La partita della Tregua di Natale tra realtà e leggenda

by Alessandro Lunari

 

“C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. Forsennato non piango / Affar di chi può, e del fango”. Così scriveva Clemente Rebora in “Voce di vedetta morta”, una delle sue poesie più note, per rappresentare lo scenario crudo e cupo della Prima guerra mondiale, un conflitto scandito da feroci cariche alla baionetta e dal travolgente debutto bellico dei carri armati e dei primi aerei da guerra. Difficile immaginare un momento di sosta nell’incessante marcia dei combattimenti, impensabile credere che, tra le trincee, i topi e i corpi in putrefazione, sia stata giocata una partita di calcio.
Eppure, durante la leggendaria “Christmas Truce”, un “cessate il fuoco” spontaneo tra l’esercito tedesco e quello inglese che cominciò la notte della Vigilia del 1914, pare che avvenne qualcosa di simile. Oswald Tilley, soldato semplice della London Rifle Brigade che si trovava proprio sul fronte nord-occidentale, nei pressi di Ypres, in Belgio, dove i combattimenti si interruppero per un pugno di giorni, scrisse che fin dalla sera del 24 dicembre i soldati tentarono più volte di concordare una tregua non ufficiale. Con candele accese e canti natalizi, infatti, le truppe del Secondo Reich, contro ogni indicazione dell’alto commando, decisero di porgere momentaneamente l’altra guancia al nemico, suscitando grande sorpresa tra le fila britanniche.
Secondo quanto riportato dal giovane, la mattina del 25 dicembre 1914, dato che non era stato esploso un colpo fin dalla notte appena trascorsa, due delegazioni, una per esercito, si incontrarono nella “no-mans land” – la “terra di nessuno” a metà tra le due trincee -, per spingere i propri ufficiali sul campo a “siglare” un armistizio di fatto. Non ci volle molto perché decine di soldati uscissero dalle trincee. Tilley ha raccontato che dopo aver seppellito i caduti e celebrato un’orazione funebre, gli uomini dei due opposti schieramenti iniziarono a stringersi la mano, a scambiarsi sigarette, viveri e alcool. Nonostante i tentativi di censura, il Times e il Daily Mirror pubblicarono diverse testimonianze nei giorni seguenti. Anche il New York Times se ne occupò il primo giorno del 1915 e, ormai, la maggioranza degli esperti concorda su quanto avvenuto.
Tuttavia, se è certo che la “Tregua di Natale” non sia una leggenda, altrettanto non si può dire del match che si sarebbe svolto il giorno di Natale fra tedeschi e inglesi, anche se è innegabile che la notorietà della vicenda sia dovuta soprattutto a questo aspetto. Secondo quanto si narra, l’acceso confronto tra le due squadre sarebbe terminato 3 a 2 a favore dei sudditi di Giorgio V.
Al netto dei racconti, è però più plausibile ritenere che si svolsero tante partitelle sparpagliate lungo il fronte (c’è chi sostiene che ad Ypres, in realtà, non si giocò proprio a calcio), e non un unico leggendario incontro tra due rappresentative. A tal proposito, risulta che nella maggior parte dei casi le partite furono tra “giocatori” della stessa nazionalità. L’aura del leggendario incontro tra due rappresentative, dunque, si affievolisce, lasciando spazio alla realtà di un fenomeno maggiormente diffuso.
Antonio Besana, autore di “1914. Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale”, opera nella quale ridimensiona notevolmente il ruolo del calcio all’interno della “Tregua di Natale”, non a caso sostiene che lo svolgimento degli incontri fu caotico e disordinato, con la formazione di grandi o piccole ammucchiate di soldati che utilizzavano lattine o altri oggetti al posto del pallone. In definitiva, se risulterà sempre difficile stabilire in modo univoco i risultati, le composizioni esatte delle squadre e i punti precisi in cui si svolsero gli incontri lungo il fronte, di un aspetto si può invece essere certi: sicuramente, che vi siano stati uno o più incontri, in nessun caso si è trattato di “partite regolari”, fatte di undici contro undici, con un impeccabile arbitraggio e con un pallone di cuoio cucito a mano.
La maggior parte delle testimonianze , infatti, parla di “campi” scivolosi, fatti di ghiaccio e melma – e non certo di curati manti erbosi -, e di stracci e di pezze raggomitolati e stretti tra loro per essere goffamente presi a calci, e non propriamente calciati, dai militari. A tal proposito verrebbe da dire, riprendendo una dichiarazione del noto sceneggiatore Umberto Contarello (La Grande Bellezza, This Must Be The Place), che in quei giorni, i soldati abbiano giocato a pallone e non a calcio: “cerco di non utilizzare la parola calcio ma di utilizzare la parola pallone perché questa parola contiene, per me, l’origine primordiale dell’amore per questo sport. Perché io, da bambino non giocavo a calcio, come fanno i bambini di otto anni oggi, ma a pallone. La fonte del divertimento, nel senso profondo, è nella relazione fra un essere umano e un pallone. Il calcio è un’altra cosa, meno affascinante”.
È difficile, in effetti, dare torto a Contarello. Soprattutto pensando a eventi come la “Tregua di Natale”, un’occasione in cui il “pallone”, di qualunque materiale e forma fosse, prese a rimbalzare faticosamente nel più impensabile e inospitale dei contesti, quello di un conflitto mondiale.