dagli inviati, Giacomo Brunetti e Matteo Lignelli

Rebecca Corsi, dallo stage del Polimoda all’Empoli di seconda generazione

La vicepresidente del Club ci ha aperto le porte del suo ufficio. Un’ora di chiacchierata in cui abbiamo percepito l’ambizione e la determinazione di una ragazza a cui piace incidere concretamente sul mondo del calcio.

Monteboro è un’istantanea. Abbracciato dalle colline toscane, quelle puramente verdi, e curato alla perfezione in ogni angolo della struttura. La casa dell’Empoli è lo specchio di un’organizzazione interna consapevole di se stessa. Conosce bene le prospettive, i limiti, ma soprattutto la strada da seguire, quella che deve essere rinnovata, obbligatoriamente restando coerente con l’impostazione di base.

 

Entrando nel centro sportivo del settore giovanile azzurro, ci siamo chiesti di chi fosse la mano dietro a tanta precisione. Tutti ci hanno indicato una persona: Rebecca Corsi, la vicepresidente. Figlia di Fabrizio, il presidente che ha reso l’Empoli un’istituzione nel panorama europeo. Una storia che parte dal Polimoda di Firenze e arriva fino al gol di Asllani nella cornice di San Siro. Perché Rebecca non ha avuto la strada spianata, ne ha fatta di gavetta. «Anche troppa», ride. Una parola sopra le altre: «Ordine». Dal giardino ai ruoli. Poche persone verticali su aree specifiche.

 

«Ho sempre amato la comunicazione e il marketing nella moda. Non ho mai saputo disegnare come una stilista, mi piacevano le attività collaterali. Dopo il Polimoda, ho iniziato uno stage curriculare mentre mio padre mi diceva: ‘Ma perché lo fai? Te sei sulle nuvole!’. Era obbligatorio, la crisi economica imperversava e lui mi voleva in azienda. Sono durata poco, l’approccio non era il massimo. Dava per scontato che io sapessi, pretendeva. Facevo ricerca di materiale pelle per una stilista. Mi adattavo, non ne avevo le conoscenze, e maturavo la voglia di scrivere la mia strada».

 

 

 

 

Così, Rebecca decide che no, non può stare nell’azienda di moda di famiglia. Manca poco all’estate e va dai nonni al mare, con l’obiettivo di scrivere la tesi a settembre. Probabilmente, in quel viaggio verso la costa cambia per sempre la storia recente dell’Empoli. «Trascorro l’estate e, alla fine, mia nonna non è stata bene. Per me era come una madre. In quel periodo ho avuto modo di riflettere, e ho capito come cambiare il corso degli eventi. A gennaio sono entrata nell’Empoli, in questa stanza. Gestivo l’amministrazione. Mio padre presidente, io a inserire le fatture cercando di dare ordine e scadenze. Lì è iniziata la scalata: mi sono presa l’ufficio marketing, che si è espanso in quello di comunicazione. Ora sono entità che vanno da sole, e io le supervisiono. Questa è una soddisfazione. Ho bisogno di avere il controllo su tutto».

 

Per crescere devi iniziare dal nulla, «poco importa chi sei o chi non sei». Rebecca parla con orgoglio, guardando al passato, ma si percepisce che la battaglia è ancora in corso. Non si è adagiata, e non ci riuscirà mai. Ha troppa voglia e le idee troppo chiare. Ha la percezione di chi è diventata, e una consapevolezza dei propri mezzi che la portano ad avere l’ambizione di chi sente il fuoco dentro: «Sono diventata il riferimento in Lega per la mia società. Non dobbiamo ragionare come singoli. Oggi le aziende sono formate da altre aziende. Oggi i manager sono aziende dentro le aziende. E invece no. Io ti prendo, hai un valore e te lo riconosco. Hai delle responsabilità, ma tu rappresenti me. Se vuoi rappresentare te stesso, fai un altro tipo di percorso».

 

La formazione è stata fondamentale. «Mi sono acculturata sui campi sintetici, sulle scelte per organizzare al meglio il centro sportivo. Da quando sono entrata, posso dire che la nostra immagine è cambiata. Nella struttura, le figure sono riconoscibili in modo chiaro». C’è una frase, di suo nonno, che ha acquisito i terreni di Monteboro, che l’ha segnata: «Con poco si fa tanto». Infatti dentro l’Empoli, i dipendenti non sono un numero elevato.

 

 

 

 

Una riflessione interessante arriva quando le chiediamo se nella carriera si è ispirata ad alcuni modelli. «La prima strategia di marketing? Copiare. Guardarsi intorno e soprattutto guardare quelli più bravi di te», ci racconta sorridendo. «E io ho mio padre come modello, calcisticamente parlando è la persone per me più competente in Italia tra presidenti e dirigenti. Io sono critica con lui, da figlia, quindi lo dico con onestà», il riferimento è stato lui, «ma imparare da mio padre non è stato facile. Non ti insegna, devi imparare con occhi e orecchie. Più ascolti, più assorbi». Se oggi Rebecca è questa, «è perché nel mio percorso mi sono avvicinata a persone che sapevo potessero darmi qualcosa. Vedi il ds, vedi il segretario, vedi il direttore del settore giovanile, oppure persone esterne con cui ho condiviso battaglie comuni».

 

A Empoli si è osservato e sono stati adattati i dogmi delle big alla realtà di una città di 60mila abitanti: «Ogni volta che mi sono avvicinata alle persone giuste, ho avuto una crescita». Adeguare le idee a contesti diversi si può fare, sfruttando le opportunità senza perdere d’occhio i limiti. «Le grandi per noi non sono dei competitor, anche a livello giovanile. Le grandi hanno bisogno di società come Empoli che lavorano sul settore giovanile, e spesso avvengono collaborazioni per riuscire a valorizzare i ragazzi che, nell’uno o nell’altro contesto, non riescono a trovare la strada corretta». 

 

Per la generazione del padre Fabrizio, riconoscere di adattare e modernizzare è un passo in avanti. «L’Empoli in Serie B è grande, in Serie A è piccolo. Con due anni in B, diventa un problema. Mio padre capisce di calcio, lo gestisce meglio di qualsiasi altra cosa nella sua vita. Oggi di allenatori in Italia ce ne sono 60 milioni, e anche tra i presidenti non c’è tutta questa conoscenza, perché è sempre più business. Il suo è il calcio di anni fa, adattato ai tempi moderni. Qui siamo tutti sotto i 35 anni, lui è stimolato nel rivedere la propria visione». La mentalità Empoli.

 

«Il segreto resta non snaturarsi. Se lo fai, ti prendi dei rischi alti».

 

di Giacomo Brunetti