di Sebastiano Esposito

Apro WhatsApp e niente, nessuno si fa sentire. Nel gruppo neanche una notifica, zero chiamate perse. Certo, chi è che si chiama nel 2021? I veri amici. Sono un ragazzo con le idee molto chiare, cresciuto frettolosamente tra scatti in Champions League e spalle voltate nella vita. La maggior parte delle felpe che compro è con il cappuccio. Non per nascondermi. Mi piace camminare indossandolo, per isolarmi. Vivere dentro al mio mondo. Un mondo che nell’ultimo periodo ha accorciato i tempi. I miei non sono durati quanto i vostri. Sono stati come un lunapark, pieno di cose belle ma allo stesso tempo con al suo interno le montagne russe più spassose e crudeli. Quelle in cui trattieni il fiato in gola durante la discesa.

 

 

Perché vi scrivo dalla Svizzera? Ci arriviamo. Ma in quel giorno di agosto, quando ho segnato al Sion, non ho avuto dubbi. Dopo essermi preso l’abbraccio dei miei compagni, ho alzato la cornetta del telefono: «Pronto, c’è qualcuno?». Ho esultato così per ricordare tutti i falsi amici che ho avuto in passato e che non dimentico. Ci sono stato abbastanza male: quando tutto era nero, dopo il periodo in nerazzurro, avevo bisogno di qualche chiamata, messaggio. Niente, silenzi. Stavano con me solo perché ero «Esposito dell’Inter», un ragazzino di 17 anni che non capiva. Sono sempre stato chiuso in me stesso, fin da quando ero piccolo. Ho avuto pochi affetti nel corso degli anni. E adesso posso dire che definire qualcuno «amico» è quanto di più bello ci possa essere insieme all’amore. L’amicizia non si basa su una medaglia vinta, ma solo sulla voglia di essere presente e vedersi. Di esserci, confrontarsi, aiutarsi: confortarsi nei momenti buoni, congratularsi e godere di quelli belli. Il rapporto basato sul fatto che sono nel calcio non mi serve a niente. Ci ho messo qualche mese per capirlo, poi ho fatto piazza pulita. Ho metabolizzato, preso atto: a un calciatore può succedere. Ero nell’età in cui è lecito sbagliare. Lo sono ancora, ma non sbaglio più.

 

 

Sono andato fuori da casa che ero un bambino. Da Castellammare a Milano. Ora sono a Basilea e la mia famiglia vive da anni a Brescia: il peggio è passato. All’inizio c’era paura, com’è giusto che sia. Ho fatto una scelta coraggiosa, difficile in questa fase della carriera. Sono venuto fuori in poco tempo. Un botto concentrato in qualche mese. Vi scrivo dalla Svizzera perché a giugno ho ricevuto tantissime richieste, non lo nego. Serie A, Serie B, poi mi hanno raccontato che mi volevano qui. Mi ha chiamato il Direttore Sportivo, poi il Presidente, infine l’allenatore. In Italia te lo sogni. Mi hanno fatto sentire desiderato: «Vieni, abbiamo totale fiducia. Ma se non dimostri in campo sei fuori. Ci piacerebbe metterti trequartista nel 4-2-3-1, ti va?». Questo è tutto quello di cui ha bisogno un giovane: stima, costanza, patti chiari, strigliate. E soprattutto hanno voluto inserire il diritto di riscatto: se l’Inter non mi controriscatterà, diventerò l’acquisto più oneroso nella storia del Basilea. Capite? Mi godo l’affetto dei tifosi. Il campionato mi piace, ci sono anche vecchie glorie come Gaël Clichy e Holger Badstuber. Hanno ancora una chiacchiera in campo… Pensate che qui mi monitorano talmente tanto che quando la trattativa era agli albori ed ero in Svizzera a guardare la finale degli Europei, hanno riconosciuto l’hotel dove alloggiavo da una storia Instagram, nonostante avessi cancellato il canale della televisione e altri riferimenti. In piazza a festeggiare sono durato cinque minuti!

 

 

 

Non sono scappato dall’Italia, sono semplicemente salito sul treno che ho reputato più adatto alle mie esigenze e ai miei sogni. Alcuni giorni fa ho letto una statistica: la Serie A è ultima per giovani impiegati nei campionati importanti. L’unico minutaggio era portato da due terzini sinistri. Nel nostro Paese c’è questa concezione secondo cui il giovane deve soffrire per forza (oppure rinascere terzino sinistro, a quanto pare!). All’estero se ne fregano: in Bundesliga schierano i 2004, Gavi fa il titolare nella Spagna. Qui devi essere bocciato e riscattarti continuamente. Guardate Colombo, ora sta volando. Guardate Lucca: è stato scartato ovunque prima di andare a Palermo e Pisa. Il problema di base è che nessuno ha il coraggio di puntare su di noi. Prendere un calciatore esperto è più facile, sbaglia e gli dai la colpa. Sui giovani invece la colpa se la prende la società, e quindi non vogliono problemi. Chiaro, anche noi ci mettiamo del nostro. Nel mio caso il problema sono stato un po’ io, e un po’ il club. Ma se andiamo avanti così, sarà difficile. Questo è un dato di fatto. Sicuramente la Nazionale ha cambiato questa inerzia, ma la strada è ancora lunga. Un ragazzo deve poter sbagliare, non puoi metterlo 2-3 partite e aspettarti 5 gol. Se dopo 2 gare non brillanti lo fai fuori, lo ammazzi. E lui la percepisce quell’assenza di fiducia. Ci sono persone in Italia a cui i talenti non piacciono proprio.

 

A volte in aereo scorro la galleria del telefono, quando siamo senza connessione lo facciamo tutti. Proprio ieri ho ritrovato una foto di me che piango in tribuna a Ferrara. Un selfie dopo l’ennesima partita fuori. I miei genitori erano lì e mio fratello, che giocava con me, c’è sempre stato. Mi ha fatto sfogare, dicendomi la sua ed evidenziando i miei errori. Era il mio primo tifoso. Se un compagno viene da te per dirti qualcosa, può farlo anche perché conviene a lui. Un fratello no: lo fa soltanto per te. Mi dispiace aver coronato il sogno di giocare insieme solo poche volte in quei mesi. Dopo quell’immagine tornai a casa, convinto di ripartire forte. Mi sono allenato a tutto fuoco e no, non cambiava niente.

 

Dopo l’Inter era iniziata una discesa. Alla SPAL mi è crollato il mondo addosso. Siamo passati velocemente da tutto a niente: «Cavolo, affrontavo il Barcellona e ora sto a sedere in Serie B». Ho iniziato a imputarmi colpe, guardando con distacco la realtà in cui ero. A Ferrara stavo benissimo. La città era stupenda e lo erano pure i tifosi. Qualcosa non mi tornava. Non era per le pressioni, sicuramente mi aspettavo di più da me stesso. Iniziai a pensare che l’80% dei problemi derivasse da me, ma che quel restante 20% fosse da imputare a qualcun altro. Non sono mai stato uno di quelli che molla subito, però quando quello che temevo si realizzava, allora mi guardavo allo specchio e mi convincevo che non era tutta colpa mia. Sono andato avanti, passando al Venezia, e siamo stati promossi in Serie A. La festa è stata folle. Incredibile.

 

 

 

 

Incredibile è stata anche la prima volta in cui ho parlato con Lukaku. Era la tournée estiva dell’Inter, nel 2019, e lui era ancora nel Manchester United. Ci sfidiamo in amichevole e a fine partita, quando lo incrocio fuori dagli spogliatoi, gli dico «Ciao Romelu». Mi sorride e risponde: «Ciao Seba». Ho passato intere ore a capire come diavolo facesse a sapere chi fossi. Io aggregato dalla Primavera, lui sapeva il mio soprannome. Poi ha firmato con noi e un giorno, nella hall di un albergo a Udine, stavamo facendo due chiacchiere di gruppo dopo pranzo. O meglio, io non avevo ancora diritto di parola in quello spogliatoio, quindi me ne stavo zitto. Tutti quei campioni e che faccio, torno in camera a riposarmi? Neanche per sogno! Rimango e sto con loro fino all’ultima parola. C’erano Rom, Lauti, Basto, Bare e qualcun altro. Quando abbiamo finito, siamo andati a farci una doccia. Dovete sapere che Romelu ha una paura tremenda dell’ascensore, quindi abbiamo fatto le scale. E mentre salivamo, mi fa: «Avete preso una bella scoppola nella finale del Mondiale U-17». Imbarazzatissimo rispondo: «Eh sì… è andata abbastanza male. Perché, l’hai vista?». «Certo Seba, sennò come facevo a chiamarti per nome!». Gli spiegai che magari che poteva avermi cercato su internet. «No no – aggiunse – le ho viste tutte e sei stato bravo». Potete immaginare come ho camminato quel pomeriggio: minimo a tre metri da terra.

 

Ho avuto un rapporto sincero e diretto con lui, qualsiasi cosa accadesse, mi difendeva. Quando sbagliavo, invece, si incazzava da morire. Lui odia perdere, anche in allenamento. Giocavamo in coppia, mi arriva una palla sul secondo palo e Padelli me la para. Rom si gira e mi caccia un urlo pazzesco, cerco di difendermi spiegando che «ho sbagliato un gol, non è morto nessuno…». Non lo avessi mai fatto. Mi fulminò con lo sguardo: «Ah, è questa la tua mentalità del cazzo?». Se mi avvicinavo un altro po’, probabilmente mi smontava. Resta il fatto che era un periodo in cui di partitelle ne vinceva poche. Quando accadeva, all’Inter ci prendevamo spesso in giro, facendoci scherzi. A lui, nello spogliatoio, appiccicarono sopra al nome «Lukaku» sull’armadietto la scritta: «Loser». Perdente. Non ho mai visto un pugno più forte di quello che tirò quel giorno contro l’armadietto. Era il numero uno.

 

Un’altra figura fondamentale, che definirei come fratello maggiore o secondo padre, è stata Danilo D’Ambrosio. Ho una foto insieme a lui il giorno del mio esordio in Europa League, e poi ce ne scattammo anche una dopo la partita per immortalare il momento.  D’Ambro è sempre stato molto severo con me e lo ringrazio per questo. Mi ha aiutato a crescere. In una delle prime convocazioni mi presentai con un minuto di ritardo. Uno solo, ma non si fa. Entrando nello spogliatoio, mi presi uno schiaffo sul collo da Handanovic che ancora mi gira la testa. Danilo non mi parlò per un mese e mezzo. Pazzesco, vi giuro. Pazzesco. Gli parlavo, gli scrivevo, lo chiamavo. Niente, zitto. Un giorno arriva e mi fa: «Considera che è come se ti avessi presentato io a questa squadra, a questo spogliatoio. Ho garantito per te, e te mi ripaghi così? Mi hai fatto fare brutta figura». A quel punto, in silenzio ero io. Una persona da 10 e lode, mi ha sempre supportato anche da lontano: «Continua a lavorare, prima o poi l’inferno passa e arrivano le stelle». Lui ne è l’esempio, dopo aver sofferto e lavorato duramente ha vinto lo Scudetto. Tutto meritato.

 

 

 

 

Devo dire che anche mister Conte ha influito molto sulla mia mentalità. Un allenatore fenomenale. Se gli anni nella Prima Squadra dell’Inter sono stati indimenticabili, il merito è stato anche suo. Il gruppo era stupendo, la società anche. Tutto era armonioso. La sua capacità di entrarci nella testa è stata decisiva. Alla prima partita in Champions League, dopo l’inizio del primo campionato, pareggiamo 1-1 a San Siro segnando all’85’. Il giorno successivo entriamo in sala video, c’è un’atmosfera glaciale. Con una frase ci ha trasmesso tutto il suo valore, svoltando definitivamente quella squadra e ponendo le basi per un ciclo vincente: «Questi qua prendono molto meno di voi, ma hanno 5 volte la fame vostra. Venderei in questo istante la mia squadra per prendere la loro». Lì mentalmente ci è scattato qualcosa.

 

Quella full immersion nel calcio dei grandi mi ha regalato momenti di gloria. Il mio sogno nella mia Inter. Faccio l’Europa, esordisco e segno in Serie A battendo tutti i record. E dopo il primo gol, mentre esulto, trovo mia mamma a bordocampo e corro ad abbracciarla. Sinceramente, ho riguardato più volte lo scatto in Champions League che la rete al Genoa, ma ogni volta ho sensazioni diverse. Come se non riuscissi a rivivere quei momenti in prima persona.

 

Si erano create aspettative altissime. Mi faccio spazio fino a inizio febbraio. C’è Udinese-Inter, sono titolare ma non incido. Sbaglio una rete da pochi passi, ricordo ancora la parata di Musso. Se ci riprovo altre dieci volte, segno tutte e dieci. Poco dopo l’intervallo, entra Sánchez al mio posto e cambia la partita. Semplice: Alexis è un fenomeno. Fa quello che vuole, guadagna pure un rigore. Con quella prestazione mi gioco il derby della settimana successiva, sarebbe stato un sogno scendere in campo. Da quel momento, tutto in salita. Con qualche rimpianto, ma è chiaro che per vincere lo Scudetto, in quella fase, la quarta punta in rosa non potevo essere io.

 

 

 

 

Una delle cose che più mi hanno fatto male a causa della fama è stata la vicenda del mio rinnovo di contratto. Il calcio dimostra che se non fatto per passione, ma per altri scopi, è una merda. Ho avuto 5 contratti con l’Inter, uno per ogni anno nelle giovanili, perché quando sei minorenne funziona così. E non ho mai saputo quanto fosse il mio stipendio. Poco prima di trattare l’accordo da professionista, decido di cambiare agente. Ci vediamo, glielo comunico. Una settimana dopo esce la notizia che io avrei chiesto un milione di euro, altrimenti niente. Pensavo: «Beh, sono diventato ricco all’improvviso, non lo sapevo». Era stato lui. Io ho saputo la cifra solo dopo aver firmato. Volevano rovinarmi la carriera? Per fortuna che l’Inter era al corrente di tutto e mi ha sempre creduto.

 

Ci concentriamo molto sul futuro, spesso perdendo di vista il presente. È qui che si gioca la nostra partita. Io al futuro non ci penso. Non ho fretta.