Il ragazzo col grembiule

di Kristjan Asllani

La Sagra dello stringozzo è un appuntamento imperdibile dalle mie parti. A Buti ci sono arrivato quando avevo due anni, partendo con la mia famiglia dall’Albania. Mia madre lavorava in un pastificio, mio padre per le acque della regione Toscana. A Buti sono cresciuto e non lo cambierei per niente al mondo. Cinquemila anime in provincia di Pisa, poche ‘c’ e la classica vita di paese. Al Parco Danielli, d’estate, i ragazzi invece delle scarpe da calcio e delle magliette dei campioni, si vestono con le t-shirt più strane del loro armadio e infilano il grembiule bianco, volando tra i tavoli per preparare e servire la cinta senese.

 

Due anni fa, prima del Covid, per l’ennesima volta c’ero anche io. Amo le sagre e fare il cameriere. Corri sudato schivando le sedie e le zanzare per portare il cibo ai compaesani, ai turisti e alle persone che accorrono dalle zone vicine. Due anni dopo, beh, ho dovuto saltare la sagra perché ho coronato il sogno di diventare un giocatore dell’Inter. Che emozione aver ricevuto quel messaggio da Javier Zanetti: «Benvenuto all’Inter, Kristjan». Sono mezzo svenuto. Mentre i miei migliori amici servivano ai tavoli, io mi sono ritrovato nella stessa stanza di Romelu Lukaku per fare la prova sotto sforzo durante le visite mediche. Avevo la maglia dell’Inter perché l’Inter mi aveva appena comprato. Ci ho capito poco di quei giorni, sono sincero: un po’ perché i riflettori non fanno per me, e forse Parco Danielli e Piazza Garibaldi sono gli unici luoghi in cui mi sento a casa; un po’ perché nel 2010 avevo 8 anni e in punta di piedi al bar, in mezzo agli anziani più alti di me, cercavo di vedere un pezzetto di schermo con la finale di Champions League contro il Bayern Monaco. Quella notte ho capito che amavo questa squadra. Si sentivano le sedie fremere sulle mattonelle quando Milito ha puntato Van Buyten, poi non ci abbiamo capito più niente. Mi ricordo che è volato per terra qualche bicchiere, e io saltavo e saltavo.

 

 

Non era un segreto, lo sapevano tutti. Tifavo Inter. Quando ho iniziato a giocare a calcio, a 4 anni e mezzo, nella Butese, il campo era a 100 metri da casa mia. Tanta erba ai lati, meno al centro del campo, dove stavo io. Il mio allenatore si chiamava Cristiano Filippi ed è un amico di famiglia. D’ora in poi lo chiamerò Watson, perché nessuno lo chiama Cristiano. Siamo in cinquemila e probabilmente neanche la metà conosce il suo nome. Lui è Watson, in onore dell’amico e inseparabile collaboratore dell’investigatore Sherlock Holmes. Alla fine di ogni esercizio, ci ripeteva: «Capito ragazzi? Elementare, Watson». Alla prima partita mi mette trequartista, avevo la maglia che mi stava due volte perché ero piccolo e minuto rispetto a tutti gli altri. Io non lo ricordo bene, ma lui ogni volta mi giura che feci subito un eurogol.

 

C’era però un problema.

 

Watson da quasi 50 anni ha l’abbonamento a San Siro. Inseparabile dalla sua tessera rossonera. Io amavo l’Inter e amavo giocare a calcio. Proprio per questo avevo paura di finire in panchina. Così chiesi ai miei genitori di mettere nel borsone una maglia del Milan, quella di Kaká, all’allenamento: «Kristjan, ma non tifavi Inter?», mi risposero increduli senza sapere il motivo. Così la portai al campo della Butese per gli allenamenti, Watson incredulo mi guardò dicendo: «Ma…Kris?!».

 

«Ho portato la maglia del Milan perché avevo paura che non mi facessi giocare, voglio starti simpatico».

 

Anche se ho realizzato il sogno della mia vita, indossare la maglia dell’Inter, le sagre del mio paese mi mancano tanto. Come quando al campetto c’era la partita delle partite: Buti contro Bientina, un comune limitrofo al nostro ma più grande. Un vero e proprio derby. Non potevamo perdere. Iniziavamo al suono della campana della chiesa e si andava avanti a oltranza, fino ai 10. Viviamo di calcio e parliamo principalmente di quello. Sono uno che vive la piazza, che lo trovi sempre a parlare con tutti. Non faccio vita mondana, mi piace la mia. Il sabato sera sono in Piazza Garibaldi a fare due chiacchiere. Prima di partire per Milano, il proprietario del ristorante dove vado sempre mi ha detto una frase semplice, non preparata, che mi sto portando dentro in questi primi giorni: «Hai una grande opportunità, ricorda che la tua vittoria sarà non snaturarti e restare la persona che sei adesso». Il ragazzo col grembiule in mezzo al prato di San Siro.

 

 

Lascio Buti come Ulisse lascia Itaca: tra mille peripezie, tornerò lì. Su questo non ci sono dubbi. Lascio con il corpo, non con il cuore. Sono curioso di scoprire come sarà la mia vita a Milano. Dopo la Butese, dopo il Tau, dopo 13 anni meravigliosi all’Empoli, eccomi qui. Dopo Watson, mister Pratali, il muretto della chiesa. Dopo le prime foto, quando le persone in coda alla sagra mi dicevano «Ma tu sei Asllani, quello dell’Empoli?», e i miei due migliori amici mi prendevano in giro: «Eccolo, è arrivato quello famoso!». Mi hanno sempre messo in imbarazzo quelle situazioni, è ganzo essere riconosciuti dalla gente che arriva nel mio paese.

 

Nel giro di un anno ho vinto il campionato Primavera, eliminando l’Inter in semifinale con un gol su punizione; ho segnato il primo gol in Serie A contro l’Inter a San Siro. E alla fine sono diventato nerazzurro, anche se lo sono sempre stato. Dormivo con il pallone sotto al braccio, proteggendolo con la coperta come si fa da bambini per schermarsi dai mostri della notte. Sognavo i tifosi che urlano il mio nome al momento della firma. Pochi giorni fa ho scoperto che non era un sogno.

 

Mio padre mi ha portato per la prima volta a Milano a vedere un derby tanti anni fa, vincemmo 2-1. Ci è tornato quando ho segnato proprio lì il mio primo gol in A, qualche mese fa. Doveva essere destino, lo aspetto al mio esordio: vediamo che combino. In ogni caso, sa che la prossima estate comunque vada mi troverà al mio posto. Parco Danielli, grembiule al collo, a servire la mia gente. Nel mio posto nel mondo. Non c’è alcun dubbio: elementare, Watson.