Donadel: «Ora alleno io. Il problema del nostro calcio? Vivai indietro 20 anni»

by Lorenzo Cascini
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Il Marco Donadel allenatore nasce in una stanzetta a Montreal, in Canada, grazie a una lavagna e ventidue pedine. È la vigilia della finale d’andata di Mls e il mister lo chiama in sala riunioni. ‘Sto decidendo come impostarla ma ho molti dubbi, tu che sei sempre in mezzo che ne pensi?’. Così Marco inizia a muovere i giocatori, tra schemi e letture tattiche. «Era come se avessi già visto la partita. Vincemmo 3-2, dopo essere stati in vantaggio di tre gol e in totale controllo». Segnali da predestinato, come se lo facesse da sempre. «La sensazione è stata quella lì». Pomeriggio spartiacque che spiana la strada al futuro e fa vedere una luce.  L’obiettivo ora sarà quello di seguirla. «Spero in un progetto che mi stimoli e creda in me. La mia squadra giocherà un calcio offensivo, con ritmo e dinamicità come parole d’ordine». 

«Capisci che intendo quando dico che non vogliamo crescere?».

Donadel intanto viaggia, studia, ruba con gli occhi e assorbe come una spugna. Tre anni nelle giovanili della Fiorentina, uno in prima squadra da collaboratore tecnico di Prandelli e Iachini, poi sei mesi allo Spartak Mosca da vice di Paolo Vanoli. Appena si entra nell’argomento, va subito dritto al punto: «La salute calcistica di un paese parte dai settori giovanili. In Italia siamo fermi, indietro di vent’anni e restii al cambiamento. Spieghiamo tanto e facciamo poco. Nel resto d’Europa vanno a mille all’ora, sbagliano, sperimentano e alla fine ottengono risultati».  Poi una fotografia. «Hai presente la stanza dei trofei dell’Ajax? Non ci sono tanti trofei vinti a livello giovanile, ma ci sono le foto di tutti i giocatori che sono arrivati in prima squadra. E la parete è piena. Perché lì, se hai 15 anni e sei forte, giochi con quelli di 18 non con i tuoi coetanei. Vedi poi come si capisce quanto vale il ragazzo. Da noi invece i ragazzi più bravi vengono coccolati, si punta a vincere il campionato di categoria. Poi novanta volte su cento alla prima esperienza fuori si fallisce, perché non si è abituati». Questione di ritmi, carattere e capacità di adattamento. «Non voglio generalizzare, ma quando vai fuori te ne rendi conto. Il calcio va al doppio della velocità, ma soprattutto ci si allena almeno dieci ore in più a settimana. È questo che fa la differenza» Polaroid dal mondo che fanno riflettere.

C’è però un altro punto su cui Marco si sofferma prima di voltare pagina. «All’estero i ragazzi hanno voglia, lottano su ogni pallone ma soprattutto hanno fame di arrivare. A quattordici anni prendono e partono. Guarda i croati, gli argentini o i brasiliani, dovunque li metti stanno. Si buttano, giocano a tutto campo, gli allenatori gli insegnano a fare tutto, non solo un tipo di calcio. Imparano a dribblare, senza limiti, a rischiare la giocata. Da noi si punta al risultato, a vincere il campionato, non a migliorare. Capisci che intendo quando dico che non vogliamo crescere?».

Donadel e quei gol da portare nel cuore

Donadel poi si ferma, fa una rovesciata indietro e cambia veste. Dalla panchina al campo. Sempre in mezzo, una vita da play a dettare tempi, dare equilibrio e tappare buchi. «Quanti ricordi da giocatore! Potremmo parlare per una settimana». Parma, Sampdoria, sei anni a Firenze, Napoli, Verona e Montreal (Canada), esperienza di quelle che ti restano per la vita e vanno oltre il pallone. «Alla Fiorentina ho passato anni d’oro, vivo ancora a Firenze. È una città che porto nel cuore, da una tifoseria unica a una squadra che vinceva e faceva divertire». La sua viola la racconta con un’immagine. «Noi che corriamo tutti ad abbracciare Santana dopo un rigore decisivo a Goodison Park contro l’Everton. Era stata una battaglia, vinta grazie alla forza del gruppo. Quello credo fosse il nostro segreto». Poi Marco pesca dal mazzo un’altra cartolina. «C’è un gol fatto a Montreal che per me vale tantissimo, ma non per la partita in sé. Erano infatti più di tre mesi che non vedevo la mia famiglia, segnai e corsi in tribuna a baciare mia figlia». Non aggiunge altro, anche perché mentre lo racconta gli si rompe la voce dall’emozione. Calcio ma non solo calcio.

Da Drogba ad Hamsik e Mutu, il finto bad boy che non voleva mai perdere

In oltre diciassette anni di carriera di compagni fenomenali ne ha avuti a bizzeffe. Dagli esordi nel Milan di Sheva&co, alla Fiorentina di Mutu e al Napoli di Hamsik e Cavani. Fino a Montreal con Drogba. «Didier è il numero uno in assoluto, era uno a cui bastava uno sguardo per farsi capire. Ma ti dico che il più forte di tutti per me era Marek, ogni volta che lo guardavo imparavo qualcosa. Talento, leadership e personalità. Era una bandiera già a 25 anni, spero possa tornare a Napoli un giorno, magari da dirigente. Chiuderebbe un cerchio». Poi una postilla su Mutu, un 10 di talento e lampi, almeno nei suoi anni a Firenze. «Non posso non citarlo. Era un fenomeno in campo, ma si pensano tante cose sbagliate su di lui dal punto di vista personale. Ha sempre avuto questa fama del bad boy, forse un po’ gli piaceva anche, ma non è così te lo assicuro. In allenamento era il primo a guidare il gruppo, a organizzare le cene ed era sempre protagonista in spogliatoio. Non voleva mai perdere neanche nelle partitelle, vedessi come si incazzava. Urlava, correva per due, dava tutto».

Durante la chiacchierata Donadel ribadisce più volte quanto in tante delle sue esperienze la forza sia stata il gruppo. «Sia a Firenze che a Napoli siamo andati oltre i nostri limiti, grazie alla squadra, allo spogliatoio e agli allenatori che abbiamo avuto. Con molti compagni ci vediamo ancora ed è impossibile non parlare di calcio. Ognuno vede le cose a modo suo, io non ho paura di esporle e di dire come la penso». Magari ricordando quella stanzetta a Montreal, nadir di un percorso che spera lo possa portare lontano. Basterà crederci, le idee sono già chiare.