Definite in poche parole un Uomo d’onore. Vi diamo una mano: Sinisa Mihajlovic. Per lui niente risvoltini, arzigogoli o riverenze da scolaretto ben addestrato, solo una profonda convinzione della forza della propria gente, rappresentante e difensore, vero sanguinoso patriota. Nella vita come nel calcio. “Io mi ritengo fortunato, perché sono caldo nel cuore, ma freddo nella testa.” Ascoltare Sinisa è un piacere per le orecchie, perché non prende mai alla larga un discorso. Anzi. Lo prende, lo sviscera, lo rende nudo di fronte al mondo intero. Pensate per esempio alle sue parole quando gli chiesero di rinnegare un suo gesto: pubblicare un necrologio in onore di Akran. «Lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri.” Questo è Sinisa. Prendere o lasciare.
Calcisticamente muove i primi passi nel Vojvodina, nella ex Jugoslavia degli ultimi anni ’80. Non proprio uno scenario confortevole, non esattamente un salottino da té. Sinisa ha però due armi fenomenali dalla sua: uno smisurato ego pronto a prestarsi come impermeabile corazza e un mancino al fulmicotone (che nell’arco della carriera sarebbe diventato oggetto di studio da parte del Dipartimento di Fisica dell’Università di Belgrado per l’eccezionale potenza che poteva sviluppare). Due rifugi blindati in cui sapeva di potersi riparare dalla ferocia del mondo esterno. Comincia subito a vincere: 3 campionati jugoslavi e la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa nel 1991. Vincerà molto, vincerà praticamente tutto, dappertutto.
Ma oggi non vogliamo parlare di trofei e successi, perché la storia di Sinisa si estende nella vita di molte altre persone: criminali, capi ultras, militari genocidi, avversari di colore, avversari di etnie sbagliate. “Da piccolo mi allenavo calciando contro una saracinesca, se faceva rumore era gol. Il mio vicino a un certo punto era esasperato, diceva che se non fossi diventato calciatore non sapeva cos’altro avrei potuto fare”. Ecco, forse forse un’idea ce l’abbiamo. Mihajlovic è una persona forte, cresciuto sotto il generale Tito, svezzato da due guerre, indurito dall’orgoglio della sua Serbia. Miha sputa in faccia ad Adrian Mutu, dà del nero di m… a Vieria e poi diventa ambasciatore Unicef. Incommensurabile.
Una vita passata a caricarsi interiormente visualizzando le fattezza del nemico da distruggere, con la sciabola o il fioretto. Quel magnifico fioretto che è stato il suo piede sinistro, capace di consegnare alla storia del calcio perle da ammirare in loop. “Quando ero più giovane avevo perennemente bisogno di dividere il mondo in ‘noi’ e gli ‘altri’. Mi caricava. Alcuni storici lo definiscono bisogno del nemico. Oggi non ho bisogno di nemici.” Provaci ancora Sinisa, noi non ci caschiamo.
Ora sotto con la sfida milanese, sponda rossonera. Che non più tardi di un anno fa ha frullato, masticato e sputato via Clarence Seedorf, uno che in carriera si è tolto qualche soddisfazione. Un Uomo d’onore, come Sinisa. Che adesso prova a convincerci della sua maturità, del fatto che i nemici da abbattere si siano trasformati in avversari da battere. Ora si aprono le porte di Milanello: al loro interno un pugno di cocci da riassemblare, macerie ad ogni angolo, testimoni di anni disgraziati passati a fare il conto alla rovescia per arrivare velocemente all’ultima partita dell’anno. Si sente l’eco dei fischi di delusione, si vedono occhi svuotati e cuori che hanno smesso di battere.
Forse a Sinisa torneranno in mente le strade di Belgrado, le urla della propria gente e quel campanile della chiesa del paese che da piccolo utilizzava come bersaglio. Gli obiettivi cambiano, le persone crescono e smussano caratteri spigolosi. La fame di sfidare e sfidarsi resta.
In bocca al lupo, mister.