Marco Micaletto a Cronache: «Il calcio negli USA tra college, aerei e…»

by Redazione Cronache

di Gabriele Codeglia

Il sogno di diventare calciatore, indipendentemente da come e dove. Una vita lontano dall’Italia, da Roma, dove è nato il 19 gennaio del 1996. Prima oltremanica e poi oltreoceano. Marco Micaletto oggi è il numero dieci del Tormenta FC in USL League One (terza divisone professionistica, ndr), squadra della cittadina di Statesboro, in Georgia, nella East Coast americana.
Un calcio completamente diverso dal nostro, per cultura, mentalità, filosofia. Un mondo ancora in gran parte inesplorato, etichettato, spesso e volentieri marchiato da pregiudizi e stereotipi senza averlo mai vissuto e conosciuto in prima persona: semplicemente perché per noi ‘calcio’ e ‘Stati Uniti d’America’ sono due rette parallele che non si incontreranno mai.

Per questo, noi di Cronache abbiamo posto qualche domanda a Marco Micaletto per cercare di capire, esplorare nei limiti, una realtà così distante, sia fisicamente che ideologicamente.

Da dove parte il viaggio di Marco Micaletto?

«Mi sono trasferito in Inghilterra quando avevo 8-9 anni, per motivi di lavoro di papà. Ho sempre avuto l’ambizione di giocare a calcio. Per alcuni anni ho giocato nel settore giovanile del Southampton e poi in quello del Brentford, dove sono rimasto per tre anni. A diciassette anni, quando era arrivato il momento di firmare il nuovo contratto, mi hanno lasciato a piedi. Ho concluso il percorso scolastico, gli ultimi due anni, tentando di tornare nelle giovanili di una squadra professionistica ma senza riuscirci, tra vari provini, anche con il Nottingham Forest».

Ed in quel momento arriva la proposta dagli Stati Uniti…

«Un mio ex compagno di squadra studiava in America e mi disse: ‘Ma perché non vieni anche tu a giocare qui?!’. All’inizio non conoscevo la realtà calcistica degli Stati Uniti. Parlai con l’allenatore del mio amico, uno scozzese che capiva poco il mio modo di vedere e intendere il calcio. In ogni caso ho accettato questa borsa di studio senza pensarci troppo, allo Young Harris College, in Georgia. Negli ultimi anni hanno lanciato cinque o sei ragazzi che oggi giocano tra i professionisti: è stata una scelta di ‘culo’, ma perfetta».

In Italia, i famosi provini o casting per entrare a far parte dei college americani, e quindi della relativa squadra di calcio, non sono visti molto di buon occhio. È giusto pensarla così?

«Normalmente servono per ‘fare cassa’, per i college americani. Le università più serie e importanti, se vogliono un ragazzo, lo puntano, lo seguono, lo scelgono proprio».

Il calcio, anche quello giovanile, a stelle e strisce è molto diverso da quello che conosciamo?

«All’università hai 4 stagioni ‘a disposizione’ per giocare nel campionato dei college e poi, una volta finita la borsa di studio… ti cacciano. In Georgia, alla Young Harris, il campionato è di Division 2, a livello ‘regionale’ ovvero si gioca contro altri college di Florida, Carolina del Nord e del Sud, Alabama e Tennessee. Poi se vinci o ti qualifichi, passi al girone nazionale. Comunque, conclusi i primi i tre anni, con la laurea, scelsi di andare in Division 1».

Come riportato dal sito usacollegesport.com, in America, il sistema sportivo universitario è diviso in 3 leghe diverse: NCAA, NAIA e NJCAA. Le prime due sono leghe che accolgono college ed università della durata di 4 anni che, una volta finiti, danno accesso ad un bachelor degree. L’NCAA è la lega di cui fanno parte circa 1200 università. Questa è divisa in tre divisioni (D1, D2, D3) e offre 23 sport. Solo le D1 e D2 offrono borse di studio ai loro atleti che sono più di 126.000. Ogni anno la NCAA (National Collegiate Athletic Association) offre più di 1 miliardo di dollari in borse di studio sportive.

«All’inizio, essendo in Division 2, credevo che quello fosse il top: centro sportivo, staff, attrezzature. Ti danno qualsiasi cosa, anche gli scarpini: ti senti un professionista. Però, dall’altro lato, devi continuare a prendere certi voti altrimenti perdi la borsa di studio e secondo me, come sistema, è eccezionale.

Per l’ultima stagione scelsi appunto l’università di Akron, in Ohio, nella città in cui è cresciuto Lebron James, per capirci. Credo sia una delle migliori a livello calcistico, anche perché da lì sono usciti molti giocatori di alto livello. Mi aprirono letteralmente gli occhi, per le infrastrutture che hanno, tant’è che molte squadre della Serie A italiana si appoggiano lì quando vengono per le tournée. Qui ci sono centri sportivi, pari, per qualità, se non migliori di quelli che hanno le società di Serie A. Ma poi il budget a disposizione di questi college: infinito. Viaggi con l’aereo privato…»

Ecco, ma il budget da cosa deriva?

«Nel caso di Akron, la squadra di basket è molto famosa e importante. Ma poi anche le sezioni relative al baseball o al football, con quelle si possono far fruttare molti soldi con questi che vengono ridistribuiti agli altri sport dell’Università. L’allenatore lì era un americano, Jared Embick, secondo me, calcisticamente un genio, che però faceva fatica a instaurare un rapporto umano degno con i propri giocatori».

Come lavorano gli allenatori di calcio negli Stati Uniti?

«C‘è grande enfasi e ci si concentra molto sul lavoro fisico da far svolgere ai ragazzi che, secondo me, non è normale. Se tu guardi un giocatore americano, è alto, fisicato, veloce, magari sono dodici o tredici anni che fa palestra. È una questione culturale anche perché tante volte questi ragazzi che giocano a calcio, invece, sono cresciuti praticando il football, o il basket, o il baseball, e lì si fa tanta palestra. Così, questa filosofia è stata trasportata anche nella formazione calcistica. Nello spogliatoio è sempre facile riconoscere chi è americano, da chi non lo è, basandosi proprio sull’aspetto fisico e la muscolatura».

Ed è poi chiaro che tutto ciò influisca anche l’aspetto relativo alla tattica e al gioco sul campo…

«Assolutamente sì. Non c’è tattica, non esistono molti schemi. Ad esempio, figure come i match analyst cominciano a vedersi, ma per la maggior parte negli staff delle squadre dei college, meno in quelle professionistiche. Diciamo che spesso ci si concentra su aspetti sbagliati, secondo me, come la velocità su uno scatto lineare di quaranta metri. Sono parametri che nel calcio contano relativamente, ma qui vengono messi in primo piano. Ogni partita è una battaglia: chi corre di più, chi regge di più e poi riesce a buttarla dentro. Secondo me la mentalità calcistica qui è molto indietro rispetto a quella europea, però piano piano sta cambiando e si riesce a formare giocatori con grandi potenzialità, che hanno tutto per poter far bene anche in Europa. Basti vedere, per ultimo, Reynolds, acquistato dalla Roma. Ci ho giocato contro sia l’anno scorso che anche quello precedente ancora, era nel mio stesso campionato. Giocava per il North Texas, la seconda squadra del Dallas FC, in MLS. Anche lui è grosso, veloce, rapido: lo porti in Europa, gli dai un paio di anni per ambientarsi e poi le condizioni per poter far bene ci sono tutte. In sintesi, qui prima si crea l’atleta e poi il calciatore».

Ma a 25 anni, nel calcio americano, Marco Micaletto è ancora considerato giovane oppure no?

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