La seconda vita di Henrikh Mkhitaryan

by Matteo Lignelli
Henrikh Mkhitaryan

A 34 anni, quando il meglio sembrava alle spalle, Henrikh Mkhitaryan potrebbe invece raggiungere il punto più alto della sua carriera. Chi lo avrebbe mai detto, quando è arrivato in nerazzurro, che sarebbe stato decisivo in una semifinale di Champions. Grande partita. Grande gol, quello del 2-0: le telecamere si concentrano sulla palla dalla sinistra di Dimarco e sul velo di Lautaro, ma qualche metro più indietro c’è Mkhitaryan che sorprende Tonali e inizia il suo inserimento diabolico. Controllo perfetto per portarsi in mezzo a Kjaer e Theo Hernandez e palla in porta. Un’azione che racchiude le sue caratteristiche migliori: l’intelligenza, la tecnica e la tranquillità con cui riesce a giocare il pallone in qualsiasi situazione. Dopo ha esultato con quella maglia numero 22 un tempo indossata dal Principe Milito e quindi davvero speciale per il popolo dell’Inter. Nelle dichiarazioni di fine partita, poi, è emerso il suo carattere: tranquillo, pacato, mai fuori posto.

Henrikh Mkhitaryan, l’Inter e l’eredità di Klopp

Non era scontato che in notti come queste Mkhitaryan sarebbe partito titolare. Bravo lui, bravo Simone Inzaghi per avergli trovato un ruolo, quello da mezzala d’inserimento, in cui rende al massimo. Ha già giocato 46 partite quest’anno e segnato 5 gol, soprattutto è stato scelto come titolare in quelle più importanti, come le sfide da dentro fuori in Champions e in Coppa Italia, e per la Supercoppa italiana, vinta contro il Milan. In carriera ha vinto sia la Conference (con la Roma), che l’Europa League (con lo United), ma non ha mai giocato una finale di Champions. Già, perché nel 2013 raggiunse il Borussia Dortmund di Klopp poche settimane dopo la sconfitta contro il Bayern Monaco in una partita che ha fatto la storia del calcio tedesco. Ma se è questo giocatore lo deve proprio al tecnico tedesco, che l’ha liberato dalla rigidità imposta dal calcio ucraino nei primi anni della sua carriera da professionista. Mkhitaryan parla di lui come uno ‘psicologo’: «Per un errore potevo chiudermi in camera, spegnere il telefono e non parlare con nessuno. Mi ha aiutato a raggiungere un maggiore equilibrio». Ha chiuso quell’esperienza con 52 presenze, 23 reti e 32 assist, qualcosa che non è riuscito a ripetere né allo United, né all’Arsenal, vincendo due Supercoppe di Germania in tre anni. I trofei potevano essere di più ma quel Dortmund con lui, Reus, Lewandowksi, Götze e Hummels resterà per sempre una squadra cult.

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Zidane, la famiglia e l’Armenia

Mkhitaryan ha il calcio nei propri geni. Poteva crescere in Francia, dove il padre ha giocato tra seconda e terza serie, ma a 33 anni lo ha lasciato a causa di una malattia al cervello e Henrikh, che allora aveva 7 anni, è tornato in Armenia, dove oggi è considerato il più forte calciatore di sempre. Sua sorella Monica ha lavorato alla Uefa come assistente di Platini quando era presidente, e sua madre della Federazione armena. Quando ha iniziato, nel Pyownik, era un centrocampista, una mezzala come oggi. La sua qualità, però, gli ha permesso di adattarsi a ogni posizione, dal trequartista all’esterno nel 4-2-3-1 e nel 4-3-3. Duttile in campo e nella vita, non a caso conosce 7 lingue, compreso il portoghese dopo un soggiorno in Brasile a 14 anni e il russo che gli serviva per farsi capire dalla nonna. Cresciuto ammirando Zidane in un Paese difficile, che lui ha sempre amato e rispettato, anche quando ha rappresentato un limite per la sua carriera. A causa dei rapporti tesi tra Azerbaigian e Armenia, e l’assenza di rapporti diplomatici tra loro, già dai tempi del Dortmund ha evitato quelle trasferte. Ma nel 2019 il viaggio a Baku metteva sul piatto una finale di Europa League, poi persa contro il Chelsea di Sarri. Negli ultimi anni, quasi a testimoniare questa sua seconda vita dopo le delusioni inglesi, ha raggiunto una finale europea con la Roma e una semifinale con l’Inter, in cui ha fatto di tutto per «far diventare realtà il sogno», come ha detto il suo allenatore. Si è guadagnato il premio di migliore in campo, ma non ha perso la sua pacatezza: «Non vogliamo pensare alla finale, rimaniamo concentrati sulla prossima partita».