Nella biografia dell’attuale allenatore della Juventus, Penso quindi gioco, scritta assieme al giornalista di Sky Sport, Alessandro Alciato, edita da Mondadori nel 2013, si trovano tantissimi aneddoti, molti dei quali davvero divertenti.
Alcuni di questi, ovviamente, parlano delle (dis)avventure tra Andrea Pirlo e Gennaro Gattuso, per anni compagni di squadra, sia al Milan che in Nazionale.
Ecco un estratto del libro in cui l’ex numero ventuno racconta dei peggiori scherzi riservati al tecnico del Napoli.
«José Mourinho, alla sua prima conferenza stampa da allenatore dell’Inter, sorprese tutti presentandosi in perfetto italiano: “Io non sono pirla”. Io invece sì. Pirla e Pirlo, femminile e maschile, giusto per non farmi mancare niente. Un “cazzaro”, come direbbero i miei due amichetti romani. Mi frega la faccia, con l’espressione sempre uguale, ma il bello sta proprio lì. Invento discorsi strampalati, prendo per il culo i miei compagni però tutti pensano che stia dicendo cose serie. Non se ne accorgono e mi diverto un mondo. Sorrido dentro, resto impassibile fuori, pianifico scherzi. E ogni tanto prendo qualche schiaffo, come quelli che mi dava Gattuso al Milan o in Nazionale.
Non essendo un letterato, un fine oratore né un membro dell’Accademia della Crusca, quando Rino apriva bocca lo spogliatoio si trasformava nel Carnevale di Rio. Pernacchie, trombette, trenini: le reazioni erano quelle, non gli lasciavamo finire le frasi, gli facevamo il verso. Il Maracanà a Milanello o a Coverciano, e lui parlava il portoghese senza saperlo. Parlava anche l’italiano senza saperlo. Lo chiamavo “terrone” e lui mi picchiava, allora per vendicarmi gli rubavo il cellulare e con il suo numero mandavo un sacco di SMS a Braida, il nostro direttore sportivo. Un giorno, nel periodo in cui anche Rino de Janeiro aspettava che il contratto gli venisse rinnovato, ho condotto la trattativa al suo posto. Con un solo messaggino: “Caro Ariedo, se mi dai quello che voglio io ti do mia sorella”. Lui se n’è accorto, mi ha riempito di botte, ha chiamato Braida: “È uno di quegli stupidi scherzi di Pirlo”. Mi è sempre rimasto il dubbio che si sia sentito rispondere: “Peccato”.
De Rossi, prima delle partite dell’Italia lo aspettava in camera, anche per mezz’ora, nascosto sotto il letto. Gattuso arrivava, si lavava i denti, indossava il pigiama leopardato, si coricava, prendeva un libro e guardava le figure. Quando stava per addormentarsi, Daniele allungava le braccia da sotto il letto e gliele metteva sui fianchi. Io invece uscivo all’improvviso dall’armadio, come il peggiore degli amanti, facendo versi terrificanti. Rino la prendeva benissimo, dopo aver rischiato un collasso cardiocircolatorio: le dava prima a lui e poi a me, per par condicio.
Come quella volta che l’abbiamo innaffiato con un estintore.
Pareggiando in Irlanda ci eravamo qualificati per il Mondiale del 2010 in Sudafrica, quindi l’ultima fatica del girone contro Cipro – in programma a Parma quattro giorni dopo – era diventata una specie di amichevole. Di fatto inutile e come tale l’abbiamo preparata. Tra un impegno e l’altro Lippi ci ha concesso una serata libera, a Firenze, siamo andati a cena quasi tutti insieme, Gattuso no, è rimasto in ritiro. Quando siamo tornati eravamo abbastanza ubriachi, anzi molto ubriachi, abbiamo chiacchierato nella hall, non avevamo sonno, dovevamo trovare qualcosa da fare per passare il tempo e l’idea è stata la stessa per tutti: “Andiamo a rompere i coglioni a Rino”. Che stava già dormendo, con la papalina in testa. Mentre salivamo le scale per raggiungerlo in stanza, De Rossi ha trovato un estintore e l’ha preso: “Vado a spegnere Gattuso”. Abbiamo bussato, lui ha aperto, con gli occhi stropicciati, Daniele gli ha scaricato addosso tutto quello che c’era là dentro ed è scappato a nascondersi nella sua camera, che poi era anche la mia. Mi ha lasciato in balia di quel mostro in mutande e pieno di schiuma, che gridava concetti sconnessi; ascoltandolo però avevo capito che si era risvegliato completamente. Che aveva ritrovato una certa lucidità. Ho tentato di scappare, ma ero spacciato in partenza, lo sapevo. Quando alle tue spalle c’è Gattuso che ti vuol fare del male, puoi correre finché vuoi, ma alla fine in qualche modo riuscirà a prenderti. Che tu sia gazzella o leone. De Rossi, con la serratura ben chiusa, faceva lo spiritoso: “Cosa sono questi rumori? Li ho già sentiti nei film di Bud Spencer e Terence Hill…”. Era Rino che mi stava facendo vedere la sua collezione di schiaffi. Ha salutato ed è ritornato nei suoi appartamenti, perché è fatto così, o gioca o resta in ritiro, non si dà alla pazza gioia, non vuole cali di concentrazione, non sopporta la sensazione di aver lasciato qualcosa di intentato per provare a vincere una partita.
E poi è scaramantico da far schifo, tanto che in Germania nel 2006, siccome le cose stavano andando piuttosto bene, ha tenuto per più di un mese la stessa tuta. C’erano quaranta gradi, andava in giro vestito come un palombaro e dai quarti di finale in avanti ha incominciato anche a puzzare. Più che un estintore, sarebbe servito un bidone di lavanda.
È da sempre il mio bersaglio preferito, primo in classifica per distacco, nonostante in diverse occasioni abbia tentato di uccidermi impugnando una forchetta. A tavola, a Milanello, gliene combinavamo di tutti i colori, lo mettevamo in difficoltà, quando sbagliava i verbi (praticamente sempre) glielo facevamo notare, quando li coniugava con i tempi giusti gli facevamo credere che li avesse comunque sbagliati, e lui si innervosiva. Io, Ambrosini, Nesta, Inzaghi, Abbiati, Oddo: il gruppo dei bastardi era composto così.
– “Rino, come stai?”
– “Male, ieri abbiamo perso. Stavo meglio se avevamo vinto.”
– “Rino, riprovaci. Si dice starei meglio se avessimo vinto.”
– “Ma è uguale.”
-“Non esattamente, Rino.”
– “Allora ok. Starei meglio se avessimo vinto.”
– “Rino, ma sei proprio ignorante. Stavo meglio se avevamo vinto, si dice così.”
– “Ma l’ho detto prima.”
– “Cosa, Rino?”
– “Quella storia della vittoria.”
– “Quale Rino? Ce la ripeti?”
Gli saliva il sangue al cervello, si vedeva, non riusciva a mascherare. Tutti insieme capivamo e requisivamo i coltelli, Gattuso si arrangiava come poteva, prendeva una forchetta e tentava di infilzarci. In più di un’occasione i suoi colpi sono andati a segno, hanno raggiunto il bersaglio, affondando nella pelle. Eravamo morbidi come il tonno, quello che si taglia con un grissino. È capitato anche che qualcuno di noi saltasse una partita causa forchettata, anche se i comunicati ufficiali della società recitavano “fuori per affaticamento muscolare”. Scappavamo quando impazziva, lui si calmava e si chiudeva in camera, allora noi tornavamo e gli bloccavamo la porta con i divani, così restava prigioniero senza poter uscire.
– “Liberatemi, tra poco inizia l’allenamento.”
– “Arrangiati, terrone”.
Andava di nuovo fuori di testa, spaccava tutto, ma anche da arrabbiato restava un buono. L’ho sempre visto come un personaggio di Woody Alien, il regista che in assoluto mi piace di più. Me lo immagino con la bava alla bocca, con la maglia numero 8, mentre tenta di recitare battute tipo: “Non mangio mai ostriche, il cibo mi piace morto. Non malato, né ferito. Morto”. Oppure: “Non c’è niente di sbagliato in te che tu non possa curare con un po’ di Prozac e una mazza da polo”. Tra le altre cose l’ho visto catturare e mangiare lumache vive, per scommessa.
È uno da film, e siccome pure io sono regista – sul campo, nella vita – un attore della sua razza non me lo sarei mai lasciato scappare. Dentro uno spogliatoio ci vogliono pilastri del genere, perché il fisico invecchia ma il carisma no, si corre di meno e si conta di più, a livello di personalità.
Ogni sua parola era un ordine, chi arrivava al Milan e sbagliava nei comportamenti, sapeva che come prima cosa sarebbe dovuto passare da Rino per dargli una spiegazione, per giustificarsi, e questo faceva diminuire sensibilmente la possibilità di commettere cazzate. Una volta le cose funzionavano così, e neppure il vecchio Woody avrebbe potuto cambiare più di tanto il finale. Una volta nelle squadre c’erano le bandiere, e delle bandiere si teneva tutto: l’asta, la corda, la stoffa, il prestigio, la capacità di catturare il vento e in casi eccezionali di fame cambiare intensità e direzione, mentre adesso conta solo risparmiare, tagliare stipendi che gli stessi club avevano accordato ai giocatori.
La gente, quando una società inizia a fare i capricci mettendo fuori squadra un suo calciatore che non accetta di abbassarsi l’ingaggio, spesso reagisce d’istinto, dando giudizi, sputando sentenze: ecco il solito riccone che non intende mollare niente. Le persone normali fanno la fame e quelli si vogliono tenere tutti i loro milioni. Peggio dei politici, sono loro la vera casta. Che tirchi maledetti, più ne hanno e più ne vogliono.
Davanti a certe comprensibili reazioni di pancia, mi vengono in mente tante domande, in ordine sparso, non so quanto intelligenti: i dirigenti della società avevano la pistola puntata alla tempia quando si sono accordati con il giocatore per uno stipendio multimilionario? Non è che prima hanno sbagliato i calcoli e poi, quando se ne sono accorti, hanno scaricato tutto sul calciatore, a cui è sempre comodo far indossare la maschera del capro espiatorio? Che ne sanno fuori dallo spogliatoio se un portiere, un difensore, un centrocampista o un attaccante deve mantenere una famiglia molto numerosa, o magari rendere con gli interessi ai propri genitori i sacrifici fatti in passato, o pagare debiti di amici e parenti? Per portarlo nella loro squadra i grandi capi hanno organizzato cene clandestine e appuntamenti segreti, l’hanno ricoperto d’oro, e poi perché quell’oro lo pretendono indietro? Non sono forse loro i bugiardi, quelli che alla fine non sono stati in grado di mantenere la parola data? Perché il datore di lavoro può cambiare quando vuole i termini di un contratto che lui stesso ha ideato? Siamo una categoria fortunata, è innegabile, ma con una dignità. E almeno da questo punto di vista non siamo dei pirla».