Juwara racconta il viaggio per l’Italia: «Il peggio è stato in Libia»

by Redazione Cronache

La Gazzetta dello Sport ha intervistato i due gioielli del Bologna Musa Barrow e Musa Juwara, entrambi del Gambia. Un paese piccolo, il più piccolo della popolosa Africa con solo un milione e settecento mila abitanti. Il più grande dei due è diventato come un fratello maggiore per Juwara, che racconta il lunghissimo e straziante viaggio per arrivare in Italia: «Vedevamo in Europa una vita diversa. Per noi era il luogo dei sogni e delle possibilità. Lo sognavamo guardando i film, la televisione, il calcio. Il viaggio costava tanti soldi. Mia madre era un’insegnante, vendette tutto quello che aveva per consentirmi di raggiungere quel luogo. Io ero sicuro che con il calcio avrei potuto farcela e mandarle dei soldi per lei e i miei fratelli. Partii con questo mio “fratello”, un amico poco più grande di me. Abbiamo attraversato il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, il Niger. Poi siamo arrivati in Libia. Il viaggio è stato duro, dormivamo in macchina e per mangiare ci arrangiavamo. Siccome i soldi non bastavano, mia madre fece dei debiti».

LA PAURA – «Ma il momento in cui ho avuto più paura è stato quando siamo arrivati in Libia. Volevo tornare indietro, ma non si poteva. Ho pianto. Ero terrorizzato, Si vedeva la gente con la pistola per strada. Poteva capitare che, se ti rifiutavi di obbedire a un ordine di qualcuno che per esempio voleva costringerti a fare un lavoro, quello ti uccidesse. La polizia poteva sbatterti in galera, se non pagavi. Ogni strada mi sembrava un inferno. Ero terrorizzato. Poi ci siamo imbarcati. Ma io non so nuotare e mi prese il panico, Il mio compagno di viaggio mi rassicurava, diceva che stavamo per arrivare, che mancava poco. Ma lo faceva per consolarmi. Restammo invece in mare per dieci ore. All’inizio tutto era tranquillo ma poi le onde si alzarono e stavano per travolgerci. Se non avessimo incontrato la nave di una ONG tedesca saremmo tutti morti. Siamo finalmente sbarcati a Messina. Da lì ci hanno smistato e io sono arrivato in Basilicata. Dormivamo in dodici in una casa. Io volevo giocare al calcio. Pensavo sarebbe stato la mia salvezza. Sapevo di essere bravo. Avevo imparato per strada, con i miei coetanei. Ma si capiva che ero capace».

LA CARRIERA – «A Potenza iniziai a giocare a calcetto, facevo tanti gol. Una famiglia italiana, quella di un allenatore di calcio, si prese cura di me. Il Chievo si interessò e mi prese. Per le regole della Figc non avrei potuto giocare fino a 18 anni. Ma io dovevo mandare i soldi a casa, dovevo guadagnare. Poi, grazie a Pastorello, il problema giuridico fu superato e ho potuto iniziare la mia carriera. Ora sono qui a Bologna, felice. Ho trovato un allenatore che mi ha dato fiducia, che crede in me. Mihajlovic è un tecnico vincente, ha una forza di carattere e una capacità di motivare che fanno dare il meglio a ciascuno di noi. Ho fatto un gol. Anche importante. Ne sono consapevole. Ma questo non vuol dire che ora debba giocare ogni settimana. Mi devo meritare lavorando la fiducia del mister».