Marco Micaletto a Cronache: «Il calcio negli USA tra college, aerei e…»

by Redazione Cronache

«In Europa sei nel pieno della carriera, a quell’età, devi aver già dimostrato qualcosa se vuoi stare a un certo livello. In America è diverso perché il college lo concludi a ventidue anni e quindi fino ai 25-26 sei ancora considerato un giovane. Poi ci sono i ragazzi ancora più giovani, che iniziano prima a un determinato step, ma semplicemente perché giocano per le Academy dei club professionistici e quindi non vanno all’università».

Si guadagna bene in una squadra di terza serie americana? Ci sono regole precise, salary cap, vincoli…?

«Per la USL League One non esistono vincoli. Quelli ci sono in MLS, perché i club hanno più disponibilità economica. Nella mia divisione, le squadre hanno un budget inferiore, si passa da un minimo di 1.200 a un massimo di 5.000-6.000 dollari al mese, ma è tutto netto: ti pagano la casa».

Lì in America, il calcio europeo ha un certo fascino? Viene seguito con interesse?

«Diciamo di sì, ma più che altro la Champions League e la Premier League, soprattutto. Si riesce a vedere qualche partita di Bundesliga su Fox, mentre la Serie A viene trasmessa da ESPN. Io sono romanista, sfegatato proprio, e paradossalmente mi riesce più facile seguire la Roma quando sono qui in America, rispetto a quando torno in Italia».

Il Vecchio Continente è visto come un punto di arrivo dai ragazzi che giocano a calcio? E l’MLS invece?

«Assolutamente sì: se un giorno arriverai in Europa, sostanzialmente vorrà dire che ce l’avrai fatta. Mentre l’MLS, ad oggi, è più un punto di passaggio. Però, in generale, credo che il calcio qui in America venga molto sottovalutato. In tanti ci stanno dormendo sulla qualità che si trova qui. Io ero il primo a pensare che negli Stati Uniti fossero tutti ‘ciucci’, però mi son reso conto che il livello non è poi così basso eh… Anzi, mi piacerebbe tanto provare con una squadra di Serie B per una settimana o due, per vedere, per confrontare, per capire quale sia la differenza. Perché a volte mi capita di guardare certe partite e pensare: ‘No, dai, non ci può essere poi così tanto divario…’. Però, in verità, tanti ragazzi, compagni di squadra, che ho incontrato e conosciuto, vedono anche soltanto il college come punto di arrivo e lo ammettono proprio, che ad esempio giocare per Akron era la loro più grande ambizione. Poi se riusciranno ad arrivare ad alto livello, bene, altrimenti troveranno altre strade oltre il calcio».

E, invece, la differenza si nota anche soltanto tra la USL League One e la USL Championship (seconda divisione, ndr)?

«In parte sì, in parte no. Tanti giocatori di terza serie potrebbero stare tranquillamente in formazioni della categoria superiore. Il problema principale, che è anche il più importante secondo me, è che dalla USL League One non si può né essere promossi, né venire retrocessi. Non c’è ricambio, esiste questa barriera mentale: vieni valutato o come giocatore di una certa categoria o di un’altra. L’unico momento in cui puoi veramente confrontarti, è quando giochi la Coppa nazionale. Allora sì, come in FA Cup, puoi affrontare squadre di qualsiasi livello e farti un’idea. Purtroppo però, le squadre di seconda divisione, che godono di ben altri budget, preferiscono acquistare giocatori di altra caratura, magari più anziani, con un passato e una certa esperienza alle spalle e non guardano, invece, alle serie inferiori in America. Un po’ come successo con Luca Antonelli, che ha firmato per il Miami FC».

Per quanto riguarda il discorso procuratori, anche a livello giovanile, come funziona negli Stati Uniti?

«Qui è vietato avere un procuratore quando sei al college: se ti beccano, sei fuori. Infatti, quando tu giochi la tua ultima partita con la squadra dell’università, immediatamente dopo ti arrivano tantissimi messaggi di agenti che ti chiedono di collaborare e lavorare assieme, proponendoti la loro procura.
Oggi il mio agente è Brad Rusin, il quale lavora per l’agenzia Base Soccer: gestiscono giocatori come Ramsey, Son. Ho un contratto di due anni con il Tormenta FC, con opzione per il terzo. Però la grande maggioranza degli accordi, qui, non va oltre l’anno di contratto e alla fine della stagione rimani svincolato. Per questo le rose di una qualsiasi squadra, ad esempio degli ultimi cinque anni, sono molto diverse tra loro. Per capire qual è la filosofia in America: io ho una clausola di 25mila dollari, da contratto, però nessuno negli USA la pagherebbe mai, semplicemente perché i cartellini dei giocatori ‘non esistono’, ma si parla di ‘free agency’, ovvero che ti prendo solo quando sei a fine contratto. Nessuno aveva mai firmato un contratto di tre anni in USL League One prima di me, perché è così. Qua si preferisce diventare ‘free agent’ per ridiscutere il contratto o cambiare società, vivendola più stagione per stagione. Io l’ho detto al mio procuratore: ‘Il mio sogno è tornare in Italia, non mi interessa giocare in Europa in generale’. L’anno scorso avrei potuto firmare per una squadra di seconda divisione francese, ma non mi interessava. Qui la vita è troppo bella…».

Bella quanto e perché?

«Le trasferte sono le settimane più belle dell’anno: quando vai a Toronto, a Dallas. Anche il college mi ha portato dappertutto: a Los Angeles, Stanford University, Santa Clara, Santa Barbara. Sono esperienze inestimabili. Anche la vita in generale, qui a Statesboro, costa pochissimo rispetto agli standard americani, ma anche in confronto all’Europa. E poi c’è il sole, che per me conta tantissimo: non mi piace abitare dove il cielo è grigio e piove sempre. Puoi visitare grandi città e ormai ho acquisito questa mentalità americana per cui tre ore di macchina sono niente. Pigli, prendi, vai in Florida, ti passi mezza giornata, vai in spiaggia, e poi alla sera torni a casa. È molto facile vedere e visitare l’America quando ci vivi».

Come mai vorresti tornare soltanto in Italia e non andare a giocare in un altro Paese?

«La mia famiglia vive lì. Se lascio e parto, lo faccio solo per quello. Mi piacerebbe giocare magari in Serie B, se arrivasse un’offerta giusta».

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