Dalla Juve alla sua Civitanova, Paolucci: «Tornati in D, ora dico basta».

by Alessandro Lunari

Se cercate su Internet, una delle prime cose che vi esce di lui è un dato: 184 gol. Tutti realizzati nel settore giovanile della Juventus, di cui è il miglior marcatore di tutti i tempi. La carriera di Michele Paolucci inizia da lì. Dopo un viaggio lungo 22 anni, nel 2022 è tornato a casa sua, a Civitanova Marche per riportare la Civitanovese in Serie D. Missione compiuta lo scorso 28 aprile, dopo un’assenza di 7 anni, due promozioni consecutive e una rottura del crociato. Ci arriveremo.

 

«Il provino con la Juventus? Neanche dovevo farlo…»

Paolucci ha girato l’Italia, l’Europa e il mondo fino al Canada nel corso della sua carriera. Tutto, però, è partito dalla costa marchigiana e da un pallone. È cresciuto davvero a pane e pallone, fino ai 14 anni. Poi è cambiato tutto velocemente: «A 14 anni, Osvaldo Ciocci, che lavorava nel settore giovanile del Tolentino, mi chiamò per farmi fare un provino con la Juventus. In realtà, dovevano andare altri ragazzi: io neanche dovevo partecipare, ma poi fece il mio nome. Il primo andò benissimo, poi ne fecero un altro solo per me quattro mesi dopo: erano tutti i Giovanissimi più me. Vincemmo 4-1… con un mio poker».

Michele sa di giocarsi molto in quei momenti lì, eppure per qualche settimana non ha più notizie: «Al Torneo delle Regioni, ad un certo punto, mi si avvicinò mio padre: ‘Ti devo parlare’. Io disperato: ‘Mamma mia, che ho combinato stavolta?’. Mi fece: ‘Ti vuole la Juventus’. E io: ‘In che senso?’. Mi guardò: ‘Eh, la Juventus ti vuole su la prossima settimana’. Non riuscivo a parlare, così lui: ‘Ora chi lo dice a tua madre?’. Scoppiammo a ridere: ‘Glielo dici tu, papà’». Michele lascia tutto, senza pensarci. L’appoggio dei suoi genitori e di sua sorella non è mai mancato: tutti hanno fatto in modo che vivesse il suo sogno. Anche se vederlo andar via da casa non è stato semplice: «Per mia madre fu uno schock. Lei e mio padre mi accompagnarono al pensionato a Torino in macchina. Solo anni dopo venni a sapere che al ritorno, fino a Bologna, mia madre non fece altro che piangere».

Michele lascia famiglia, scuola e amici di sempre. Ogni volta che prende il treno delle 6 di mattina per tornare a Torino, sono tutti lì per salutarlo. «A 14 anni non è facile, devi essere forte. Il primo periodo poi è stato molto duro: per questioni di transfer, non ho potuto giocare per i primi 3-4 mesi. Credo che loro già lo sapessero, quando mi presero. Ogni volta andavo negli uffici e chiedevo: ‘Ma allora è arrivato l’ok del transfer?’. Quei 4 anni nel collegio furono per me una grande scuola di vita».

 

«Per Fabio Capello io ero ‘Bati’. Sì, come Batistuta»

Michele resta nel settore giovanile per 6 anni. Dal 2000 al 2006 circa. Cresce in un gruppo fortissimo che vince il Torneo di Viareggio e un campionato Primavera, dopo tanti anni a secco: «Con me c’erano Marchisio, De Ceglie, Giovinco, Criscito, Masiello, Bentivoglio, Luci, Maniero, Lanzafame. Tutta gente fortissima davvero». Arrivare alla Juventus da Civitanova Marche era un grande orgoglio, soprattutto perché lui quei colori li aveva sempre tifati ammirando le giocate di Del Piero e degli altri campioni. Proprio per l’assenza del numero 10 e di tanti altri, nell’estate 2004 succede l’impensabile: «Era l’estate dell’Europeo. Quell’anno con la Primavera vincemmo il campionato finendo la stagione attorno al 20 giugno. Perfino Capello venne a vedere la finale: rimase sorpreso da me e altri e ci selezionò per il ritiro estivo della prima squadra. Finimmo il 20 giugno, stavamo per tornare a casa dalle nostre famiglie visto che il ritiro della Primavera sarebbe iniziato un mese e mezzo dopo, ma Capello ci chiamò. Esattamente 10 giorni dopo sarebbe cominciato il raduno della Juventus». Questione di sacrifici, di ambizione, ma anche di rinunce.

«Il 2 luglio io sarei dovuto essere il testimone di nozze di mia sorella. Sono andato da lei per spiegarle, ma mi ha subito fermato: ‘Non pensarci neanche. Vai’. Solo per rispondere a quella convocazione, rinunciai al matrimonio di mia sorella, che poi venne a trovarmi qualche giorno dopo in ritiro. L’ho fatto con enorme sacrificio, ma anche tanta gioia. Quella gioiai di allenarti due settimane con grandi campioni. E poi che facevo? Non andavo? E quando mi sarebbe ricapitata una chiamata di Capello? Le cose te le devi saper sudare»
. 184 gol nel settore giovanile non possono passare inosservati e Fabio Capello nota subito questo Paolucci: «Mi chiamava ‘Bati’ perché avevo un gran tiro. Era una cosa che mi riempiva d’orgoglio. Da piccolo avevo tre grandi amori: Del Piero, Shevchenko e Batistuta. Immaginate com’era essere solo soprannominato come lui… da uno come Capello».

 

Stessi colori, maglia diversa: la Serie A con l’Ascoli

Dopo 6 anni nel settore giovanile della Juventus, Paolucci ha subito l’occasione di giocare in Serie A. L’opportunità gli si presenta vicino casa, ad Ascoli, salito in massima serie dopo lo scandalo di Calciopoli e l’esclusione del Genoa: «Avere la chance di fare subito il salto in A dopo la Primavera era una roba da non crederci. Fu un anno incredibile: dopo 6 anni vissuti a Torino, sono tornato a 45 minuti da casa. La società mi disse: ‘Mi raccomando, prendi casa qui ad Ascoli. Devi stare vicino, non fare avanti e indietro’. Così presi un appartamento con Budjanskij, un altro ragazzo che veniva dalla Juventus: credo di averci dormito 3 volte in tutto l’anno. Ero un po’ incosciente, forse ma tornare a 20 anni a neanche un’ora da casa tua, con la famiglia lì: dovevo recuperare il tempo che ero stato via. Fu un anno complicato, alla fine siamo retrocessi in B, ma per me fu una stagione importante. All’inizio giocavo poco, avevo accusato il salto di categoria. Poi a dicembre mi sono sbloccato, ho continuato a giocare e a segnare».

Paolucci si è tolto anche la soddisfazione di segnare l’ultimo gol dell’Ascoli in quella Serie A, decisivo per evitare di chiudere il campionato all’ultimo posto e scavalcare così il Messina. Un gol dal sapore particolare, ma per tutt’altro motivo: «Era un Ascoli-Cagliari, vincemmo 2-1. Quella mattina, mio padre fu portato in ospedale per un problema abbastanza grave al cuore. Appena svegliato, il mio allenatore e il direttore sportivo mi aspettavano: ‘Dobbiamo parlarti’. E io: ‘Che ho combinato?’. Poi ho visto che c’erano anche mia sorella e mio zio: capii che c’era qualcosa che non andava. Mi informarono su quanto accaduto: ‘È meglio che tu vada un attimo a vederlo’. E io: ‘Ma abbiamo la partita…’, ma loro: ‘Vai che è meglio’. Arrivato in ospedale, scoprii che mio padre aveva avuto un arresto cardiaco. Appena mi vide, però, disse: ‘Ma che ci fai qua? Hai la partita. Vai a giocare. Mi raccomando, fammi fare bella figura. Dai su vai, che sono anche un po’ delicato’. Tornai al centro sportivo, giocai quella partita e segnai un gol stupendo in mezza rovesciata. Scoppiai a piangere. Lui poi andò in terapia intensiva, ci lasciò quasi le penne, ma poi migliorò. Qualche giorno dopo andai a trovarlo con la prima pagina del giornale: ‘Guarda un po’… non ti ho fatto fare brutta figura eh!’. Sembrava spacciato, ma invece ancora viene a vedere le mie partite. Anzi, rompe ancora le scatole».

Andare via da casa a 14 anni, viaggiare in Italia e poi nel mondo, ha comportato molti sacrifici. Il primo fra tutti, forse, la distanza dalla sua famiglia. Un punto fermo: «Sono tornato a Civitanova anche per i miei genitori. Mia madre per paura o ansia è venuta a vedermi solo una volta in un Ascoli-Messina. Quel giorno qualcuno mi sgridò dagli spalti e da lì non si è più presentata allo stadio. L’ho convinta quest’anno a vedersi una mia partita in tv… quella in cui mi sono rotto il crociato. Le è preso un colpo, poverina. Da quel momento ci ha rimesso una pietra sopra. Mio padre, invece, mi ha sempre seguito e sostenuto senza dire una parola: quello è stato uno dei miei segreti. Oggi vedo e sento storie di genitori che gridano, sbraitano contro i figli, gli allenatori o gli arbitri: per i ragazzi è un trauma. Non hanno idea di cosa significhi per un figlio avere un genitore del genere fuori dal campo». Ora per ripagare tutto il sostegno ricevuto dal papà, Michele ha deciso di fargli un ultimo regalo a chiusura della sua carriera: «Lo porterò a Gelsenkirchen per Spagna-Italia il prossimo 20 giugno. Un pensiero per chiudere insieme».

 

La coppia titolare: Paolucci-Del Piero. Antonio Conte e quel gol a San Siro contro il Milan

Dopo la retrocessione con l’Ascoli in B, Paolucci non torna subito alla Juventus. Gira in prestito fra Udinese, Atalanta, Catania e Siena. Viene anche allenato da un giovane Antonio Conte: «Ho avuto la fortuna di vivere il primissimo Conte a Siena. Con lui mi sono reso conto quando un allenatore ha qualcosa di diverso dagli altri. Non vedo l’ora di vederlo al Napoli. Antonio è speciale, cura ogni particolare. Quell’anno, a Natale, regalò ad ognuno di noi un libro con una dedica personale. Ancora lo conservo. È uno che tiene a tutto, là fuori difende la squadra contro tutto e tutti. È uno che accettava l’errore, per lui era fondamentale l’atteggiamento. Certo, se sbagliavi si arrabbiava ed erano guai, però poi rimaneva tutto negli spogliatoi. Lui è uno che sposta gli equilibri, fa la differenza. È una bestia». L’uomo giusto da cui una piazza come Napoli ha scelto di ripartire: «De Laurentiis sapeva di aver bisogno di un colpo del genere. Per com’è fatto Conte, non avere le coppe al primo anno è l’ideale perché può lavorare tutta la settimana».

Michele poi in Sicilia trova il suo clima ideale, ma non resta più di una stagione. Poi ci torneremo. Nel mercato invernale della stagione 2009/10, Juventus e Siena trovano l’accordo per il ritorno a Torino. Il 15 gennaio è di nuovo alla Juventus e due giorni dopo debutta in maglia bianconera nella partita di Coppa Italia contro il Chievo Verona. Da titolare, accanto a Del Piero: «Poco da dire: la realizzazione di un sogno. Tornare alla Juventus era un’occasione che non potevo lasciarmi scappare. Ci dovevo quantomeno provare. Non ero pronto per quella Juve, che a sua volta non aveva il tempo per sostenere un giovane. Mi dicevo: ‘Cosa faccio?’. Sapevo di partire indietro, ma era il sogno della mia vita: sin da piccolo sono sempre stato un grande tifoso della Juventus. Ero passato dall’avere in camera l’autografo di Del Piero al giocarci fianco a fianco, insieme a Chiellini, Buffon e agli altri».

La Juventus di quella stagione era ben diversa e lontana da quella che sarebbe risalita poi in classifica con Antonio Conte dominando tutto il decennio successivo del calcio italiano. I bianconeri chiusero al 7° posto in una stagione iniziata con Ciro Ferrara in panchina e terminata con Alberto Zaccheroni: «Non era la Juventus di Conte o di Allegri o l’Inter di adesso: in una squadra forte è più semplice inserire un giovane. Lì no: un giovane così lo bruci. Ma io ne ero perfettamente consapevole. Non potevo dire di no. Giocai poco, la Juve naufragò, ma era l’inizio dopo Calciopoli. Non potevo essere io la soluzione a tutti i problemi della squadra. Però non rinnegherò mai quell’esperienza. Leggere il mio nome ancora oggi al Museum come un prodotto del settore giovanile e per quelle poche partite giocate in prima squadra è un qualcosa che, però, rimarrà per sempre».

Dopo quell’esperienza, Michele lascia definitivamente la Juventus. Prosegue al Siena, poi Palermo, Vicenza e Latina. Con i toscani riesce a togliersi un’altra soddisfazione indescrivibile. Segna al Milan a San Siro in un 2-1 del 6 gennaio 2013: «Sono entrato dalla panchina. Ricordo solo una splendida palla di Angelo e io che stacco di testa. A dire la verità sono sempre stato un po’ scarso di testa, ma ho fatto un terzo tempo perfetto e… boom, secondo palo, gol. Una rete da attaccante vero a San Siro. C’era anche un mio amico fraterno, Stefano, che è di Milano e tifa Milan. Nonostante la sua fede, esultò come un matto. Ci conosciamo da quando abbiamo 12 anni e lui veniva in vacanza a Civitanova: è l’unico ad avere tutte le mie maglie, mi ha chiesto anche quella della Civitanovese».

Dall’Olimpico di Torino a San Siro, passando per il Massimino e tanti altri campi fra a A e B. Il preferito, però, è uno: «Ne ho visti molti, ma l’emozione che ti dà l’Olimpico di Roma quando gioca la Roma e parte l’inno non è paragonabile a nient’altro. Non ho avuto modo di andare ad Anfield ancora, ma forse solo Liverpool e la Bombonera sono al livello di Roma. San Siro, però, è iconico: vederlo da dentro è stupendo. Ti sovrasta: quando giochi, non riesci a capire dove finisce».

 

«Mascara meglio di Maradona e Beckham!». Paolucci e l’amore per il Catania

A 22 anni Paolucci ha l’opportunità di andare al Catania: segna al debutto con i siciliani in Coppa Italia contro il Parma il 23 agosto 2008. È amore a prima vista. In quella stagione Michele segna, trova una buona continuità con Walter Zenga: «La Sicilia è un posto unico. Un pezzo del mio cuore è ancora laggiù. Ecco, se dovessi tornare indietro… avrei fatto di tutto per rimanere un anno in più. Non fu possibile per motivi di mercato. Quello è un grande rammarico. Quando parlo di Catania ancora mi vengono i brividi. All’inizio neanche volevo andarci. Quando l’ho detto a mio padre: ‘Tu sei pazzo. Se non vai, ti ci porto io a piedi’. E invece, poi, c’ho lasciato il cuore». Forse, per quel rosso e blu, come i colori della sua Civitanovese. In tutte le piazze più calde, Michele ha sempre fatto bene: entrava in simbiosi con l’ambiente, si caricava e questo si vedeva in campo.

Con il suo Catania ha scritto una pagina di storia del calcio siciliano e della Serie A: 1 marzo 2009, Palermo-Catania 0-4. Il derby del gol di Mascara da centrocampo. In quella partita Michele parte dalla panchina, subentra poi a un infortunato Morimoto e si toglie la soddisfazione di segnare il 4° gol: «Morimoto era di gomma: se non si fosse fatto male, sarei entrato a 5’ dalla fine. Invece è andata diversamente. Ricordo tutto di quella partita. Davanti c’era un Palermo molto forte: c’erano Miccoli, Cavani, Abel Hernandez, Migliaccio, Balzaretti. Noi, invece, eravamo una squadra un po’ buttata lì con 3-4 argentini matti, qualche giovane cavallo pazzo come me e gli anziani della vecchia guardia: con impegno, dedizione e conoscenza abbiamo fatto un campionato incredibile, vincendo un derby che è storia. Quando Biagianti mi ha dato quel cioccolatino, sapevo di dover prendere solo la porta».

La scena, prima, se l’era presa tutta Peppe Mascara con un gol al volo da centrocampo al 44’: «Mi ricordo che guardavamo la traiettoria del pallone… senza poi rendercene conto. Peppe era una roba pazzesca, era un talento incredibile, puro, cristallino». Per il viaggio di ritorno verso Catania ci vollero ore: «C’erano più di 2000mila tifosi a bloccare l’autostrada Palermo-Catania. Una roba così non l’avevo mai vista. Rendetevi conto: parliamo dell’autostrada, non una viuzza fuori dal centro sportivo. Credo che quella sera anche i poliziotti fossero felici e saltassero con noi».

A Catania Michele fa davvero molto bene: nel girone d’andata segna 5 gol, a metà stagione è già a 7-8. Nella Serie A di quegli anni non è poco: «Eppure quasi non trovavo spazio in U21, giusto per farvi capire la caratura di quelle Nazionali. Adesso alcuni vengono venduti per 100 milioni, soprattutto in Inghilterra, dopo appena 3 gol. Robe senza senso. In quel periodo Lippi disse che mi stava seguendo. Quando lessi quelle parole, mi prese un colpo. Mister Zenga venne da me: ‘So che oggi farai cagare perché hai letto queste parole’. E sì, credo di aver fatto schifo. La Nazionale maggiore è un sogno rimasto nel cassetto, però va bene: devi saper convivere con ciò che hai fatto e con ciò che ti è mancato».

Michele tornerà a distanza di qualche anno a Catania per dare una mano al club retrocesso: «Io e Biagianti avevamo una grossa responsabilità, ma sono tornato con entusiasmo. I ragazzi più giovani o quelli che provenivano da categorie inferiori si appoggiavano a noi, alla nostra esperienza e all’esempio che davamo. Lo stesso capita ora alla Civitanovese: non dai l’esempio con le parole, ma con i fatti. Andando in panchina senza dire nulla al mister, allenandoti a duemila e lasciando parlare sempre il campo. Questa fa la differenza».

 

Tutte le strade portano a… Civitanova: the last dance

Dopo il Catania e una breve parentesi all’Ancona, Michele lascia l’Italia: per due anni gioca a Malta prima al Floriana e poi al Tarxien Rainbows. Non era la prima volta: già nel 2016 era andato in Romania al Petrolul Ploiești: «L’errore che puoi commettere è pensare di andare là e giocare con la sigaretta in bocca. Invece, no: ci sono squadre e giocatori forti, molto fisici. I top club sono nelle coppe europee». Nel 2019 vola in Canada al Valour FC: diventa il primo italiano a segnare nella Canadian Premier League, la massima serie locale. Fra il 2020 e il 2022 gioca con il Manitoba, una squadra lanciata con alcuni italo-canadesi. Gioca e fa il manager, pensando al futuro: «A livello tecnico-tattico e di cultura calcistica sono indietro, ma per quanto riguarda lo show… è paragonabile alla nostra Serie A. Ci sono stadi bellissimi, interviste, una grande organizzazione. Ci vorrà del tempo, certo, ma lì lo sport è business. Ci sono molti talenti, è un terreno fertile anche per molti club europei e non: chi fa scouting deve essere capillare e non lasciare nulla al caso. Quando ho iniziato, i migliori ds erano Corvino, Sartori, Angelozzi. Guarda caso, lo sono ancora. Tutta gente partita dal basso, che fa le cose a modo dopo aver acquisito esperienza. Prima l’Udinese o il Catania facevano scuola in questo. E ora è normale trovarsi osservatori anche in Canada».

Da italiano si toglie anche la soddisfazione di vincere e festeggiare l’Europeo lì. Poi, il richiamo di casa nel 2022: «Se vogliamo, è stata la chiusura del cerchio. Stavo fuori ormai 9-10 mesi all’anno, vedevo i miei genitori invecchiare e ho sentito il desiderio di tornare a casa mia. Mi dicevo: ‘Basta, la mia carriera l’ho fatta. Forse è il caso di fermarsi’. Poi una sera ero a cena con un mio amico e parlando è uscita la possibilità di giocare per la Civitanovese. Erano 5 anni che non riusciva a schiodarsi dalla Promozione. Lui conosceva il Presidente per rapporti di lavoro, così gli ho detto: ‘Dai, chiamalo. Prova’. Qualche giorno dopo ci siamo incontrati ed è partito tutto. Un po’ nato per caso».

Con Michele la Civitanovese ottiene due promozioni consecutive: prima in Eccellenza, poi in Serie D. La passione in città si è riaccesa e forse questa è la vittoria più bella: «Alla prima partita che ho visto allo stadio dopo tanti anni c’era giusto un pugnetto di tifosi sugli spalti. Nelle ultime due gare in casa, invece, abbiamo chiuso con oltre 5mila tifosi: un entusiasmo così non si vedeva dai tempi della Serie C. Dopo il campionato vinto lo scorso anno, le persone a me vicine dicevano: ‘Già hai rischiato, sei un matto. Basta. Chi te lo fa fare?’. Ma in cuor mio sapevo di poter dare ancora qualcosa. Era un bel rischio, ma ce l’ho fatta. Gli ultimi mesi sono stati intensi per via della rottura del crociato, ma ne è valsa la pena».

Sul più bello, infatti, Michele si è infortunato. È stato lontano dal campo per 104 giorni. È tornato giusto per festeggiare lo scorso 28 aprile quando la Civitanovese ha battuto per 1-0 la Jesina conquistando il salto di categoria: «Avevo promesso ai miei compagni che sarei rientrato all’ultima giornata, dopo l’operazione del 29 gennaio. Volevamo festeggiare la promozione insieme. Adesso vedi in giro le bandiere appese, i ragazzini che girano con le nostre maglie. È il segno tangibile di ciò che abbiamo fatto».

L’obiettivo della società è di proseguire questa scalata e riavvicinarsi magari alla Serie C. Con programmazione e voglia di far le cose per bene, Civitanova può togliersi grandi soddisfazioni: «Nelle Marche, solo Ascoli, Sambenedettese e Ancona sono un gradino sopra, ma questa città non ha nulla da invidiare. Si parla sempre di progetti: io credo che con uno stadio nuovo, si possa avere una spinta enorme». A 38 anni, quella appena conclusa è stata l’ultima stagione da calciatore per Michele che ha chiaro, però, il suo futuro: «Mi sono tolte molte soddisfazioni. Ho letto spesso: non conta come arrivi, ma come lasci. Aver riportato la mia squadra dove le compete, credo possa essere abbastanza. È stato un viaggio veramente incredibile: è volato. A volte mi chiedo come siano passati questi 24 anni lontano da casa. Se però una porta si sta quasi chiudendo, un’altra si sta aprendo. Sono vecchietto per fare il calciatore, ma molto giovane per essere un dirigente. Ho giocato 400 partite da professionista, 100 in Serie A, parlo 3 lingue e ho segnato in 5 campionati diversi. Penso di poter imparare dalla mia carriera. Alcune scelte non le rifarei se potessi tornare indietro, ma va bene così. Sono ambizioso: quello che non ho fatto in campo, magari lo farò da dirigente. Chissà, magari partirò proprio da casa mia».

D’altronde è iniziato tutto lì. Da Civitanova. A Civitanova. Un viaggio di 24 anni. Per poi tornare a casa, al mare, con la sua famiglia dopo aver calcato campi in giro per il mondo e vissuto spogliatoi ovunque: «Lo spogliatoio è la casa dei segreti. Lì costruivi le tue imprese. Adesso si è un po’ perso quel romanticismo: nei due anni a Civitanova abbiamo riportato la centralità dello stare in gruppo, dell’avere uno spogliatoio forte. Forse è ciò che lascio in eredità, come una volta. Insieme alla passione». La stessa che Michele ha sempre avuto. Sin da quando la maestra a scuola gli chiedeva cosa volesse fare da grande. Né astronauta, né dentista e neanche pompiere: «Il calciatore, maestra». Missione compiuta, Michele.