a cura di Lorenzo Cascini

La terza squadra della Capitale si chiama Roma City e ha il 2° centro sportivo più grande d’Europa

Tutto parte da Roma, passando dagli Stati Uniti e facendo ritorno a casa.

Alle origini del progetto Roma City c’è un’idea buttata lì per caso in una spiaggia a Miami davanti a un cocktail, con vista su grattacieli che dominano la città guardandola dall’alto in basso. «Fondassimo una squadra di calcio?». Stella polare di un sogno che con il tempo ha preso forma ed è diventato realtà. Sì, ma cosa c’entra con la Capitale? Ci arriveremo. I protagonisti del dialogo sono i fratelli Doino, partiti da Roma trent’anni fa per cercare fortuna oltreoceano. Si erano imbarcati poco più che ventenni su una nave da crociera, hanno girato il mondo per poi trovare in Florida la loro isola felice. L’obiettivo però è sempre stato quello di tornare.

 

E ora lo hanno finalmente realizzato. Oggi, infatti, Tonino – il più grande dei due – è presidente e deus ex machina del Roma City. «Siamo una realtà ambiziosa, puntiamo in alto». Visione e voglia di stupire. 

 

Quella del club è una struttura che non ti aspetti di trovare in Serie D. Organizzazione, regole ferree e sguardo volto al futuro. Un unicum. Soprattutto perché sono i fatti a parlare

 

Ma per prima cosa, andiamo con ordine e inquadriamo il contesto. Il campo base è Riano, a una decina di chilometri da Roma. Il centro sportivo è il secondo più grande d’Europa, uno di quelli che quando entri resti a bocca aperta. Si estende per più di 40 ettari. C’è uno stadio da 2500 posti, quattro campi in erba naturale, una piscina olimpionica, un ristorante e un convitto con oltre 40 posti letto. In poche parole, una cittadella dello sport. Bene che i ragazzi pensino solo al calcio, al resto pensa il Roma City. «L’obiettivo è quello di costruire anche un albergo per poter ospitare le grandi squadre che magari verranno a Roma a giocare la Champions. Poi sono in programma altri due campi in erba naturale e alcuni in sintetico per il settore giovanile». 

 

 

Il racconto è affidato a Claudio Carelli, direttore sportivo del club. Lui, che ha avuto compito di formare la squadra partendo da zero. «È normale che all’inizio ci siano state delle difficoltà, siamo una società nuova che è nata a luglio. Come credo ce ne saranno altre nel corso del tempo. Ora stiamo lottando per la salvezza ma pensiamo in grande, vogliamo toglierci delle belle soddisfazioni. Con strutture e fondi così non puoi che puntare al professionismo». Lo dice forte e chiaro, senza mezze misure. Ma d’altronde come dargli torto. «Il centro sportivo è da Serie A. Abbiamo un presidente che ci segue sempre e che ha voglia di fare le cose in grande».

 

Puntare al professionismo dopo un investimento da più di 20 milioni è l’obiettivo minimo. Ma il Roma City non è solamente organizzazione, strutture e soldi spesi. Per averne la prova però, bisogna spostarsi di qualche metro e buttare un occhio sul campo. Nel gruppo di ragazzi che corrono, ce ne sono un paio che catturano l’attenzione. Modibo Diakitè e Simone Iacoponi, nomi noti. Insieme contano quasi trecento presenze in A. Lazio, Fiorentina e Cagliari il primo, una vita nel Parma per il secondo. Ma ci torneremo. «Fanno da chioccia ai più giovani. C’è anche Napoleoni, che è il nostro centravanti. Anche lui ha fatto tanti anni nei professionisti, ha giocato anche nel Basaksehir con Robinho e Adebayor. Tutti e tre, Stefano, Modibo e Simone, sono fondamentali per l’equilibrio del gruppo. Come li abbiamo convinti? Li abbiamo portati da noi, gli abbiamo illustrato il progetto e mostrato il centro. Sono rimasti incantati. Il resto lo ha fatto la loro voglia di ripartire e di rimettersi in gioco ». 

 

 

Ma non ci sono solo loro. «Hanno sicuramente un peso diverso in spogliatoio, ma in generale penso che siamo riusciti a creare una bella alchimia nello spogliatoio. C’è il giusto mix tra giocatori esperti e giovani«». Uno di loro è Mirco Mancino, seconda punta del 2003, con un passato prima nella Roma di Zalewski e Bove e poi nella primavera della Lazio allenata da Calori. Lì il suo compagno di reparto era Etienne Tare, figlio del Ds biancoceleste. «Roma e Lazio sono due mondi differenti, bellissimi entrambi anche se per aspetti diversi. Io poi, dopo la primavera, ho scelto di provare un’esperienza all’estero ma sono dovuto tornare indietro per problemi familiari. Ero rimasto svincolato e il Roma City mi ha convinto. Una struttura di allenamento simile, tra palestra, ristorante e campi, la avevo vista solo a Trigoria». Non è solamente il centro sportivo però ad averlo stregato. «Assolutamente no. Ho parlato a lungo con il direttore e con il presidente e ho capito che hanno intenzione di puntare in alto, anche se ci vorrà del tempo. Poi la presenza di giocatori che hanno fatto la Serie A o giocato in Europa ti dà una spinta in più. Ogni tanto capita che raccontano aneddoti su giocatori che io usavo alla PlayStation o che speravo di trovare nelle figurine. Cose di un altro pianeta proprio. Spero di imparare il più possibile da loro, rubando con gli occhi e ascoltando sempre». 

 

La parola d’ordine del progetto Roma City deve essere quindi pazienza. Punto cardine della scalata, picconata dopo picconata si arriverà in alto. Non basta spendere tanto, ci vogliono anche progettualità e cervello. «La nostra sarà un’evoluzione graduale – conclude il direttore sportivo Carelli – si deve crescere in maniera continua e vincente. Un passo alla volta». Oggi la squadra deve salvarsi in D, poi piano piano, potrà alzare l’asticella e sognare in grande. «Vogliamo creare un progetto che parta dai giovani, senza fretta». Idee chiare, con un occhio a quello che verrà. Le fondamenta sono salde e il progetto è in costante espansione, sognare quindi è lecito. Magari di arrivare fino alla punta del grattacielo, che quel giorno a Miami Beach guardava tutti dall’alto in basso.