignità».

Nel bene e nel male del calcio, anche questo è Marco Giampaolo.

L’arte di reinventarsi

La sua è una carriera da giocatore tutt’altro che entusiasmante – il picco in Serie B, la normalità in Lega Pro. E poi un brutto infortunio alla caviglia, nel 1997, a soli trent’anni, che ha appeso al suo posto gli scarpini al chiodo. Da lì’ in poi un continuo sali e scendi, con più bassi che alti.

LO STOP – «Essere costretti a smettere di giocare a trent’anni è rischioso. Perché arrivi a quell’età lì che non hai né arte né parte. Non riesci a sostenerti economicamente e quindi devi reinventarti, solo che non si è preparati. Io ho avuto la fortuna di smettere e cominciare a lavorare guardando le cose dall’altra parte, come osservatore del Pescara. La mia carriera di allenatore è iniziata da lì».

Da pochi giorni, Marco Giampaolo è diventato allenatore del Torino. Un paradosso, guardando il suo passato. Anno 2009, la Juventus esonera Claudio Ranieri e il tecnico abruzzese si fa notare sulla panchina del Siena. Il nome del successore ricade proprio su Giampaolo: è tutto fatto, ma la mattina seguente, quella delle firme sul contratto, il CDA bianconero cambia rotta e vira su Ciro Ferrara. Un bivio che qualche stagione dopo l’ha rigettato nella lunga gavetta fino alla Lega Pro, sulla panchina della Cremonese.

RIPARTIRE – «Sono ripartito dall’ultima squadra militante nella categoria dei professionisti soprattutto per una sfida con me stesso. Mi sono detto: “Devo ripartire da lì e vediamo se sono capace a ritornare nel calcio più importante”».

Il futuro del calcio: la strada

Come calciatore e allenatore Giampaolo è cresciuto in strada, tra un pallone che rotolava e due pietre gettate a terra a simulare i pali di una porta da violare. Per reclutare giocatori si andava a suonare i campanelli, per migliorare le proprie abilità si sfruttava tutte le caratteristiche della strada: gli elementi di coordinazione per saltare un cancello, il tempismo per evitare di cadere sull’asfalto. Nella sua concezione di calcio, e di futuro, per migliorare i giocatori andrebbero abolite le scuole calcio e riportata la strada come unica e vera scuola. Una sorta di chiesa – del pallone – rimessa al centro del villaggio. Questione di un calcio che non c’è più e che, per forza di cose, dovrebbe tornare in auge. Ne ha parlato lo stesso tecnico abruzzese in un’intervista rilasciata a Sky Sport.

GUADAGNO – «Adesso hanno tutti le maglie uguali, hanno tutti i kit. Tra l’altro acquistati. Un tempo invece dovevi conquistartelo, era un punto di arrivo. Mi ricordo un episodio: anni fa ero in Zanzibar, c’erano trenta ragazzi che giocavano quindici contro quindici. Tutti con maglie diverse, eppure si riconoscevano. Adesso si riconoscono solo per la maglia. Prima era più cognitivo, sviluppavi sensibilità diverse».

Il paragone con Allegri

Il calcio è senza limiti, non ha confini. Chi prova a inquadrarlo e classificarlo finisce per lasciare sempre un pezzo fuori dalla graduatoria. È come la perfezione: più la si insegue e meno la distanza si riduce. Ma c’è una fotografia, però, che se non contiene tutto il calcio ne accoglie, almeno, buona parte. Anno 2019, giardino di Andrea Iaconi – ex ds del Pescara. A capotavola Zeman, intorno alle portate di mare Allegri, Giampaolo e Galeone. Tutti con in comune un passato nel club biancazzurro e la passione per il calcio. Tanta passione, tanto calcio.

L’episodio non è citato a caso. Giovanni Galeone è il ponte, nonché maestro, che unisce Massimiliano Allegri e Marco Giampaolo. Cos’hanno in comune i due allenatori ancora in attività lo ha specificato Galeone in una recente intervista – al quotidiano La Gazzetta dello Sport:

ALLEGRI E GIAMPAOLO – «Hanno in comune una concezione più prudente e ordinata della manovra di attacco. Non lasciano la difesa sguarnita, non ordinano ai centrocampisti di buttarsi in avanti ogni volta che hanno palla tra i piedi. Hanno grande attenzione agli sbilanciamenti e grande spazio all’inventiva del singolo: l’estro e la creatività dell’elemento di spicco nel contesto di una ferrea disciplina collettiva.»