Da Palermo a Gibilterra, Di Piedi il giramondo: «Io, la Birmania e gli spari di Caracas»

by Francesco Pietrella

Michele Di Piedi cammina senza mai sbuffare. Lo fa da una vita, a testa alta, da Marco Polo del pallone. Venezuela, Myanmar, Lituania, Norvegia, Inghilterra. Dopo aver girato il mondo si è fermato a Gibilterra. Colonne d’Ercole. E se gli chiedi dove si vede tra 10 anni si fa una risata: «Non so neanche se domani sarò vivo, vivo giorno per giorno». Quando gli domandi della Birmania, invece, si fa serio: «Quando giocavo lì ho visto la povertà vera, credimi. Per questo ho rinunciato a un hotel a 5 stelle per abitare vicino al mercato, in mezzo a gente che non aveva nulla, e sorrideva lo stesso». 

(Di) Piedi alle Colonne d’Ercole

Un anno a Naypyidaw gli ha cambiato la vita, un altro a Caracas gliel’ha stravolta in negativo. «I tifosi entravano negli spogliatoi incazzati neri e ci dicevano di tutto». Meglio non indagare. Punta veloce e tecnica, Michele ha smesso a 40 anni la stagione scorsa: partito da Palermo, ora si è fermato a Gibilterra, manager alla Ferguson del Glacis United: «Gestisco la squadra, vado a vedere i giocatori, scovo talenti, alleno. Come Sir Alex dai». L’anno scorso ha perso la Rock Cup contro il Lincoln Red Imps, prima squadra di Gibilterra a qualificarsi in Conference League. «E spendono il triplo. Tempo al tempo però, arriviamo anche noi». Ambizione e fame, Michele vive a Marbella con la famiglia, poi attraversa il confine e allena i suoi sotto la rocca, crocevia di culture e scrigno di storie. Si dice che se le scimmie dovessero lasciare il promontorio, allora lo faranno anche gli inglesi. Francesi e spagnoli, nei secoli, hanno provato a conquistare la rocca decine di volte. Non ci è mai riuscito nessuno. «Conosco la storia del Paese e mi piace. Il mio sogno è arrivare in Europa con il Glacis». 

Lo Champagne di Edmundo

Michele si è fermato ai confini del Mediterraneo dopo una vita a cento all’ora. «A 25 anni mi sono rotto la tibia in 4 punti, ho avuto vari infortuni. Qualcuno disse che ero finito, ma ho continuato fino a 40». Suo figlio Francesco ne ha 18, gioca nel Glacis e fa la punta come il padre. «Lo tengo d’occhio da lontano, nessuna pressione». Altra storia la sua. Da ragazzino giocava con Emanuele Calaiò, poi è stato catapultato nella Fiorentina di Rui Costa, Batigol ed Edmundo. Animal dal cuore d’oro: «Un pazzo scatenato. A volte portava pasticcini e Champagne nello spogliatoio per festeggiare non si sa cosa. Io ero un ragazzino della Primavera nel Paese dei Balocchi». A 19 vola a Perugia con Mazzone: «In allenamento vedevi una persona, un padre burbero dai modi duri, poi in partita si trasformava». Dopo un gran Mondiale Under 18 lo nota lo Sheffield Wednesday, e l’animo da giramondo lo porta in Inghilterra a soli vent’anni, da solo. «Impatto devastante. Venivo dal Sud, lì faceva freddo e pioveva sempre. Non parlavo inglese, conoscevo poche persone, il cibo era strano. Partii come sesto attaccante, ma alla fine diventai titolare. Qualche anno fa lo Sheffield mi ha inserito nel libro sui calciatori stranieri più importanti della storia del club. Una vittoria di cui vado fiero. Il bello è che tre anni prima giocavo in Eccellenza con il Siracusa». 

«La Birmania mi ha cambiato»

Dopo Norvegia, Cipro e Inghilterra rientra a casa per motivi familiari.  Sua moglie Veronica ha bisogno di una mano in più, lui gliene porge due. Rinuncia perfino alla sua passione, e tra il 2007 e il 2013 gira il Sud Italia: Nuorese, Castrovillari, Milazzo, Nardò, Rende, Vigor Lamezia. Mai fermo: «Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Non era il mio mondo, e il problema ero solo io. Non mi divertivo più». La Birmania l’ha salvato: «A 33 anni mi sono rimesso in gioco. Andai a Singapore con centinaia di giocatori in prova. Dissi al mio agente di non far sapere chi fossi, volevo dimostrare a me stesso e agli altri di poter ancora dire la mia. Dopo un paio di settimane avevo tre offerte. Alla fine accetto il Nay Pyi Taw, squadra di Naypyidaw, la città dei re. A fine anno segno 13 gol e vinco il titolo di miglior giocatore». Ma non è ciò di cui va più fiero: «Spesso ci lamentiamo per cazzate e non ce ne rendiamo conto. Lì il Paese è diviso in ricchi e poveri, non c’è la classe media. Passeggiando per strada ti rendi conto di chi non ha un soldo per mangiare, e nonostante tutto affronta la vita con serenità. Questo mi ha colpito e cambiato, tant’è che dopo un po’ ho rinunciato ai confort per vivere in città. Una volta regalai una maglia a un tifoso, ma lui rifiutò. ‘Mi basta parlare con te e darti un abbraccio’, disse. Se ci penso ho ancora i brividi». 

La vita tosta in Venezuela

Dopo la Birmania firma con il Persib di Bandung, sull’isola di Giava, Indonesia, di proprietà di Erik Thoir, ma rescinde dopo 4 mesi perché la federazione si era divisa in due leghe: «Non volevo giocare in un campionato non professionale, così sono andato ai Metropolitanos di Caracas». Il primo italiano a giocare in Venezuela. «Non lo rifarei. Giocavo con la sigaretta in bocca lì, ma di notte sentivi spari e colpi di mitra. Per le strade era un casino, la vita era difficile, non potevo far vivere la mia famiglia in un contesto simile, così ho ricominciato a girare». Gibilterra, Portogallo e ancora la Rocca, dove ha smesso nel 2021. «Il calcio mi ha dato tutto. Parlo inglese, spagnolo e un po’ di portoghese, ora mi dedico a questo progetto. Ho portato anche qualche italiano. Uno di loro, Stefano Borghi, è davvero bravo. Un paio di giocatori fanno altri lavori: uno in banca, un altro nei vigili del fuoco. Qui va così, ma ormai il calcio è sempre più globale. I professionisti sono ovunque». Come lui, manager del Glacis, con due piedi partiti dal cognome e finiti in tutto il mondo: «Credo in Dio e nei valori che mi hanno trasmesso i miei genitori. Nessuno mi ha regalato nulla, me lo sono conquistato con il sacrificio. Ho fatto il procuratore di me stesso. E ora ai più giovani dico questo: credeteci sempre, non smettete mai di sognare». Gridato a voce alta dalle Colonne d’Ercole.