«Non c’è più niente da dire, il River Plate è in Serie B. Sta piangendo anche il ‘Tucumano’ Pereyra». Con la voce di Stefano Borghi: River Plate-Belgrano, 2011. È forse una delle telecronache più iconiche di sempre.
È questo il primo flash con cui Roberto Pereyra si è fatto conoscere in Italia. Un giorno tragico per uno dei club più importanti d’Argentina, il River Plate. Con la prima retrocessione della storia. Sono passati quasi 15 anni: quel giovanissimo ‘Tucu’, passato per Udinese, Juventus e Watford, ora gioca nell’AEK Atene, che ha da poco battuto la Fiorentina in Conference League.
Una colonia di ‘italiani’: Brignoli, João Mário, Jović, Strakosha, Marin. E il ‘Tucu’ appunto: «Se parli la stessa lingua, viene tutto più facile. Capisco l’inglese, ma faccio una fatica tremenda: quando lo parlo, gli altri pensano che io li stia prendendo in giro… e invece sono serio!».
«Avrei picchiato Guidolin»
Dopo il baratro con il River Plate, Pereyra lascia l’Argentina e arriva in Italia, a soli 20 anni. Lo vuole l’Udinese: «Ci sono stati subito dei problemi col contratto: qualcosa non tornava. Sono stato 2-3 giorni in albergo. Poi mi hanno detto: ‘Forse devi tornare a Buenos Aires’. E io: ‘E ora che ca*zo faccio?’. Ma loro: ‘O firmi così, o niente’. Non volevo altro: ‘Io sono qui per giocare a calcio. Risolviamo tutto: voglio rimanere’».
Nonostante le immediate difficoltà, Tucu è convinto. La Serie A è un’occasione troppo importante per ripensarci: «È stata lunga, però non volevo tornare indietro. A Udine ho dato tutto me stesso: sono stato giorni interi lì fra allenamenti, riunioni, ritiri mettendo in secondo piano la famiglia, ma rimarranno per sempre nel mio cuore». Fra alti e bassi, dal 2011 al 2014 prima, e dal 2020 al 2024 poi. Tucu ha lasciato il segno a Udine.
Ma è stato tutt’altro che in discesa. Al suo arrivo, in panchina c’è Francesco Guidolin, un allenatore di altri tempi: «Una volta a cena ho detto a Guidolin: ‘Ti avrei voluto picchiare per come mi hai trattato i primi 6 mesi all’Udinese’. Siamo scoppiati a ridere. Lui era un tipo nervoso, urlava sempre in allenamento. Io mi dicevo: ‘Ma che sta facendo questo signore?’».
Roberto soffre il salto: «I primi tempi a Udine è stato complicato: là alle 20 avevano già cenato, io per quello’ora uscivo per fare spesa… e trovavo tutto chiuso. Poi non capivo la lingua, gli allenamenti erano diversi. Tutta roba nuova: tattica, alimentazione. Sono stato davvero male».
Nei primi 6 mesi è stato un oggetto misterioso: «Guidolin è stato un maestro, ma all’inizio non mi faceva giocare. Tornavo a casa urlando: ‘Me ne vado, non gioco e non capisco perché’. Ho sopportato ritiri, viaggi, doppi allenamenti. Mi dicevano: ‘Pereyra devi migliorare qua e là’. E io dovevo andarci. Facevo tutto, poi arrivava il giorno della partita e il mister diceva: ‘Questa è la formazione, in panchina ci vanno loro e in tribuna questi 3’. Fra i 3 c’ero sempre io».
In quel Natale è cambiato poi tutto: «Mi sono detto: ‘è il mio momento. Torno a casa una settimana e poi torno’. Lì sono rinato. È cambiato qualcosa dentro di me. Dallo stare in panchina senza giocare per tante partite di fila fino ad essere titolare per 2 anni. Da quel momento Guidolin non mi ha più tolto dal campo. ho giocato in tutti i ruoli del centrocampo. Alla fine devo ringraziarlo».
L’Udinese di Di Natale, Muriel, Bruno Fernandes
Quella era un’altra Udinese, piena di talento, qualità e garanzie. Come Di Natale, Benatia o Handanovič, ma anche Muriel e Bruno Fernandes. A prendersi la scena, però, come sempre era Totò: «Non era normale. Si allenava due volte a settimana: faceva la rifinitura, si presentava alla partita e ti faceva vincere. Quando si allenava, prendeva uno dei portieri delle giovanili e iniziava a calciare: punizioni, rigori, tiri. Tutti gol. Io lo guardavo e rimanevo a bocca aperta. Provavo pure ad imitarlo, ma niente. È stato il più forte con cui ho condiviso lo spogliatoio in quel periodo».
Di Natale non è stato l’unico compagno a stupire il Tucu: «A me piaceva tantissimo anche Muriel, magari non segnava tanto, ma aveva un talento incredibile. Poi c’erano Benatia, Handanovič, Zieliński: era un’Udinese forte. E poi Bruno Fernandes: ai tempi non era titolare, ma poi si è trasformato. Si vedeva già la sua qualità, il talento… e la personalità soprattutto!».
La prima esperienza a Udine dura 3 anni: dal 2011 al 2014. Poi cambia: Juventus e Watford. Torna a giocare nell’Udinese nel 2020. Anche lì aveva ritrovato tante sue vecchie conoscenze: «Al mio arrivo c’erano Okaka, che avevo conosciuto al Watford, e De Paul. Poi è arrivato anche Deulofeu. Quando mi hanno detto che l’Udinese mi voleva di nuovo, ho accettato senza pensarci: con loro potevo tornare a divertirmi».
«La Juventus ha bisogno di un magazziniere?»
Da incognita a leader di una squadra. Nel 2014 Roberto lascia l’Udinese per la Juventus: «Quando ho saputo del loro interesse, ho detto: ‘Che vado a fare? Al massimo il magazziniere’. In quella Juventus c’erano dei mostri: davanti avevo Pirlo, Pogba, Marchisio, Vidal. Sapevo di partire indietro, ma dovevo giocarmela. Non sai mai cosa può succedere. Pensavo: ‘Vai e vedi. Magari dopo una settimana ti dicono ‘grazie Pereyra, puoi andare’». L’impatto è stato forte: «Ricordo ancora le loro prime parole: ‘Qua si gioca solo per vincere’. Io muto pensavo: ‘Oh, caz*o’».
E invece Massimiliano Allegri ci punta. Tucu gioca con continuità, si ritaglia il proprio spazio: «Hanno dimostrato di volermi veramente. Per il mister ero il primo cambio, ma ho giocato molto anche da titolare. Davo tutto me stesso e Allegri lo vedeva. Lui era un vero uomo di spogliatoio: rideva, scherzava, si sentiva in corridoio che urlava. A volte entrava con l’asciugamano sulle spalle… E mi faceva: ‘Dai Tucu, andiamo in sauna’. Non te lo aspetti da un allenatore, ma era un modo per compattare il gruppo».
Il livello richiesto, però, era altissimo. Sempre: «Non ti regalavano nulla. Un giorno non mi sono presentato a fare un’attivazione prima di un allenamento. Il mister è venuto da me: ‘Perché non sei andato?’. E io: ‘Mister, sono un po’ stanchino’. Lui: ‘Così non va bene eh, la prossima volta te ne vai’ ».
La finale di Champions e l’addio: «Ora mi direi: ‘Ma dove vai?’»
Con la Juventus Pereyra gioca anche la finale di Champions League 2015 contro il Barcellona. Quello della MSN: Messi, Suárez, Neymar: «Spiegare cosa si prova in quei momenti è difficile. Avevi tutti attorno: flash, tv, gente. Ma lì non ci fai caso: vuoi solo giocare. Per tutta la settimana si è parlato solo di quello».
Nello spogliatoio, però, ci garantisce che c’era tranquillità. Questione d’abitudine: «Buffon, Bonucci, Barzagli, Chiellini erano sereni. Lo percepivi, sempre. Ma in allenamento andavano tutti fortissimo. Alla Juventus era come giocare una partita ogni giorno. Il livello era altissimo. Arrivavi alla domenica sapendo già che avresti vinto».
Nella stagione successiva, però, il Tucu viene fermato dagli infortuni e trova sempre meno spazio. Per questo si lascia tentare dalla Premier League e dal Watford: «I primi tempi mi chiedevano: ‘Ma scusa: tu eri alla Juventus e sei venuto qui. C’è qualcosa che non torna’. E io rimanevo come un cog*ione. Rispondevo: ‘Che dovevo fare? Io sono venuto per giocare a pallone’. Lì per lì non mi rendevo conto di essere stato al top del livello mondiale. Non dovevo andarmene via: quello rimarrà per sempre il mio rimpianto. Per molto tempo è stata una ferita aperta, mi faceva male».
Anche perché ha dimostrato di poter giocare in quella Juventus: «Se al giorno d’oggi mi dicessero: ‘Hai 23 anni, sei alla Juventus, vuoi andartene con altri 3 anni di contratto?’. Dico: ‘Dove vai? Impossibile. Non esiste’. Ma in quel momento pensavo: ‘Ma se rimango e non gioco per 3 anni, che calciatore sono?’. Magari sarei tornato in Serie B».
D’altronde anche l’esperienza al Watford non è stata semplice per uno cresciuto nel calore argentino: «Mi alzavo, aprivo la finestra: pioggia. Sempre. Dicevo: ‘Ma dove sono venuto? Quando caz*o esce il sole?’. Lo vedevo una volta all’anno. È stato pesante, anche perché non parlavo l’inglese. Ricordo Mazzarri che mi rompeva le pa*le, scherzando: ‘Oh Tucu, quand’è che vieni al Watford?’. Ho accettato. Ma non me ne pento, anche quella scelta mi ha portato a essere ciò che sono oggi».
L’infanzia a Tucumán
Italia e Inghilterra sono state le tappe principali della carriera di Pereyra. Non male, soprattutto pensando al punto di partenza, San Miguel de Tucumán, la quinta città più grande dell’Argentina: «Da bambino raccoglievo limoni e vendevo il gelato in casa. A volte si mangiava, altre no. Spesso andavamo a chiedere il cibo o il vicino ci ospitava. Pagavamo a fine mese. Mio padre un giorno aveva un lavoro, un altro no. Mia madre invece lavorava nella case-famiglia. Mia sorella e mio fratello a volte non andavano a scuola per tenere me. Questa è stata la mia infanzia».
Negli anni Roberto ha cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. Adesso è padre, ma non dimentica il passato: «Per me è difficile dire di no ai miei figli: non voglio che i miei figli vivano ciò che ho passato io. Io dicevo: ‘Voglio quelle scarpe o quel pallone’. E i miei genitori: ‘Roberto, smettila. Non abbiamo i soldi’. Io da piccolo non mi divertivo, ma mi è toccata quella vita e l’ho affrontata. Cerco di trasmettere i miei valori, i miei insegnamenti. Loro hanno tutto, io non avevo niente. Ma mi è servito. Senza quella vita lì, non sarei arrivato dove sono adesso».
Una cosa che ha unito la sua famiglia è sempre stato l’amore per il River Plate: «Per il River io ho lasciato casa a 15 anni. Sono andato a 1200km di distanza. Ricordo il giorno in cui ho detto ai miei: ‘Vado a Buenos Aires’. Loro disperati: ‘No, non andare Roberto. Sei ancora piccolo’. Ma avevo deciso, era la mia occasione. È stata una sofferenza: sono stato male, piangevo tutti i giorni. Ma per raggiungere i tuoi obiettivi devi soffrire e vivere cose a cui la gente neanche pensa».
La retrocessione del River Plate
Anche se il Tucu, uno dei prodotti del settore giovanile, è entrato nella storia dalla parte sbagliata con quella retrocessione. E una telecronaca iconica: «Quando mi hanno fatto vedere quella telecronaca per la prima volta ho detto: ‘Ca*zo, sono famoso anche in Italia’. Ancora oggi mi capitano i video: è virale».
Una telecronaca eccezionale, per una giornata da incubo: «Quel giorno per noi è stato un disastro. Il River Plate è da sempre un club grandissimo, ma lì eravamo tutti ragazzini: io e Lamela avevamo 18/19 anni, altri addirittura 17. In quel momento non ci rendevamo conto di quello che sarebbe potuto accadere. A quell’età non eravamo coscienti. Ci sono stati scontri, tensioni. È stata una giornata tremenda. Anche per la mia famiglia. Mio padre è da sempre un super tifoso del River».
Le Copa América con l’Argentina di Messi
Nonostante abbia lasciato il proprio Paese ad appena 20 anni, Pereyra è rimasto legatissimo all’Argentina. Nel 2015, ai tempi della Juventus, è arrivata anche la prima convocazione con l’Albiceleste: «Nella mia carriera è stato tutto veloce: a 18 anni ho esordito al River, a 20 ero all’Udinese, a 23 alla Juventus e lì è arrivata la prima convocazione. Nel 2015 ho giocato la Copa América: io e Tévez siamo partiti da Berlino, dopo la finale col Barça. C’erano pure Mascherano e Messi».
E il Tucu si ricorda anche i primi momenti accanto a Leo: «La prima volta che ho visto Messi ho provato un po’ di vergogna. Nello spogliatoio o mentre facevamo colazione, lo guardavo. Lui già spaccava tutto. Poi mi sono abituato: bevevamo mate o giocavamo a carte. Non mi rendevo conto, era normale per me. Poi la mia famiglia mi chiedeva: ‘Che fai?. E io: ‘Ma niente, ho giocato con Leo’. E loro impazzivano, non potevano crederci».
Con l’Argentina ha giocato due tornei: oltre alla Copa América 2015, è stato convocato anche per quella del 2019. Prima, dunque, dei trionfi nel 2021 e nel 2024 e nel Mondiale del ’22: «Vivere un torneo con la nazionale è divertente: vivi in simbiosi. Fai colazione, bevi il mate, giochi le partitelle e c’è sempre la musica. Ti ritrovi in un mondo che sognavi da bambino».
Un qualcosa che va oltre qualsiasi risultato: «Nel 2015 abbiamo perso la finale in Cile, mentre nel 2019 siamo usciti col Brasile in semifinale. Un peccato». Non c’è dunque la firma del Tucu sui successivi titoli. E lo dice con grande rammarico: «Sono stato convocato fino al 2020, poi mi hanno lasciato fuori dalla Copa América vinta nel 2021. Nessuno mi ha mai spiegato il perché. Ci sono rimasto male. Essere tagliato fuori all’improvviso è stato brutto. Avrei preferito che Scaloni mi dicesse qualcosa, altrimenti posso solo farmi dei pensieri. Sapevo che poi al Mondiale non mi avrebbero chiamato. Ma è stato comunque stupendo: rappresentare il tuo Paese è un orgoglio».
Il presente dice AEK Atene, ma il futuro?
Dopo aver chiuso i capitoli Argentina e Udinese, Pereyra si è trasferito ad Atene: «Tutt’altro mondo: si sta benissimo. 20 gradi anche a novembre-dicembre. È stato importante per me ritrovare tanti ‘italiani’».
A 34 anni, per il Tucu è anche tempo di bilanci: «Forse avrei potuto avere una carriera diversa se avessi preso altre decisioni. Non mi pento di ciò che ho fatto, soprattutto se penso da dove sono partito. Non è stato semplice: senza famiglia o amici, da bambino. Ti perdi tutto e quel tempo non torna più».
Da quando ha 15 anni torna a casa due volte all’anno. Il tempo passa, il cuore è in Argentina, ma la testa in Europa: «Spero di non sbagliare un’altra decisione. Cerchiamo di azzeccare la prossima! Non credo che tornerò in Argentina: i miei figli sono nati e cresciuti con la cultura europea, ma non si sa mai. D’altronde, dopo tutte le decisioni sbagliate che ho preso, sono comunque arrivato qui: Premier, Serie A e Argentina. Cosa posso volere ancora?».
