Non chi fa triathlon, non chi si prepara per una maratona. Se cercate un atleta il cui nome fa rima con “resistenza” lo troverete in Spagna, a Bilbao. È alto 186 centimetri per 77 chili, ma i numeri non possono restituire la grandezza della sua impresa: Iñaki Williams, attaccante classe 1994 dell’Athletic, ha giocato tutte le ultime 203 partite disputate dalla sua squadra nella Liga. Duecentotre: l’ultima volta in cui non è sceso in campo era il 17 aprile 2016, per una botta presa da un compagno, Yuri Berchiche. «Glielo rinfaccio sempre», ha detto scherzando in una recente intervista al Guardian. All’epoca, il Leicester era all’ennesimo mese di “tanto a un certo punto crollano”, Kylian Mbappe aveva da poco segnato il suo primo gol tra i professionisti, il Milan era ancora in mano al duo Berlusconi-Galliani. La Brexit una cosa impossibile, Donald Trump il sicuro perdente alle elezioni americane. Una vita fa.
Da allora l’Athletic ha cambiato cinque allenatori: Ernesto Valverde, con cui ha vinto il suo primo titolo in carriera (la Supercoppa di Spagna del 2016, con gol e assist nel 3-2 al Barcellona), Cuco Ziganda, Toto Berizzo, Gaizka Garitano e Marcelino. Nessuno ha mai pensato di lasciarlo fuori. «Se dicessi che non ho mai giocato con dolori o fastidio, mentirei. Spesso sono sceso in campo grazie all’aiuto di medicinali o punture. Dottori e fisioterapisti dicono che è incredibile, che un caso del genere non lo hanno mai visto. È impossibile non farsi mai male giocando ad alta intensità ogni tre giorni». E a volte lo ha aiutato anche la buona sorte, visto che ha finito due stagioni con quattro ammonizioni: «’Se becco la prossima mi squalificano’, pensavo. Ma sono sempre stato attento a non protestare troppo». Il segreto, evidentemente, è nei geni: «Ringrazio i miei genitori per quello che mi hanno dato. Non so cosa sia, ma evidentemente è dentro di me».
I genitori vanno ringraziati anche per tanto altro. Quando la madre Maria era incinta, lei e il padre Felix intrapresero il viaggio dal Ghana all’Europa con tutti i mezzi possibili. Stipati in 40 in un van, o a piedi per lunghissimi tratti nel deserto. Una storia che Iñaki ha scoperto solo a 20 anni, dalla televisione. «Vieni qui, ti devo raccontare una storia», gli disse la madre spegnendo la tv, davanti alla faccia incredula del ragazzo. Che non sapeva nulla, perché i genitori avevano voluto tutelarlo da tutto quel dolore. «Ricordo che mio padre aveva spesso male ai piedi, ma non sapevo perché. L’ho scoperto allora: è per aver camminato per giorni scalzo nel deserto, con 40 o 50 gradi». E non solo. Perché chi intraprende la traversata non ha idea di cosa ci sia nel percorso: criminali che aggrediscono, rapinano, stuprano e uccidono. Gente che collassa sotto il sole e che viene lasciata a terra, da sola. Trafficanti che si prendono migliaia di euro per poi scaricare tutti a metà percorso. «Se lo avessi saputo, non sarei mai partita», ammetterà poi la madre. Ma, intanto, una volta intrapresa la strada non si può tornare indietro. Il punto di arrivo è Melilla, città spagnola che, come la “gemella” Ceuta, si trova in Marocco. I confini tra il Paese africano e la exclave sono delimitati da muri e sorvegliati dalla Guardia Civil, i due Williams scavalcano e vengono arrestati dalla polizia spagnola. Non hanno i presupposti per entrare in Europa, ad aiutarli ci pensa un avvocato della Caritas: «Dite che venite da un Paese in guerra. Altrimenti, vi rispediranno in Ghana». Così, i due dichiarano di essere scappati dalla Liberia e finiscono a Bilbao, dove Iñaki nasce. «Non so chi sia quell’avvocato, non ho mai saputo il suo nome», ha detto Maria.
Il nome che invece la signora Williams sa alla perfezione è quello di Iñaki Mardones, il prete che aiutò la famiglia all’arrivo in Spagna. Un aiuto talmente grande che, alla nascita del piccolo, i genitori non hanno dubbi su come chiamarlo. Un nome molto comune nei Paesi Baschi e che ha una radice antica: iñakis erano infatti gli immigrati di origine africana che, per vivere, vendevano oggetti per strada. La vita però si fa dura, Maria fa tre lavori per mantenere la famiglia e Felix emigra a Londra per lavorare in un centro commerciale. È Iñaki attraverso il calcio a salvare tutti, e a permettere ai tre di riunirsi. Anzi, ai quattro, perché nel 2002 a Pamplona (dove la famiglia si era trasferita) nasce anche Nico, che quest’anno ha esordito con la prima squadra dell’Athletic Bilbao.
Questione di famiglia, perché Iñaki inizia a giocare a calcio nelle giovanili del club e fa tutta la trafila, arrivando a esordire al San Mames nel 2014, a 20 anni appena compiuti. «Un sogno, tifo questa squadra da quando sono bambino». Le testimonianze ci sono: in una foto di quando aveva quattro anni si vede lui, piccolissimo, con addosso la zurigorri, la maglia a strisce biancorosse. Una maglia che si è tatuato addosso, e che non ha letteralmente mai lasciato. Arrivando perfino a battere il record di 202 gare consecutive stabilito da Juan Antonio Larrañaga tra il 1986 e il 1992. Sempre con una squadra basca, la Real Sociedad.
Negli anni, i Williams hanno dovuto passare momenti che definire “duri” è riduttivo. La traversata di un continente, un breve periodo in carcere, un difficile adattamento nei quartieri popolari del Paesi Baschi. Il razzismo, che con i migranti non manca mai («Prima ero l’unico ragazzino di colore per le strade di Bilbao, sentivo addosso gli sguardi di tutti. Adesso ce ne sono molti di più, la società è molto più multiculturale di prima ed è un bene»), e anche le pesanti difficoltà economiche: «Vestivamo con gli indumenti usati che ci forniva la chiesa. Ma avevamo un tetto, quasi sempre cibo a tavola, un posto da chiamare casa. Non eravamo ricchi, ma rispetto ad altri eravamo ricchissimi». Per farcela, solo una strada: il lavoro. «Ce lo hanno insegnato i nostri genitori, che per me e Nico sono supereroi». Iñaki è diventato il primo giocatore di colore a segnare per l’Athletic, Nico potrebbe essere il secondo. E, se ha preso qualcosa dal fratello, i due potrebbero giocare insieme ancora per molto, molto tempo.