L’intervista di Cesare Cremonini a Roberto Baggio che dovete assolutamente leggere

by Redazione Cronache

Ecco l’intervista integrale di Roberto Baggio rilasciata a Vanity Fair, con Cesare Cremonini.
Il Divin Codino ha parlato del suo cambiamento dopo il ritiro dal calcio giocato, tra famiglia, ricerca spirituale, impegno umanitario e…

Caro Robi, come stai? Ogni volta in cui ti ho sentito parlare ho sempre avuto la sensazione che siano ancora oggi i sogni a guidare il tuo destino. I desideri, che sono i padri della determinazione e del coraggio. Spesso hai detto che i sogni ti hanno permesso di superare gli infortuni e rialzarti. Eppure, lo dico per esperienza diretta, anche i sogni hanno un prezzo. Quanti segni e cicatrici rimangono oggi di quei dolori, di quella fatica fisica che superavi sempre in silenzio? Soffri ancora?
«Tutti i sogni hanno un prezzo, caro Cesare. Una volta dissi: i rigori li sbaglia solamente chi ha il coraggio di tirarli. Credo che anche i sogni siano nelle mani di chi ha il coraggio di sognare ed è disposto ad assumersi responsabilità e difficoltà pur di inseguirli e realizzarli. E io, per inseguirli, ho sottoposto le mie povere ginocchia a un super lavoro. Queste mi tormentano ancora, anche perché gli anni passano (ride, ndr). Ma non mi fermo mai. Il calcio è stata la mia passione, l’ho vissuta intensamente, ora mi limito a guardarlo, mi diverte, specie se vedo delle belle giocate, ma non ho smesso di riempire la mia vita anche con altro. Detto ciò, non dimentico cosa mi ha insegnato il pallone. Ho imparato a soffrire, a combattere, a rialzarmi, a godermi le vittorie e ad accettare le sconfitte. È davvero una scuola di vita, il calcio, se non vivi quello che ti capita con superficialità, come se tutto ciò che accade fosse frutto del caso. Da quelle cicatrici di cui parli, che sono sulla pelle, ma anche – più profonde – dentro l’anima, devi trarre insegnamenti. Soprattutto perché il tuo compito, oggi, è provare a educare. Io, lo sai, ho tre figli, e a loro prima di tutti ho cercato di mostrare ciò che le cicatrici mi hanno insegnato. Non ci si mostra solo a parole, ma anche con i comportamenti. Anzi, soprattutto con questi. Una volta ho letto una frase che mi ha colpito molto: se devi parlare, devi migliorare il silenzio. Da profondo amante della natura so che non è facile migliorare il silenzio, devi davvero avere qualcosa di importante da dire».

Mi ha colpito la risposta che hai dato a Walter Veltroni quando, in un’intervista di cinque anni fa, ti ha chiesto chi fossero i tuoi eredi. «I miei figli», hai risposto. Ho conosciuto Valentina, una ragazza splendida e sorridente, che ti ama e non rinuncia a dimostrarlo. Hai mai avuto paura di non riuscire a proteggerli da te stesso, dalla tua incredibile fama e dal tuo talento?
«La paura di esporli troppo, specie quando erano più piccoli, c’è sempre stata, è naturale. Però ho spesso ripetuto loro che devono trovare la propria strada, indipendentemente dalle tante chiacchiere che si facevano sul papà. Assecondare le loro passioni, battersi continuamente per i loro sogni. Credo abbiano capito, hanno riconosciuto i loro talenti e si dedicano alle attività che amano, che li fanno sentire realizzati. Devono proseguire su questa strada, non abbattersi per qualche passaggio a vuoto, che la vita ti mette sempre davanti. Devono insistere. Ho cercato di trasmettere l’importanza che ha il futuro e quanto questo dipenda da ciò che fai nel presente, facendo tesoro delle esperienze del passato».

C’è sempre un momento per uscire di scena: che sia il tramonto di una storia d’amore raccontato in una canzone o quel concentrato di emozioni e passione che è una partita di calcio, nell’istante in cui si dice basta per sempre. Quanto è stato importante l’amore di tua moglie e dei tuoi figli per riempire quel vuoto?
«Ci sono sempre stati, con i modi e le parole giuste. So che non è stato facile per loro: la condizione del calciatore ti porta spesso lontano da casa per molti giorni, eppure loro c’erano. E ci sono ancora, il nostro rapporto non ha mai smesso di essere intenso. La vita mi ha dato anche questo grande privilegio. Quando presi la decisione di smettere di giocare, da una parte ero felice perché sentivo che avrei smesso di soffrire per i miei dolori, dall’altra sapevo che andavo ad assumere un nuovo ruolo all’interno della famiglia, prendendomi responsabilità che, fino a quel momento, erano quasi tutte sulle spalle di mia moglie Andreina. Dovevo diventare capace di rispondere alle domande dei miei figli su tanti argomenti che, sino ad allora, avevo avuto poco tempo per approfondire. La loro curiosità sulle vicende del mondo, spesso difficili da comprendere e accettare per molti giovani, mi ha costretto a leggere di più per essere maggiormente preparato. Insomma, ho continuato ad allenarmi…».

La solitudine e il vivere lontano dai riflettori. Sono pochissimi i grandi che hanno resistito alla lotta perenne con il proprio ego e il bisogno di ognuno di noi di restare vivi anche attraverso gli occhi degli altri, dei fans, dell’opinione pubblica, una volta scesi dal palcoscenico. Mi ricordi Lucio Battisti, sotto questo aspetto. Però in te ho visto qualcosa di diverso. Non solo un rifiuto, ma la necessità di un uomo di darsi un’altra possibilità. La scelta del buddhismo e dell’impegno sociale hanno rappresentato anche questo per te?
«Vivo la famiglia, vedo crescere i figli, mi dedico alla mia terra, parlo con gli amici. Posso dirmi fortunato, so che per tutti non è così ed è proprio per questo che bisogna nutrire un profondo rispetto per la vita, non disperdere il bene che hai ricevuto. Nel far ciò, non vedo nessun rifiuto, nessuna rinuncia, anzi. Cerco di vivere con passione la mia vita, faccio quello in cui credo e ho sempre creduto. Mi guidano i valori che sono gli stessi di quando ero ragazzo. Forse ora sono un po’ più saggio: l’esperienza, certificata da questi capelli bianchi, ti aiuta a capire meglio, e ti permette di tentare di essere d’aiuto per i più giovani. Certamente la fede buddhista mi ha aiutato moltissimo nel diventare consapevole di quanto tutto dipenda da noi e dalle cause che mettiamo ogni giorno nella nostra preziosa vita. E soprattutto nel provare immensa gratitudine per quanto ho ricevuto, gratitudine che manifesto cercando di aiutare chi è rimasto più indietro per ragioni diverse. Tutto questo rende l’allontanamento dal palcoscenico privo di traumi o dipendenze. Si può fare moltissimo anche senza riflettori. E, per una persona timida e riservata come me, credimi, è molto meglio… Diciamo che c’è un tempo per la luce e un tempo per stare nel cono d’ombra. Non c’è la luce senza la notte».

Sei stato l’eroe sportivo per milioni di persone in tutto il mondo. Chi sono stati invece i tuoi eroi di gioventù e quali invece ora?
«Quando ero bambino e poi adolescente, negli anni Settanta, non c’erano tutte le opportunità di oggi per scegliere i propri eroi. Poche partite, pochi fumetti e poi per me, che avevo litigato con i libri, poche occasioni di conoscere gli eroi della storia. L’avevo trovato nel calcio il mio eroe: Zico, numero dieci della Nazionale brasiliana, quella Nazionale che, fin da piccolo, sognavo di sfidare in una finale del Campionato del Mondo. Sappiamo tutti com’è andata… Il mio eroe più vero, l’avevo con me tutti i giorni: il mio amato papà. Diventando grande ho avuto modo di apprezzare Nelson Mandela, figura incredibile di determinazione, sacrificio, sopportazione, visione, bellezza totale. Un eroe indimenticabile. Poi, ho incontrato il mio adorato maestro Daisaku Ikeda, straordinaria figura di leader religioso che, dal 1960 ai nostri giorni, ha fatto crescere nel cuore di milioni di persone, incluso il mio, il profondo significato del messaggio buddhista. In ultimo, consentimi di inserire tra i miei eroi di gioventù Roberto Benigni. Un eroe magari atipico, capace però di regalare momenti di grande riflessione e consapevolezza con i suoi personaggi, sempre animati da sentimenti coinvolgenti, divertenti e al tempo stesso drammatici. Un grande interprete delle debolezze e delle grandezze dell’umanità. Un eroe gioioso, ironico ma mai banale. Grande Roberto!».

Hai incontrato il maestro di pace Daisaku Ikeda a Tokyo nel 1993 e gli hai regalato la maglia numero dieci dell’Italia. La fede e l’impegno umanitario sono qualcosa di più grande della gioia, dei sogni e dei valori che hai trasmesso a intere generazioni giocando a calcio? Non credi che in fondo, se parliamo di sacrificio, sofferenza, felicità e buddhità, non ci sia separazione fra il tuo passato e il tuo presente?
«Abbiamo già parlato delle fortune che ho ricevuto e non posso quindi non considerare quali siano oggi le problematiche che affliggono il mondo. Per far fronte alle minacce globali, quali la fame, la povertà, i conflitti, la distruzione dell’ambiente – alle quali oggi si aggiunge la grande pandemia dovuta al Covid, che ha superato i confini delle singole nazioni mettendo a rischio la vita e la sicurezza degli esseri umani –, non posso fare a meno di collegare il passato e il presente. Da qui nasce il mio impegno per un futuro migliore. Questo è quello che ho imparato dalla pratica buddhista».

Esiste una parola, «cherofobia», che significa «paura della felicità». È una malattia vera, da cui però si può guarire. Attraverso il tuo percorso spirituale ci sei riuscito?
«Non bisogna avere timore della felicità, anche se capisco cosa vuoi dirmi. La felicità nasce dalla ricerca interiore, quotidiana. Può nascere anche da piccoli gesti, se riusciamo a riconoscerli e ad apprezzarli per davvero. Molto spesso la scala di valori che la frenesia del nostro mondo ci propone non è adeguata, non è reale. I giovani di oggi devono imparare a costruire una scala di valori differente, ognuno secondo la propria sensibilità, purché si tratti di valori profondi, non superficiali. Costruite sogni grandi, alti e poi rincorreteli con passione, con gioia, senza farvi spaventare dal sacrificio, anzi il sacrificio è una parola fondamentale per apprezzare davvero i diversi aspetti della vita. Non bisogna avere paura della felicità, ma delle conquiste che arrivano senza fatica, perché spesso sono effimere, illusorie. Certamente il mio percorso spirituale è stato, ed è tutt’ora, di grande aiuto nella comprensione dei fenomeni dell’esistenza umana. Il buddhismo definisce questo percorso di maturazione e di crescita “rivoluzione umana”».

Io credo che il rigore di Pasadena, di cui non mi pare utile parlare perché se ne è parlato semplicemente troppo, ti abbia reso ancora più forte spiritualmente. La mia canzone Nessuno vuole essere Robin, in fondo, racconta di questo, del fatto che tutti oggi ci mostriamo come i numeri dieci, credendoci dei campioni nella vita. Invece sbagliamo continuamente, spesso le cose più semplici. Quando non allunghiamo la mano verso gli amici o i famigliari. Quando rinunciamo ad amare e a gioire. Quando voltiamo le spalle di fronte alle sofferenze degli altri. Posso dirlo perché ho la fortuna di conoscerti, tu non ti sei mai tirato indietro. La generosità è parte del tuo stile di vita o un istinto di sopravvivenza per te?
«Quando prima parlavo di sacrificio, di cose ottenute con sacrificio, mi è venuto in mente il modo in cui sono cresciuto. La famiglia che mi ha educato con valori profondi. Queste radici le porti con te, poi le alimenti con gli affetti e con le amicizie che ti scegli. L’esperienza spirituale mi ha poi completato come uomo. Tutti sbagliamo, a volte ci capita di scivolare su qualche debolezza. È importante, però, anche in quei casi, restare focalizzati su se stessi, guardarsi dentro ogni giorno per poi imboccare una strada che conduce al fare del bene, all’essere giusto. Non puoi tradire i valori con cui sei cresciuto, e quei valori li onori anche lottando. Anzi, le battaglie sono continue, non puoi evitare o illuderti che non esistano. Guardare da un’altra parte quando vedi la sofferenza, ecco cosa vuol dire evitare di lottare. A me non è mai piaciuto».

Hai ricevuto riconoscimenti importantissimi per il tuo impegno umanitario, costante in questi anni. Sei stato in prima linea nella campagna di liberazione della leader politica birmana Aung San Suu Kyi, hai finanziato la costruzione di ospedali in giro per il mondo, ti sei impegnato personalmente per aiutare le popolazioni colpite dopo il terremoto di Haiti. È ancora vivo nella nostra memoria il tuo sguardo commosso tra le macerie del terremoto che ha colpito il Centro Italia nel 2016 e nel 2017. Quando ti sei accorto che esisteva un campo più grande in cui scendere? Com’è nato l’impegno sociale dentro di te?
«Come dice il maestro Daisaku Ikeda, le decisioni degli esseri umani determinano non solo il loro destino ma anche quello del resto del mondo. Noi siamo abitanti di questo mondo e quando sentiamo che possiamo dare il nostro contributo è giusto agire. Non è nel mio carattere cercare i riflettori, lo sai, però in qualche occasione è necessario e non mi sottraggo. In generale, però, preferisco vivere e offrire nel silenzio. In realtà non c’è mai stato un momento in cui mi sono detto “adesso tocca a te”, credo sia con me da sempre questo che tu chiami “impegno sociale”. Trovo giusto e naturale farlo. Non è una richiesta che mi nasce dalla testa, intendo che non è mai un calcolo: è il cuore che comanda, lo spirito che detta la linea. I valori della famiglia di cui parlavamo prima sono sempre con me, trovo quindi naturale portarli nel mondo, in ogni cosa che faccio».

Chi saresti oggi senza il buddhismo? Devi dire grazie a qualcuno per questo incontro spirituale?
«Bella domanda… Non so dirti cosa avrei potuto essere se non avessi incontrato il mio maestro Daisaku Ikeda. Certamente non avrei più potuto giocare a pallone a causa dei gravi infortuni e questo avrebbe significato molte cose. Magari avrei lavorato con mio padre in officina e sarei diventato un bravo fabbro oppure avrei potuto essere come tanti giovani desiderosi di conoscere il mondo e avrei viaggiato esplorando nuovi Paesi e popoli di altri continenti. Probabilmente, senza il sostegno della filosofia buddhista avrei vissuto diversamente anche il calcio. Non so quindi risponderti: questa meravigliosa pratica buddhista per me è stata anche una grande palestra di disciplina, determinazione, coraggio, fantasia e armonioso ritmo. In questo percorso buddhista, molti amici mi hanno incoraggiato e sostenuto nei momenti determinanti della mia vita. Se provassi a nominarli tutti ne dimenticherei qualcuno. Quindi mi permetto di citarne solamente uno, pioniere assoluto in Italia: Tadayasu Kanzaki (uno dei fondatori dell’associazione laica buddhista Soka Gakkai Internazionale, ndr). A lui sono legato da ricordi indelebili che rimarranno scolpiti nel mio cuore per l’eternità e a cui va il mio più profondo grazie per avermi consentito di conoscere Daisaku Ikeda. Oggi Kanzaki non è più con noi».

Ho scritto due canzoni che hanno segnato profondamente la mia carriera, ispirate direttamente o indirettamente dalla poesia del tuo calcio e del tuo stile di vita, che per me si traduce anche in una forma di pensiero filosofico. Una è Marmellata #25, va be’, dai, la conosci. L’altra è Nessuno vuole essere Robin. Ti dà fastidio questa cosa? Giuro che, se me lo chiedi, smetto di scrivere canzoni su di te!
«No, no, continua, non vorrei interrompere la carriera di un grande autore come te. In qualche modo, sentire quelle parole nelle tue canzoni è un po’ come rivedere i miei goal: la gente si emoziona, rivive quei momenti. Il calcio e la musica regalano grandi emozioni, e quelle emozioni sono parte importante della vita. Quando, per un motivo o per un altro, per capacità, per doni che ti sono stati regalati, generi queste sensazioni forse significa che hai fatto un ottimo lavoro. Perché crei positività nelle persone, regali stimoli continui. Vai avanti Cesare, continua come sai!».

Che musica ascolti? A parte il silenzio dei boschi e della natura in cui passi molto tempo, ovviamente.
«Da giovane ero innamorato degli Eagles, mi piaceva Renato Zero, poi sono diventato un fan accanito di Bruce Springsteen e di Zucchero. Lo sono ancora: quando sono in auto canticchio molte delle loro canzoni».

E i tuoi figli condividono?
«Non so se lo fanno per farmi piacere ma Bruce e Zucchero piacciono anche a loro… Tra l’altro, Zucchero è anche un caro amico».

A Bologna hai giocato una sola stagione, ma per noi tifosi è come se fossero state dieci. Non ti nascondo che provo e ho sempre provato una forte gelosia nei confronti dei tifosi bresciani che hanno avuto la fortuna di averti in città per più tempo. Cosa ha rappresentato Bologna e l’ambiente della mia città per te, in quel momento particolare?
«Bologna è stata una tappa molto importante della mia carriera. Una piazza speciale. Di Bologna comprendi subito che c’è una cultura calcistica, al di là della pura passione. I tifosi sono naturalmente esigenti, hanno visto passare grandi calciatori, con spiccate qualità tecniche. Questo è uno stimolo in più. Indossare la maglia rossoblù vuol dire rispettare la storia di quella squadra: è una grande responsabilità e non importa se non lotti per lo scudetto. Non credere siano parole di circostanza. Bologna mi ha dato molto, e sono contento di aver contribuito a una stagione con tante emozioni. Alla fine quelle rimangono, e valgono anche più dei titoli».

In questi giorni Maradona ha compiuto 60 anni. Molti tifosi, e non solo, hanno commentato questa ricorrenza dicendo che tu come sportivo sei stato dieci spanne sopra al Pibe de oro. Pensi che lo sportivo e l’uomo, con i suoi difetti e le sue contraddizioni, i suoi demoni e le sue qualità, debbano per forza coincidere? O, davvero, sono solo i risultati quelli che contano?
«Rimanere nel cuore della gente, ecco il risultato più grande per ogni calciatore, per ogni sportivo. Trasmettere valori positivi, regalare momenti di gioia, questo vale più di un risultato in campo, che qualche volta non arriva per un episodio sfortunato. Non voglio dire che non importano i trofei, alla fine giochiamo tutti per vincere, ma non è solo quello, non può essere solo quello. Vedere la luce negli occhi di tanti appassionati quando ricordano un tuo gesto, un tuo comportamento, una tua giocata: questo riempie il cuore. E rimane per sempre».

Oggi gli allenatori hanno un ruolo pubblico molto più importante rispetto al passato. Tu hai sempre detto, e io condivido, che sono sempre i calciatori a fare il calcio. Però, nella tua carriera, uomini e padri calcistici come Carletto Mazzone ti hanno preso per mano e aiutato. Ce n’è uno, tra gli allenatori moderni, per cui avresti voluto giocare? Che avresti reputato adatto a te?
«Il calcio è e rimarrà dei calciatori. Gli allenatori più bravi sono quelli che lo riconoscono e sanno trattare con onestà il calciatore, sanno parlargli, sanno mantenere il rispetto, sanno confrontarsi sulle questioni tecniche. Ecco, allora come adesso, mi piacerebbe avere un allenatore così: le conoscenze tattiche si possono apprendere con lo studio, quelle più difficili da trovare sono le qualità umane. Un allenatore attuale con cui avrei voluto giocare? Guardiola, credo sia il più bravo di tutti. Secondo me Pep porta in campo e trasmette il senso del gioco; i suoi giocatori ci mettono l’anima perché alla fine sentono di divertirsi, sono felici di giocare per lui, tornano in qualche modo nel campetto della loro gioventù. Guardiola sa riconoscere l’intimo, l’essenza del calciatore, perché nutre un rispetto totale per ogni singolo giocatore. È consapevole che è il calciatore a vincere le partite, e fa di tutto per metterlo in condizione di dare il meglio. Anche Conte mi fa divertire, lo conosco bene, è un bravissimo allenatore, ricco di contagiosa carica agonistica. Era così anche quando giocava, voleva sempre il massimo da se stesso e dai compagni. Un bellissimo esempio di chi sa cosa può offrire alla squadra e cosa chiedere. Antonio è il compagno di squadra che tutti vorrebbero avere: dedito al lavoro e di poche chiacchiere».

Stiamo vivendo un momento delicato. Da un lato terribile, per via della pandemia, dei morti che non si contano, delle difficoltà economiche degli italiani. Dall’altra parte, però, è anche un istante rivoluzionario, di quelli che potrebbero cambiare tante cose che prima del Covid non funzionavano. Un ritorno alla natura, alla sostenibilità delle risorse e, credo, anche alla forza attrattiva della fantasia. Torno da capo, ora, Robi. Non ti chiederò se ti manca il calcio, i compagni, il pallone, i tifosi. Torno da capo. Ti chiedo, non ti manca mai la fantasia del numero dieci?
«Stiamo vivendo momenti terribili. La generazione che ci ha insegnato valori alti e profondi viene portata via da questo virus maledetto. Spesso non possiamo nemmeno regalare l’ultimo saluto a queste grandi persone che, soprattutto con l’esempio, ci hanno insegnato a vivere. È davvero angosciante, anche perché ora è chiaro che le
persone anziane non sono le uniche a essere colpite. Oltre al dramma della malattia, della morte, c’è anche la condizione della vita che viene quasi sospesa, limitata: non potersi salutare con un abbraccio, nemmeno con una stretta di mano… Oggi più che mai c’è la necessità di guardarsi dentro, di trovare una forza interiore, non solo per andare avanti ma anche per farci riflettere su quello che siamo. Domandiamoci se agiamo per il Bene, per il Giusto. Troviamo il coraggio di emozionarci anche per piccoli gesti, viviamo con ancora maggiore intensità la famiglia, i figli, adesso che li abbiamo per più tempo a casa. Questa è la fantasia del numero dieci, oggi. Segnare un goal al Covid è uscire dalla pandemia con una nuova forza, una maggiore consapevolezza di quel che siamo. Lo so, è difficile, specie per chi ha vissuto il dolore indicibile del lutto. Ma è una battaglia che dobbiamo affrontare. Questo è il momento di avere molta fantasia senza perdere di vista cosa realmente possiamo fare. Qual è il futuro che vogliamo? I potenti della Terra, insieme alla gente comune, devono impegnarsi per sviluppare una visione chiara, il cui obiettivo è instaurare un rapporto ideale tra l’umanità e la Terra. È cruciale riuscire a diffondere la consapevolezza che siamo tutti vicini di casa su questo pianeta. Ed è ancora più importante che sempre più persone si sentano ispirate a lavorare verso questo scopo, sia individualmente sia unite e solidali. Come una vera squadra. Talvolta con la fantasia si vince. E noi tutti dobbiamo vincere sul senso di fragilità e di paura che questo ultimo anno ci sta regalando. La fantasia di un numero dieci nella vita per me è questo».