di Rafael Tolói

Nel parcheggio del centro sportivo, il primo giorno in cui vi sono entrato, la guardia all’ingresso mi ha detto: «Benvenuto Tolói, portateci nuovamente alla salvezza. Per noi è il nostro Scudetto!».

 

E cosa ci facciamo, allora, io e Hateboer con due casse di birra in un corridoio dello stadio di Reggio nell’Emilia. Era il nostro modo di portarci in Champions League. Ultima partita, quella decisiva contro il Sassuolo. Noi, con i lavori a Bergamo, giocavamo di fatto in casa loro. Io e Hate eravamo fuori, ma nei giorni precedenti avevamo concordato che il modo migliore per supportare i nostri compagni sarebbe stato preparare i festeggiamenti: «Hate, due casse di birra pensi che possano bastare?».

 

 

Come siamo arrivati qui? Concedetemi un salto indietro nel tempo. È necessario. Circa 140 anni fa, una parte del Friuli Venezia-Giulia faceva parte dell’Impero austro-ungarico. Negli anni successivi, alcuni territori sono tornati al Regno d’Italia. I miei antenati erano in quel gruppo di persone. In particolare, il mio bisnonno, David. Che di cognome faceva Tolloi. Sì, con due L. Era di Cividale nel Friuli, nato nel 1891. La sua famiglia si è trasferita in Brasile: dalle mie parti, infatti, ci sono tantissimi italiani. Molti di loro si chiamano Tolói, Toloy, Tolloy. Nella registrazione dei documenti degli immigrati, alcune lettere si sono perse e altre si sono aggiunte.

 

La prima volta che sono diventato famoso in Italia, quando mi sono trasferito alla Roma, era circolata la voce che io avessi origini del Trentino Alto-Adige. In realtà, mi ero semplicemente confuso: avevo raccontato di provenire dal Trentino perché tutta la documentazione relativa al mio passaporto italiano arrivava in Brasile in questo ‘Circolo Trentino’. Ma in realtà la mia famiglia è originaria di Gorizia. A rafforzare di più questa tesi, un signore di Cividale mi ha inviato per regalo una bottiglia di vino che si chiama Tolloi.

 

Già nel 2009, insieme al mio procuratore ci siamo attivati per ricevere la cittadinanza italiana: «Può sempre servire nel calcio». Chi avrebbe immaginato che un giorno avrei potuto giocare in Serie A e vincere l’Europeo con la maglia della Nazionale azzurra. Abbiamo cercato nell’albero genealogico e contattato un avvocato esperto del tema per le pratiche. L’iter è stato lungo e grazie a una legge, sono riuscito a diventare italiano, uno di quelli che abitavano a Glória d’Oeste.

 

 

Cos’è Glória d’Oeste? Il mio posto nel mondo. Il paesino da cui provengo, nelle campagne brasiliane, a 50 km dal confine con la Bolivia.

 

C’è una sola strada che taglia in due la cittadina. Una di quelle in cui senti tutte le buche mentre viaggi. Se mi guardo indietro e penso che sono partito da lì, penso che sia straordinario. I miei genitori sono ancora lì: una volta ho provato a farli trasferire a Goiana, una città molto più grande, in cui ho giocato ai tempi del Goiás, ma il richiamo della fattoria è stato troppo forte. In quelle distese d’erba, delimitate da due fiumi, c’è tutta la mia vita. Ci sono i miei amici d’infanzia, e probabilmente ci sarà anche Tolói dopo il calcio.

 

A Glória d’Oeste, però, «il calciatore» è mio padre. Tutti mi hanno sempre raccontato di quanto fosse forte. Quando ho firmato con il Goiás, ho fatto il grande salto della mia carriera. In paese, un signore mi disse: «Tranquillo Rafa, se diventerai anche la metà di quello che è stato tuo padre, riuscirai a realizzare il tuo sogno». Anche oggi è ancora così. Lui faceva il centravanti, proprio come me quando ero piccolo. Da noi c’era una squadra di ragazzini che, per motivi geografici, non riusciva a disputare partite ogni weekend. E quindi a 11 anni andavi con gli amatori: la mia prima partita con loro è stata in formazione con mio padre! Fu strano ma bello. Lui non è mai riuscito a diventare professionista, ma nelle mie zone era un asso.

 

Ogni paese nella mia regione ha un campo da calcio. Vicino a casa dei miei genitori c’è un campetto, vorrei crearci una scuola calcio ma è complicato. Ne ho fondata una a Goiana, ma a Glória d’Oeste ci sono troppe poche persone che potrebbero gestirla come vorrei. Voglio dare opportunità ai bambini, ci provo come posso.

 

 

Quando nasci in un luogo simile, hai una libertà diversa. Tornavo da scuola alle 12, pranzavo e sparivo fino a sera. Rientravo tutto sporco, con i vestiti strappati. Mia mamma mi urlava: «Rafa ogni settimana fai fuori 3 magliette!». Ho preso tante sberle… ma a noi bastavano un po’ di spazio, due legni per fare le porte e un pallone. Un’infanzia umile, ma bellissima.

 

La mia storia è iniziata e un giorno d’estate, nel 2016, ha incrociato Gian Piero Gasperini. La rivoluzione! Tutto quello che è accaduto in questi anni è merito suo. Lui non molla, è intenso. Sono quasi 7 stagioni che siamo insieme e non è mai cambiato. Basta guardare quanti giocatori sono cresciuti con lui.

 

Sapete cosa mi ha detto il primo giorno? Mi ha convocato nel suo ufficio: «Tolói, tu sei troppo grasso. Finché non dimagrisci, non puoi allenarti con noi».

 

Vabbè ma mica ero grasso: ero appena tornato dal Brasile. Una birra di qui… una cerveza di là… infatti una settimana dopo ero già in gruppo.

 

Amo il modo di lavorare del mister: voglio stare con una persona che mi fa vincere, migliorare. Cresci come atleta: in questo è molto forte. E adattarmi alla difesa a 3 non è stato un problema. L’avevo già sperimentata al Goiás, dove nelle giovanili avevo avuto come allenatore Luvanor, che era stato al Catania in Italia da giocatore. Ci ripetevano: «Tutti attaccano, tutti difendono». Gasperini non è proprio così, ma è bello poter fornire spazi e occasioni.

 

 

Vi ho raccontato di quel momento nel parcheggio a Zingonia, la prima volta a Bergamo. Poco prima, per convincermi, mi avevano detto: «Vieni qui, fai due anni bene e ti vendiamo a una big». Ora la grande squadra siamo diventati noi. Sono passati 8 anni e questo posto mi è entrato nel cuore. Abbiamo girato l’Italia, siamo andati all’estero a imporre il nostro gioco. Come quando da ragazzino varcavo il confine con la Bolivia per affrontare gli adolescenti di altri paesi. Eravamo in un’auto sulla strada statale e dato che spesso, date le altitudini, in Bolivia manca il fiato, alcuni miei compagni dicevano di stare male. Ma eravamo in pianura! A soli 50 km da casa nostra. Io ci ho giocato con il San Paolo in uno degli stadi più alti della Bolivia e vi assicuro che si fatica davvero a respirare bene. Manca l’ossigeno.

 

Comunque, a me non mancava l’aria: quel giorno feci tripletta e vincemmo 3-0.

 

Distese d’erba e niente intorno. Avevamo poco ma era abbastanza. Ogni pomeriggio, dopo aver giocato a calcio, prendevamo le biciclette e percorrevamo i 7 km che dividono le case dal fiume. Lungo la strada c’era la fattoria di mio zio. Non potevo far sapere ai miei che andavo a gettarmi nel fiume! E quindi mi muovevo di nascosto: a ogni macchina che passava, io mi nascondevo sotto a un ponte. C’era tanto contatto con la natura: ero un predatore. Ho sviluppato soprattutto l’attitudine per la pesca. Un giorno, con mio padre, avevamo creato una sedia con i sassi in mezzo al fiume. Lanciando l’amo, il filo si intrecciò con alcuni rami caduti nel letto del corso d’acqua, dove i pesci vanno a nascondersi. Mi strillava «Rafa, togliti di lì!». A un certo punto, mentre tirava la canna e il filo, il galleggiante si staccò e come un proiettile mi colpì in pieno petto. Un dolore assurdo… pensate se fosse stato l’amo.

 

Ho trasmesso questa passione a mio figlio Leonardo. Un mese fa l’ho portato per la prima volta a pescare. Faceva un freddo tremendo. Lui era gasato, emozionato nel veder tirare il filo. Io speravo di andare via presto perché stavo congelando. Ho capito quanto i bambini, a contatto con la natura, siano loro stessi. In Brasile abbiamo due fattorie: siamo cresciuti lì e tutti i miei soldi li ho spesi per renderle migliori. La prima si chiama «Atalanta», la seconda «Azzurra». Omaggio, direte voi. Ma almeno mi sento sempre a casa.

 

 

Mi piace salire a cavallo, girare la fattoria e vedere gli animali che vivono liberi. Da noi non esistono i recinti, ti muovi con i cavalli per controllare. A delimitare le distese d’erba, una specie di giungla. Quando torno, porto i miei figli dai nonni e insieme danno da mangiare alle galline. L’unico limite è l’orizzonte. Ti purifichi.

 

Da ragazzo vivevo in contraddizione: da una parte tosavo le pecore, dall’altra avevo in rubrica il numero di Kaká, mio compagno al San Paolo. C’era anche Pato.

 

Campioni. Come noi, nella notte di Wembley. Mamma mia, che gruppo.

 

Io ero grato e realizzato solo avendo disputato qualche partita delle qualificazioni. Un giorno il ct Mancini mi ha chiamato: «Domani sera andiamo in diretta sulla Rai, annunciamo i convocati. Mi farebbe piacere se venissi anche tu, per stare con noi».

 

Non me lo sono fatto ripetere due volte: «Certo che vengo!».

 

 

Io e Pess eravamo con il fiato sospeso. Lui, forse, aveva più possibilità di me. E alla fine siamo andati tutti e due all’Europeo. Il giorno della finale, in tarda mattinata, Sasà Sirigu ci ha mandato il consueto messaggio: motivazionale, emozionante, commovente. Sul gruppo della squadra tutti hanno risposto, ma tra i tanti messaggi mi sono perso quello del team manager che annunciava la riunione tecnica anticipata di 15 minuti. Dalle 13:15 alle 13:00. Eppure sono uno che controlla ogni 10 minuti il telefono per le comunicazioni.

 

Tutto tranquillo, alle 13:10 sono andato verso la palestra. Non ho fatto in tempo ad aprire la porta che ho sbattuto contro Bonucci: «Oh Rafa che fai? La riunione è già finita». Ero mortificato, ma si sono messi tutti a ridere. Chiellini è venuto da me: «Sei stato sfortunato. Io ho avuto culo che sono arrivato in anticipo, mica l’avevo letto il messaggio».

 

La sera si è materializzato quanto di più bello mi sia accaduto in carriera: in mezzo al campo con Spinazzola, che aveva vissuto l’epopea della rottura del tendine. Lui piangeva, io pure. Ci siamo conosciuti all’Atalanta, quando ancora si parlava di salvezza, e ora eravamo lì. Insieme. Ha rafforzato la nostra amicizia. Siamo rientrati nello spogliatoio: che casino! Tutti che si lanciavano di petto sul tavolo al centro, anche De Rossi. Vorrei raccontarvi della festa in hotel e in aereo, ma ero cotto.

 

 

Al rientro in Brasile, nel mio paesino tutti mi aspettavano a braccia aperte. Questione di origini.

 

Quella notte, sul tetto d’Europa, ho pensato al cerchio che si chiude. Il mio bisnonno, David Tolloi, e suo nipote, Rafael Tolói. La storia puoi studiarla, puoi osservarla. La storia di guida: a Londra, noi ci siamo entrati. Grazie alle mie origini, ho scritto il mio racconto di chi sono diventato adesso.

 

È la bellezza di questo gioco. La mia medaglia, adesso, ce l’ha mia mamma. La conserva in una stanza, insieme agli altri trofei che le ho portato. Fuori dalla porta circolano liberamente le galline. La mia medaglia riposa in mezzo alla natura.