La lotta di Răzvan Lucescu: «Ah, ma tanto sei il figlio di Mircea»

by Alessandro Lunari

Immaginate essere il figlio di uno degli allenatori più vincenti nella storia del calcio. Un’icona, una leggenda, un mito riconosciuto ovunque e plasmato da un intreccio di narrazioni, trofei e l’interesse che la vostra personalità ha sempre generato. E poi ci siete voi: che da calciatore prima e da allenatore poi, lottate ogni giorno contro le voci e le pressioni. Perché semplicemente volete scrivere la vostra personalissima pagina di storia. Răzvan Lucescu ha combattuto per ritagliarsi il suo spazio e oggi ce la sta facendo: in Grecia, con il suo PAOK Salonicco e, prima di tutti, in Arabia con l’Al-Hilal. Ora manca solo una grande vetrina europea.

 

Crescere accanto a Mircea Lucescu

Se sei figlio di Mircea Lucescu, in un modo o nell’altro la passione per il calcio ti arriva. E così è stato anche per Răzvan. Da bambino e poi anche da ragazzo, è cresciuto al seguito del padre rubando con gli occhi, ascoltando le sue parole. A casa, ma non solo: «L’ho sempre seguito molto sia quando preparava gli allenamenti che le partite. Tantissime volte andavo anche negli spogliatoi delle sue squadre: è stato fondamentale per me respirare quegli ambienti, capire come creare un gruppo forte e come gestire tutto ciò che accade». Prima in Romania, poi in Italia Razvan e sua mamma seguono Mircea ovunque: «Mia mamma ha cominciato a vivere per lui, gli era sempre vicina. Con papà ho sempre avuto un ottimo rapporto. Che fosse in casa o in trasferta mi portava sempre: mi ricordo che su 34 partite di Seria A ne persi solo una in una stagione. Andavo con lui in albergo o al ristorante, anche prima della partita. Vedere calciatori, dirigenti, staff a pranzo e cena era un sogno». Per Răzvan presto diventa la normalità. Prima di tutto, però, veniva la scuola: «Non ho mai avuto problemi a scuola: mio padre mi obbligava ad andarci e a studiare. Ogni settimana mi diceva: ‘Gestisci bene la scuola e gli allenamenti, così poi ti porto con me nel weekend’. E io aspettavo solo quello. Da lì, ho preso l’abitudine a leggere, ad informarmi».

 

Il peso di un cognome: «Ah, sei il figlio di Lucescu»

La lotta di Răzvan per conquistarsi un proprio posto nel mondo inizia molto presto: «Non è stato facile. Se con mio padre è sempre stato tutto molto bello, là fuori ho sempre sentito il peso del mio cognome. Già a scuola, i compagni dicevano: ‘Ah, tanto vai bene solo perché sei il figlio di Lucescu’. Lo stesso succedeva con le mie prime ragazze o con quelli che credevo fossero amici. Invece, stavano con me solo per interesse. Non è stato facile, credetemi». Il peso di portare un cognome così importante ha influito sia nella vita privata che in quella professionale: «Anche nel calcio, ogni traguardo che raggiungevo era solo perché ‘ero il figlio di Mircea’. Sia quando facevo il portiere che quando ho iniziato ad allenare. Negli anni, spesso dalle tribune mi dicevano: ‘Chiama tuo padre! È tuo padre che li allena’. Per tutta la vita ho dovuto sentire queste cose. Ora mi considero più forte: è stata la motivazione a superare tantissime frustrazioni. Mi dicevo: ‘Devo avere la mia carriera’. Non ho mai pensato di poterlo superare, ma volevo far vedere alla gente che anch’io ero capace di far qualcosa».

Se hai la fortuna di nascere e crescere accanto ad un’icona del calcio, è giusto carpirne il più possibile a livello di capacità relazionale e insegnamenti tecnico-tattici: «È chiaro che il mio calcio si rifà molto alla filosofia di gioco di mio padre: amo il calcio offensivo, l’avere il controllo del match con il pallone. Ma il calcio si evolve e io ho dovuto imparare a curare anche altri dettagli: oggi si lavora di più sull’organizzazione dei reparti e sulla fase di non possesso. Mio padre era molto forte in fase d’attacco, spingeva molto. Io ho la stessa mentalità, ma curo anche la fase di pressing senza palla, cerco di dare equilibrio. Anche se lui era troppo intelligente: se fosse nato in un altro Paese, si sarebbe tolto ancora più soddisfazioni e avrebbe ottenuto più riconoscimenti. Era un grande lavoratore».

 

«Ora è lui che viene a vedermi». E intanto Răzvan sta scrivendo la storia con il suo PAOK… insieme a Taison

Da novembre Mircea non allena più. Ha dato le dimissioni dalla Dinamo Kiev dopo una sconfitta per 1-0 contro il suo vecchio Shakthar Donetsk. A distanza di anni, lui e Răzvan si sono invertiti i ruoli: «Ora viene spesso a vedermi. È stato quasi ad ogni match europeo. Gli piace riempirmi di consigli, anche dopo le partite. Io lo rispetto, ma quando sono ancora sotto stress è difficile ascoltarlo: ‘Dovevi fare così, oppure in quest’altro modo con quel calciatore’. Io cerco di stare calmo e penso: ‘Ok, ascoltalo… Răzvan ascoltalo». E non risparmia neanche i suoi giocatori: «Al PAOK alleno due suoi ex calciatori: Kedziora alla Dinamo Kiev e Taison allo Shakthar. Quando lo vedono in campo durante il riscaldamento, mi dicono sempre: ‘Oggi vinciamo, il mister è qua. Porta fortuna’. A fine match gliene dice di tutti i colori: ‘Dovevate fare così’. Quando arrivo, lo prendo sotto braccio e lo porto via: ‘Dai papà, lasciali stare sono stanchi. Andiamo’».

Taison è stato una delle colonne portanti del secondo Shakhtar Donetsk di Mircea Lucescu. Insieme, oltre a grandi prestazioni fra UCL ed EL, hanno vinto 8 titoli in Ucraina fra campionati, coppe e supercoppe: «Taison considera Mircea come un secondo padre. I calciatori brasiliani quando si sentono apprezzati e rispettati, ti danno tantissimo. Arrivano quasi ad amarti. È un ragazzo sensibile, attaccatissimo alla sua famiglia e all’immagine del padre. Quando è arrivato nel bel mezzo del campionato, mi sono trovato un po’ in imbarazzo: veniva da un periodo in cui si era allenato da solo in Brasile. Non potevo schierarlo subito titolare. È servito tempo, ma poi ha capito quanto lo apprezzassi. Adesso è come se fossi un fratello maggiore per lui».

Come anni fa con Mircea, ora Taison è a caccia di titoli con Răzvan. Il loro PAOK è uscito ai quarti di finale di Conference League perdendo nel doppio confronto con il Club Brugge. In Grecia, però, è ancora tutto aperto. Come sempre, ci si gioca il titolo contro le ateniesi: AEK Atene, Panathinaikos e Olympiakos: «Si gioca sotto una pressione tremenda: non potete immaginarlo. Sono tutti derby: è una questione di orgoglio, qualcosa che va oltre il calcio».

 

Răzvan e il suo PAOK stanno spezzando l’egemonia di Atene

A Răzvan l’impresa è già riuscita: nel 2018/19 ha riportato il suo PAOK sul tetto di Grecia a 34 anni di distanza dall’ultima volta. Per la terza volta nella sua storia. In realtà, però, anche il campionato precedente era stato vinto ‘sul campo’: «Nel 2017/18 ci hanno tolto il campionato penalizzandoci di 9 punti. In Grecia il peso politico di una società lo si sente: ci sono prima le squadre di Atene e poi tutte le altre. Anche l’anno in cui abbiamo effettivamente vinto il campionato, siamo partiti da -2. Quel PAOK aveva davvero un gruppo formidabile: a fine anno, ci siamo uniti ancora di più insieme al proprietario. Volevamo fare la storia di questo club. Siamo stati semplicemente i più forti. E poi c’era la motivazione della gente. Ricordo che i primi due mesi, non potevo uscire di casa. Sentivo una pressione negativa. Tutti mi fermavano per strada: ‘Quest’anno dovete vincere. Non se ne può più. Ci sono state generazioni intere che non hanno visto il PAOK vincere un campionato. Sono morti nonni, genitori senza vedere un altro titolo».

Dalle pressioni esterne, Răzvan è riuscito a tirar fuori il meglio anche per la sua squadra: «Il calcio in Grecia è speciale. Il sentimento per il PAOK è fortissimo, ma lo è ancora di più la rivalità fra Salonicco e Atene. Quando arrivi, percepisci quest’antagonismo anche sul piano economico e politico che sfocia in frustrazione. E da qui, nasce anche l’amore per il PAOK. Nel 2019 abbiamo fatto il ‘double’ con Coppa e Campionato senza mai perdere: 26 vittorie e 4 pareggi. Negli ultimi tre anni, poi, abbiamo raggiunto due volte i quarti di finale di una competizione europea. Stiamo scrivendo la nostra storia». Răzvan sognava anche di centrare la semifinale di Conference League: sarebbe tornato in Italia a distanza di molto tempo per sfidare la Fiorentina, passata contro il Viktoria Plzen. Sarebbe stata quasi la chiusura perfetta del cerchio: nei primi anni ’90, Răzvan ha giocato a Crema fra i dilettanti una stagione, mentre suo padre allenava già in Italia fra Serie B e poi Serie A. «Seguo sempre il calcio italiano. Guardo molte partite di Serie A, mi rilasso. E poi la scuola italiana è la migliore. Nel mio staff ho sempre avuto vari collaboratori italiani: nel 2005, ho conosciuto Longo che mi ha seguito in Romania ed è stato con me per 15 anni. Grazie a lui, ho conosciuto Bacci, Spadafora e Castorina».

 

L’Arabia, prima che andasse di moda

Dopo il titolo in Grecia con il PAOK, Răzvan sceglie l’Arabia Saudita. Ben prima del boom mediatico e del calciomercato faraonico. In meno di due anni vince tutto con l’Al-Hilal: campionato, coppa e Champions League asiatica. «L’Arabia Saudita è stata una vera sorpresa. Prima di andare lì, avevo sempre pensato: ‘In Iran e in Arabia non voglio allenare’. Non so perché avessi questi pregiudizi. Ma invece ho trovato un gruppo di calciatori sauditi di altissimo livello e con una grande mentalità. Lavoravano come matti. E poi sono stato fortunato: c’erano Giovinco, Gomis, Eduardo Carlos e un difensore sudcoreano fortissimo, Hyun-soo Jang». Un mix perfetto con cui vincere tutto in un periodo molto complicato come quello del Covid.

«Ricordo che il campionato venne interrotto a marzo, a 8 giornate dalla fine. Si riprese ad agosto, ma già a luglio iniziamo ad allenarci. In quella fase dell’anno, in Arabia fa davvero molto caldo: in alcune ore si toccano i 50°. Per colpa della pandemia non potevamo fare la preparazione in montagna o in Europa e così siamo rimasti a Riyad». Per combattere il caldo atroce, Răzvan e il suo staff trovano uno stratagemma: «Le altre squadre si allenavano la mattina alle 11 in palestra e la sera verso le 20 in campo. Noi, invece, abbiamo deciso di fare entrambi gli allenamenti in campo: una prima sessione alle 6 di mattina, quando la temperatura era ancora decente, e poi l’altra attorno alle 20 ».

Una preparazione diversa che ha dato però i suoi frutti portandoli al successo. E incredibilmente tutti ne erano convinti, anche i più scettici: «Ricordo che Giovinco venne da noi: ‘Sono il primo a sostenervi. Farò tutto, senza mai dire una parola. Ma sappiate che se non vinciamo il campionato, sarò il primo ad ammazzarvi’. Scoppiammo tutti a ridere. Giovinco è una persona con una mentalità straordinaria: è forte, un professionista esemplare e un amico. Lo volevo portare al PAOK, ma non siamo riusciti a chiudere, peccato. All’Al-Hilal avevamo tutti la stessa voglia. Nessuno ha mai detto: ‘Dai mister, è troppo presto. Io a quest’ora dormo di solito’. Eravamo tutti coinvolti al 150%. L’Arabia mi ha sorpreso nella miglior maniera possibile: per cultura del lavoro, per organizzazione del club e per qualità della vita. La gente era sempre molto carina con noi stranieri. Erano sempre attenti a come stessimo, un vero spettacolo».

 

L’Italia sempre in mente… e quella scaramanzia

Romania, Grecia, Arabia. Răzvan ancora non ha avuto modo di allenare in Italia. In futuro, chissà. Per ora pensa al suo PAOK, ma il suo legame con il nostro Paese è sempre vivo. Studia, osserva, impara e segue con passione dai tanti grandi allenatori italiani: «Amo Claudio Ranieri: lo ricordo al Valencia, poi l’impresa con il Leicester e quell’annata spettacolare con la Roma. Arrivò a campionato già iniziato: da -14,  riuscì a giocarsi il titolo con l’Inter. Poi stimo Allegri: ora è molto criticato, ma non dimentichiamoci ciò che è successo l’anno scorso. Non è facile ripartire dopo un -15. Spalletti, Conte, lo stesso Roberto Mancini: sono stati sempre tutti d’ispirazione. E Ancelotti? Cosa vuoi dirgli? Però ora ho un debole per le squadre di Guardiola: è un genio. Mi fa davvero divertire. Lui è il mio idolo oggi, come da giovane lo era Maradona. Ho sofferto e pianto per lui negli anni. Ho tifato Argentina, Barcellona, Napoli come un pazzo. Avevo un suo poster in stanza: gli parlavo, gli chiedevo consigli. Ero un po’ matto, forse».

Quel ragazzo cresciuto sognando Maradona ora è diventato un uomo con una folle passione per il calcio: «Sono uno che motiva moltissimo i suoi calciatori. E poi sono scaramantico. Penso che tutti gli allenatori lo siano. Credo nasca dal volere essere certi di aver fatto tutto, ma proprio tutto, per preparare la partita: non vuoi lasciare nulla al caso. E così, pensi: ‘Devo prendere queste scarpe perché l’altra volta mi hanno portato fortuna’ e così via».

 

«Se volete non credetemi, ma io l’avevo detto: ‘l’Italia vince Euro2021’»

Prima di PAOK e Al-Hilal ha allenato anche la Nazionale rumena. Dopo aver saltato l’ultimo Europeo, la Romania si appresta a giocare l’edizione in Germania nel gruppo con Belgio, Slovacchia e Ucraina. Un girone equilibrato dove la formazione di Iordănescu può essere l’outsider: «I calciatori romeni hanno talento. Ciò che manca è l’educazione all’affrontare le difficoltà, a sopperire alle frustrazioni. I romeni vivono intensamente le sfide con le altre squadre europee, attorno alla Nazionale c’è grande entusiasmo. Nei calciatori cresce una motivazione folle. L’Ucraina è forte, con calciatori in top club europei, la Slovacchia ha un allenatore italiano ed è sempre un fattore, mentre il Belgio… è il Belgio: credo sia fra le 4 favorite. Ma l’atmosfera conta molto». E il riferimento all’Italia del 2021 arriva subito: «Guardate la vostra Italia. Prima dell’Europeo, fui invitato ad una trasmissione dove mi chiesero: ‘Chi vince secondo te?’. Risposi: ‘L’Italia’. Erano tutti increduli. Pensavano a Germania, Inghilterra, Spagna, Francia e perfino Portogallo. Ma io seguo e leggo i giornali italiani tutte le mattine da 12 anni: avevo capito che ci fosse un gruppo differente, un entusiasmo diverso. Calciatori, allenatore, staff, perfino i giornalisti: c’era un grande senso di responsabilità. Forse non erano la squadra migliore, ma di sicuro quella con più forza mentale. E con quella arrivi ad imprese del genere».

Intanto, il calcio romeno sta provando a crescere e a colmare il gap con il resto d’Europa: «Prima degli anni ’90, con il comunismo, in Romania c’era un altro tipo di educazione. Siamo cresciuti senza grande fiducia, con una mentalità molto difensivista anche nel calcio. È sempre mancata la cura nei dettagli, lo studio analitico del calcio. Si sente sempre dire ‘il calcio che conta’ e ‘l’altro calcio’: ed è vero. Ma questo influisce su tutti noi. Per questo dicevo: se papà fosse cresciuto in un altro Paese, come poi da calciatore e allenatore ha fatto, sarebbe stato di un altro livello». Intanto, Mircea è diventato uno dei tecnici più vincenti della storia del calcio. Răzvan sta scrivendo la sua partita dopo partita. Ora non serve più mettere a tacere le voci, lui c’è e come. Chiedere in Grecia, per conferma. Dove c’è un Lucescu che sta facendo sognare un popolo intero. Ancora una volta.