Óliver Torres: «Mi chiamo così per Holly e Benji. La stanza con Villa e i discorsi del Cholo…»

by Giacomo Brunetti
Óliver Torres

Alla fine di questa chiacchierata glielo abbiamo detto: «Óliver, sei davvero a tuo agio nelle interviste». La risposta ci ha spiazzati: «Sapete, volevo fare il giornalista». Detto, fatto: se un giorno giocherà in Italia – il suo contratto con il Siviglia scade nel 2024 – lo aspettiamo a Cronache. Per il momento, però, Óliver Torres rimane dall’altro lato del microfono, pronto a rispondere alle nostre domande.

La prima, innanzitutto, è sulle sue origini. Cresciuto nell’Atlético Madrid e protagonista nel calcio dei grandi fin dai 17 anni, si è fatto strada tra Villarreal, Porto e Siviglia. Partendo dall’inizio, però, a incuriosirci è il suo nome: «Ma è vero che ti chiami così per Holly e Benji?». Sorride e ammette: «Sì, incredibile. Il mio nome doveva essere Hugo, ma mia sorella e mio fratello erano innamorati di Holly e Benji e in quel periodo, in Spagna, tutti i ragazzini guardavano la serie. Chiesero a mio padre di chiamarmi Óliver, in onore di Holly». Questo anime gli ha fatto da stella polare: «Pazzesco che poi sia diventato un calciatore, eh?». E pensare che voleva fare il portiere: «Io in realtà ero fissato con Benji, a 8 anni andavo sempre in porta. Mio padre mi disse: ‘No, non puoi. Ti ho chiamato Óliver e adesso vai in attacco’».

Cholismo e Madrid

Come detto, tutto è partito dall’Atlético, dove Óliver arriva nel 2008 a 13 anni ed esordisce nel 2012 grazie al Cholo Simeone: «La sua carriera parla da sola. Il suo modo di trasmettere idee e passione è unico. Quando è arrivato, la squadra era in un momento delicato. Ha creato una filosofia di gioco e un modo di affrontare la gara, ci sono stati dei momenti bellissimi che ho vissuto grazie a lui, come partecipare a una finale di Champions League». Forza mentale, ambizione, garra: tutti elementi che contraddistingono i colchoneros. E costanza: «Restare 11 anni nello stesso club al giorno d’oggi è cosa rara».

Quando gli chiediamo un ricordo di Simeone, spunta il sorriso: «Quanti ne volete». Innanzitutto, dal più indimenticabile: «Era il giorno di un’amichevole tra la squadra giovanile e la Prima Squadra. A un certo punto venne a parlarmi: ‘Devi cambiare maglia e andare nella squadra dei grandi’. Per me immaginate… fu incredibile. Il mister che ti chiede di andare con i professionisti, tornai a casa come un ragazzino che ha appena vissuto un sogno». C’è un momento in particolare che descrive bene chi è il Cholo: «Prima di una partita importante in coppa nominò uno a uno ogni giocatore, allegando a ogni nome un aggettivo. Io avevo solo 17 anni, vivevo tutto con trasporto. Ha una forza particolare nel trasmetterti che tutto è possibile».

Il ragazzo si farà… a Siviglia

Óliver Torres è cresciuto con l’etichetta del talento che si farà: «Certo, è una cosa positiva perché significa che hai qualità. Spesso, però, senti il peso sulle spalle. I ragazzi, quando sono giovani, devono sfruttare i momenti e impegnarsi, senza mai dimenticare la loro età. Io sono stato un privilegiato a vivere fin da piccolo un certo tipo di contesto, ma dobbiamo crescere con disillusione: mai avrei immaginato di presentarmi un giorno a una finale di Champions League e vivere ogni anno una competizione europea».

Erano gli anni del Barcellona e il Real Madrid, di Messi contro Cristiano Ronaldo, de LaLiga come polo dei big-match. «In una finale di Copa del Rey contro il Real Madrid, lo stadio era completamente diviso a metà. Vincemmo, è stato uno dei momenti più belli della mia vita. I miei compagni mi dicevano: ‘Festeggia, che capirai quanto è difficile vincere un titolo!’. Ero giovane e mi sembrava tutto così stupendo, crescendo ho capito quanto avessero ragione. Vivere quei momenti di felicità è qualcosa di unico perché alzare un trofeo è davvero qualcosa di raro». I blaugrana? «Non vedremo mai più nessuna squadra giocare bene come loro».

Adesso Óliver è a Siviglia, la regina dell’Europa League. In questa competizione «sentiamo di dover tenere alto il rispetto che si è guadagnato il Club. Gli avversari riconoscono il Siviglia in Europa League come il Real Madrid in Champions League. Neanche dentro alla società sanno spiegarsi cosa abbiamo di speciale per avere questo feeling con tale coppa». In carriera, Torres ha avuto la fortuna di giocare con tanti campioni. Al Porto, ad esempio, ha condiviso lo spogliatoio con Casillas: «Prima di un compagno, Iker è un amico. Spesso lo ammiravo e mi chiedevo come avesse fatto a diventare quel che era. Ho capito che per essere campione devi nascere con una stella dentro, che hai qualcosa mentalmente che ti fa fare il salto». Non solo, perché uno dei suoi preferiti «era Alex Sandro, mi allenavo con lui ogni giorno e mi sembrava impressionante. Uno dei migliori con cui ho giocato, lo ricordo sempre. Il calcio è fatto di momenti: quando è arrivato alla Juventus ha fatto molto bene, le fasi negative fanno parte del gioco».

In stanza con Villa e specialista di derby

Una delle storie che ne hanno contraddistinto la carriera è quando ha condiviso la stanza con David Villa a Madrid. Óliver era tornato da poco dal prestito al Porto e si sono ritrovati ad allenarsi da soli: «Aveva una confidenza con la porta mai vista prima, ogni tiro era un gol. Lo guardavo e pensavo: ‘Boh, incredibile…’». Ma la cosa davvero incredibile «è che dopo qualche giorno hanno assegnato le camere e io ero insieme a lui. Mi sono detto: ‘Oddio, come mi comporto?’. Sei in camera con David Villa! Ero in soggezione: non potevo fare rumori, mi chiudo in camera e non dico niente ahah. Ero immobile».

Da Madrid al Portogallo, Torres è stato protagonista di derby infuocati. Come quello di Siviglia: «Già due mesi prima i tifosi ti chiedono di vincerlo. È una rivalità sana, che nasce in campo come al supermercato. Il tragitto dall’hotel allo stadio il giorno della partita è impressionante». Quando gli chiediamo 3 stadi che vale la pena provare nel suo Paese – eccetto quello del Siviglia, il Camp Nou e il Bernabéu, altrimenti sarebbe stato troppo facile – ci nomina il San Mamés di Bilbao, il Mestalla di Valencia e il Cívitas Metropolitano di Madrid. La squadra più ostica di questa LaLiga «è l’Osasuna, mentre le più complicate in ambito europeo sono le inglesi a casa loro».

Dell’Italia, invece, apprezza la storia delle nostre società: gli piacciono Theo e Calabria sugli esterni, Zielinski e Barella a centrocampo. E che gli piacerebbe «misurarsi nel calcio italiano. Chissà, un giorno». La chiacchierata procede spedita e Óliver Torres continua a essere sorridente e spigliato. D’altronde voleva fare il giornalista.